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Vincenzina ha timbrato l'ultimo cartellino

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

5
APR
2013

 

Il brusio si è fatto mano a mano sempre più flebile e infine sessantamila persone si fondono in un unico possente respiro. Sono seduto in alto nella curva che sovrasta la porta di Maratona in questo tardo pomeriggio del dolce settembre bavarese. A diciannove anni mi sono appena lasciato alle spalle le austere mura del Tito Livio per iniziare il mio percorso di vita e, seduto sugli spalti dell’Olimpiastadion, guardo un mio coetaneo e corregionale che mordendo con rabbia il tartan della pista d’atletica sta iniziando a scrivere le pagine di una leggenda inimitabile. Sette anni dopo quel ragazzo, dalla corsa rabbiosa e ingobbita, nel rarefatto inquinamento di Città del Messico ha cinto la corona di un regno durato per diciassette anni, incarnando anche quel volto triste dell’America latina, sud del mondo, celebrato da un cantautore immaginifico, simbolo di una milanesità al contempo aristocratica e proletaria. Alla fine degli anni Settanta, ancora studente in Medicina, ho incrociato spesso nelle corsie dell’Ospedale Sacco i passi di quel cardiochirurgo che ha scritto molte colonne sonore della vita degli italiani. Ci ha parlato con una leggerezza profonda degli ultimi, dei derelitti, dei reietti, di scarpe da tennis, di drammi della gelosia, di bande malavitose di vecchio stampo, provviste di codici d’onore oggi sconosciuti, in anni nei quali la Milano da bere li ignorava fingendo che non esistessero. Un viaggio, il mio, lungo una vita dalla Puglia alla Lombardia costellato da mai cessati corsi e ricorsi romani. Incontri, cercati o casuali o predestinati, che profumano tutti di umanità come è accaduto una sera di pochi anni fa. Sono seduto già da troppo tempo al mio posto sull’ultimo volo della sera da Fiumicino a Orio al Serio, aspettando che il comandante si decida a rullare sulla pista. Sono stanco e anche arrabbiato dopo due giorni di lavoro che non sono stati né proficui né piacevoli. Appena prima che chiudessero il portellone una figura corpulenta si staglia in fondo al corridoio e, con non poche difficoltà, lo percorre fino alla poltroncina accanto alla mia. Con quei capelli ormai radi e il setto nasale completamente appiattito sugli zigomi gonfi non posso non riconoscerlo. Molte delle sue canzoni hanno segnato stati d’animo diversamente inesprimibili. Ho 50 minuti per appagare alcune curiosità senza scivolare nell’indiscrezione e scoprire, non senza stupore, uno spessore morale tenuto celato dal dipanarsi di un racconto esistenziale che era più facile tratteggiare con i voyeuristici caratteri della superficialità. Un uomo che ha amato molto e molto è stato amato forse proprio per la difficoltà di amare soprattutto se stesso. Non è un caso che il suo epitaffio lo abbia accompagnato per tutta la vita: tutto il resto è noia!
Così nel breve volgere di una settimana si sono chiuse altre tre finestre affacciate sul mio mondo e mi rendo conto, anche con un po’ di sgomento, che ne rimangono poche ancora aperte. Vincenzina ha timbrato l’ultimo cartellino e anche la sua fabbrica sta per chiudere definitivamente.
 


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