Il 14 aprile i tarantini alle urne. Per la CGIL si tratta di un "esercizio sterile". In realtà il volere dei cittadini spaventa anche Confindustria e la CISL che già in passato hanno promosso ricorsi al TAR
Il 14 aprile è una di quelle date che, per la città di Taranto, passerà sicuramente alla storia; dopo qualche anno di battaglie giudiziarie, a colpi di ricorsi al Tar e pronunciamento finale del Consiglio di Stato, si celebrerà il referendum proposto dal Comitato Taranto Futura nell'ormai lontano 2007. I cittadini di Taranto avranno, finalmente! ci viene da esclamare, l’opportunità di esprimere il proprio parere rispetto alla ipotesi di chiudere lo stabilimento siderurgico o, in alternativa, di mantenere in vita solo l'area a freddo. Terza ipotesi ovviamente quella di lasciare tutto inalterato esprimendo voto contrario.
Sì o no
Si tratta di un referendum consultivo, assolutamente ininfluente sul piano delle azioni concrete ma importantissimo sul piano politico. Per essere più chiari: se dovessero vincere i sì alla chiusura parziale o totale dello stabilimento siderurgico non accadrebbe nulla di concreto. L'Ilva continuerebbe a sfornare acciaio, così come la nota vertenza giudiziaria continuerebbe il suo corso. Qualche giorno prima, il 9 aprile, è attesa la seconda pronunzia della Corte Costituzionale che dovrà esprimersi sulla ipotesi di anticostituzionalità della legge 231/212, per intenderci quella che gli ambientalisti chiamano "legge salva-Ilva". Perché allora andare a votare? e, ancora, perché c'è chi continua a battersi perché il referendum, ormai inevitabile, fallisca? Lo abbiamo detto prima parlando di significato politico. La risposta al primo quesito viene dalla definizione stessa di referendum, ovvero uno «strumento di democrazia diretta che consente cioè agli elettori di fornire (senza intermediari) il proprio parere o la propria decisione su un tema specifico oggetto di discussione.»
Tutti alle urne
Va da sé che perché questo parere sia espressione reale della maggioranza dei cittadini è necessario che vada a votare il maggior numero di elettori possibile. Anche per questo tutti i regolamenti prevedono il raggiungimento del cosiddetto quorum. Perché il referendum abbia validità occorre infatti che vada votare almeno il 50%+ 1 degli aventi diritto. Andare a votare quindi rappresenta l'esercizio di un diritto, ma anche un segno di rispetto delle regole democratiche. Perché allora c'è chi il referendum lo ha ostacolato fino alla fine e ora prova a farlo fallire? Innanzitutto se andasse a votare la maggioranza degli elettori e vincessero i Sì, sul piano politico bisognerebbe prendere atto della volontà popolare e uniformare tutte le decisioni e i comportamenti; lo si evince dall'art. 13 del regolamento comunale che recita: «Il quesito sottoposto a referendum è approvato se alla votazione ha partecipato la maggioranza degli elettori e se ha conseguito la maggioranza dei voti validamente espressi. Quando al referendum ha partecipato la maggioranza degli elettori, il Consiglio Comunale è tenuto a deliberare entro 30 giorni dalla proclamazione dei risultati della consultazione, sia se intende conformarsi al risultato di essa, indicando i provvedimenti ed i tempi di attuazione, sia se intende discostarsi. In quest’ultimo caso il mancato recepimento delle indicazioni referendarie deve essere assunto dal Consiglio Comunale con deliberazione motivata.»
Volontà popolare
E' evidente che il comune non ha il potere di chiudere uno stabilimento siderurgico, ma può adottare provvedimenti che vadano in una certa direzione anziché in un'altra. Il sindaco, ad esempio, può emanare ordinanze e prescrizioni. Ma, soprattutto la volontà popolare, quando espressa in modo chiaro e senza intermediari, va tenuta in considerazione prima di adottare decisioni fondamentali per il futuro della città. Ciò che per oltre sessant’anni non è mai avvenuto e che, più di qualcuno, vorrebbe non accadesse mai. Chi? L'Ilva, ovviamente, ma anche la Confindustria, la CGIL e la CISL che hanno promosso nel passato ricorsi al TAR. Ricorsi vinti in prima battuta. Ma l'avvocato Nicola Russo, presidente del Comitato Taranto Futura, non si è mai arreso e alla fine il Consiglio di Stato gli ha dato ragione. La CGIL, nonostante tutto, continua ad opporsi, affermando che «era ed è sbagliato proporre ai cittadini tramite referendum, ancorché consultivo, un pronunciamento su temi importanti legati a diritti fondamentali di rilievo costituzionale come la salute e il lavoro, specie se si è consapevoli che l’Amministrazione Comunale non ha poteri per agire in maniera diretta. Si tratta quindi di un esercizio sterile, tanto più all’indomani di interventi legislativi di carattere nazionale e regionale che sono intervenuti sulla vicenda ILVA. »
“Sterile” a chi?
Per questo, al termine di una nota stampa il sindacato della Camusso conclude: «Per queste ragioni la CGIL di Taranto con il dovuto rispetto verso un Istituto di partecipazione popolare, come il Referendum Consultivo non intende partecipare alla campagna referendaria ne dare indicazioni di voto.» Una affermazione in parte pleonastica e in parte da interpretare. Scontato il fatto che, per la natura stessa del referendum, che prevede che non vi siano intermediari e che i cittadini si esprimano in piena libertà, partiti, sindacati, associazioni, debbano comunque astenersi dall'influenzare l'opinione degli elettori. Appare evidente però il tentativo di dissuadere i cittadini invitandoli, pur indirettamente, a non votare. E su questo ci permettiamo di dissentire; l'esercizio di un diritto non è mai "sterile". E, soprattutto, non si può pensare di attribuire a uno stesso strumento, nel caso il referendum, valori diversi a seconda del convenienze del momento. Se il referendum dovesse fallire non sapremo mai cosa pensano i cittadini e si amplierebbe il conflitto sociale da tempo sviluppatosi sulla questione Ilva e futuro di Taranto. Molto meglio allora andare a votare in massa. Questa è vera democrazia.