Un operaio dell’Ilva racconta il disastro ambientale, l’inerzia e la connivenza delle istituzioni, la corruzione dei dirigenti e lo sfascio di intere generazioni, plasmate a uso e consumo della fabbrica. Ma una speranza rimane
Dunque, dov’eravamo: ripercorrendo le ultime vicende Ilva, il Governo con un Decreto appena approvato al Senato, sancisce il risanamento con l’elargizione di 400 milioni di euro da parte dell’azienda stessa; ribadendo le prescrizioni del GIP, dichiara la chiusura degli altiforni 1 e 5 perché più vecchi e più inquinanti, e le Batterie 5 e 6. Per i Parchi Minerari non è prevista la copertura, ma saranno presi altri provvedimenti. Ferrante, dal canto suo, è pronto a investire subito 250 milioni di euro, ma a patto che non si fermi la produzione, e che sia stilato un patto tra Stato e Regione che preveda una distribuzione di finanziamenti tra il Governo e l’azienda. Quanto ai lavoratori, nessuno rischierebbe il licenziamento, ma a quanto pare c’è qualcuno che se ne infischia, basta che si risani! L’operaio in questione lavora in officina generale e ha 50 anni.
Da quanto tempo lavori in Ilva?
«27. Ho lavorato prima con alcune aziende dell’indotto dall’’85; ho vissuto il passaggio dal pubblico al privato dell’azienda, vedendo la fine della prima generazione entrata nel ‘60, durante il boom economico. QQQqQQqqqquasi tutti lavoratori che erano passati dalla coltura delle cozze a provetti meccanici».
E poi?
«Nel ‘70 era così tanto il bisogno d’acciaio che c’è stato il raddoppio dell’impianto, la seconda linea di laminazione. Nell’’80 invece c’è stata la prima crisi dell’acciaio mondiale. A Taranto c’è sempre stata la monocultura del siderurgico: l’Istituto Righi, dove mi sono diplomato, ha sfornato intere generazioni di periti meccanici in funzione del loro inserimento in Ilva. Il passaggio avveniva direttamente, era l’azienda che ricercava i suoi futuri operai all’interno della scuola, anche i professori ci indottrinavano a questo. Certo, è tutto collegato se si nasce in una famiglia in cui il papà è operaio Ilva, la mamma è casalinga, e gli zii lavorano alla Fincantieri e all’Ansaldo, aziende dell’indotto; ciò ha agevolato la diffusione del pensiero che Taranto potesse evolversi solo con la produzione dell’acciaio. Quando c’è stato il primo crac economico, città dell’America o dell’Europa hanno rivalutato il proprio futuro, in alternativa all’acciaio, come Bilbao o Pittsburgh, dove gli stessi padroni, spinti da leggi mirate, hanno voluto salvaguardare la situazione e il territorio, nei tempi giusti. A Taranto la classe politica è stata usurpatrice, disinteressandosi di tutto; è assurdo continuare a utilizzare 5 altiforni e 4 colate continue».
Ma esiste una formazione all’interno dell’azienda? Mi dicevi che gli operai sono passati dalle cozze alla manutenzione meccanica.
«Certamente: i primi meccanici provenivano dall’officina Galileo o da quelle del cantiere Tosi, le uniche officine meccaniche. Le prime formazioni erano altamente competenti e professionali, al contrario di oggi».
Cosa intendi?
«L’ingegner Capogrosso, ex direttore Ilva, si è circondato di gente incompetente, ha creato delle sue figure subalterne che hanno sviluppato una casta totalmente inefficiente. Nelle officine in cui lavoro da 12 anni non c’è gente capace, si sono fatti degli errori assurdi, andate in fumo partite di centinaia di migliaia di euro, perché non sono stati capaci di prendere delle misure esatte, e all’insaputa di Riva per giunta. Strumenti inutilizzati da un milione di euro. Si è creato un nepotismo pazzesco: parenti e amici degli amici, preposti a gestire le macchine utensili senza che ne siano capaci».
La cultura aziendale è imposta all’operaio? Viene fatta una sorta di lavaggio del cervello?
«Dal momento in cui entri, l’azienda ti dice: “Un posto migliore di questo non lo trovi, dove vai? Io non ti faccio fare nulla perché c’è sempre chi fa il lavoro per tutti, non esistono scioperi e quando vuoi mi chiedi gli straordinari”. Personalmente sono anni che non faccio straordinari, perché non mi interessa, fortunatamente svolgo lavoretti al di fuori dell’azienda, che mi hanno permesso di far laureare mio figlio e tra un po’ anche mia figlia».
Ma che aria tira là dentro, che si dice?
«Aria di rassegnazione, paura. Un continuo dire: “Che dobbiamo fare? Dove dobbiamo andare? E se chiude? Tu hai 50 anni - mi dicono - io ho ne ho 30, il mutuo da pagare e una figlia di 3 anni che deve crescere”».
Ma è vero che se spengono gli impianti si inquina di più?
«Alcuno sono già stati spenti e rifatti, occorre un anno, un anno e mezzo, ma il problema è che spegnerli significherebbe azzerare la produzione, e logicamente non conviene. L’Afo 4 è stato riacceso 10 mesi fa, ed è stata fatta l’inaugurazione con Monsignor Benigno Papa, il nostro Governatore e il nostro Sindaco».
Ma c’è informazione all’interno dell’azienda?
«E’ questione di cultura personale, e nonostante il livello si sia alzato essendoci molti diplomati, il tipo di cultura è quella calcistica e delle veline; quando provi a parlare di politica in mensa c’è sempre chi ti ascolta, ma la maggior parte si alza e va via a vedere i video sui telefonini».
Tutte le manovre illegali erano palesi?
«Certo, c’è sempre stata omertà , cioè si è sempre saputo ma fino a che la magistratura non ha esposto le prove, tutto si è taciuto. Ci sono stati scandali pazzeschi, pezzi del magazzino venduti dai consulenti di Riva, ingegneri che hanno fatto appalti falsi, tutti agli amici fidati di Belluno, Brescia e Milano».
Se dovessi chiedere qualcosa a Riva?
«Sono con i Verdi, ho sposato completamente la loro politica e sono per la riconversione della fabbrica. C’è da dire che se gli impianti sono incompatibili tale restano, perché sono stati fatti nel ‘59-60 con una tecnologia arretrata. O l’Ilva spende miliardi di euro e fa linee di acciaio con zero emissioni e zero versamenti nelle falde, o va via!».
Ma in azienda lo sanno che stai dall’altra parte?
«Eccome, sono additato, ma non ho mai avuto minacce, ho litigato parecchio, con il caporeparto soprattutto. Quando hanno pagato gli operai per scioperare sono stato dentro e mi hanno istigato a licenziarmi: secondo loro dovrei combatterli da fuori non da dentro. Io devo farla all’interno dell’azienda la lotta, perché se l’Ilva chiude, chiude per me ma anche per loro».
E al Governo cosa chiederesti?
«Di intervenire; non hanno messo neanche alberi all’ospedale Testa o al Moscati, né un reparto per la prevenzione dove il cittadino possa effettuare visite mediche gratis, a spese di Riva, come è stato fatto a Pittsburgh. Bisogna girare la chiave e dare alla città la possibilità di crescere con l’interportualità, l’agricoltura, un grosso polo universitario, e un grosso polo ospedaliero per la gente anziana, immerso nel verde magari. Il problema è che ancora la monocultura dell’acciaio predomina: io sono nato e cresciuto nel quartiere Tamburi, dove vivono ancora i miei genitori che non percepiscono il senso della tragedia. Loro associano la tragedia alla catastrofe, al terremoto e all’alluvione, alla perdita del mattone in pratica, e mi danno del matto mostrandomi una foto scattata anni fa, quand’ero ragazzino e giocavo a pallone a ridosso dei parchi minerari: noi siamo totalmente inquinati, siamo nati con le ciminiere, la tragedia è nell’aria. Basta con le morti premature, bambini, ragazzi di 30 e 40 anni; io ho la voce rauca pur non fumando».
Tra 20 anni come la immagini Taranto?
«Dipende da quello che succederà in questi giorni, ero ottimista, ma ho assistito troppe volte a gente che ha cambiato idea, partito, visione del mondo e della politica; non mi meraviglierei se scoppiasse tutto in una bolla di sapone. Fermo restando che questo è il momento, o ora o mai più. Noi abbiamo i vigneti, il mare, e penso che la natura sia così forte che se si smettesse di inquinare, si riprenderebbe tutto, tornerebbero anche le donzelle, un pesce particolarmente sensibile all’inquinamento, colorato con una striscia bianca , rossa e arancione; quando andavo a mare nel ‘76-77 c’erano tantissime donzelle, ora addirittura i colori del mare sono opachi».
Ma è vero che le perizie erano programmate?
«Certo, giorni e giorni prima, si abbassavano i livelli di produzione. I fiduciari di Riva hanno le loro “marionette” che gestiscono la situazione come vogliono, così il capo a gennaio ha il premio di 500 euro, il caporeparto di 2500-3000 euro e il capoarea ha i suoi 15 mila euro; si devono spartire la torta tutti quanti, è chiaro. Sono stati fatti gravissimi abusi sul territorio: materiale seppellito, versato in mare e nelle fogne. Il tubificio AU che galleggia sull’olio, nei pressi di Statte, probabilmente è stato chiuso e gli operai sono stati rimpiazzati, ma tutto quell’olio è stato versato nella falda e quindi nel Mar Piccolo. Siamo stati devastati, uccisi. Devono andarsene, anche se ciò comportasse il mio licenziamento, basta!».