Galeazzo Ciano, Giuseppe Pinelli, Aldo Moro, Giulio Regeni, Stefano Cucchi: non hanno nulla in comune se non la drammaticità della morte e la fatica a ricostruirne gli ultimi momenti. Forse il tempo ma soprattutto la tenacia di chi rimane possono squarciare il velo
È incredibilmente attraente almeno quanto misteriosa. I suoi maggiori alleati sono il tempo, la coscienza, l’onestà e, tanto più sono elevate le seconde tanto è minore la sua attesa. Il suo cammino è tortuoso ma riesce a rimuoverne qualunque ostacolo, lentamente, come una goccia d’acqua che scava la roccia. La verità è inesorabile così com’è accaduto anche per Stefano, nonostante sia stata invocata per troppo tempo invano. L’uomo e la verità hanno tempi molto differenti, troppo, e proprio per questo, chi la cerca deve essere paziente e determinato. La storia è pregna di verità emerse dopo un lungo tempo. Eppure la verità, anche quando è lapalissiana, è celata da una cortina di falsità, interrogativi e incertezze, specie quando è scomoda e c’è sempre qualcuno che la ritiene tale. Ma è inesorabile ed è stato questo che, per molti episodi della storia, l’ha fatta emergere nella sua chiarezza e logicità. Ci sono voluti molti decenni, ad esempio, per scoprire le vere cause della morte di Italo Balbo oppure quelle che decretarono l’assassinio di Galeazzo Ciano. È trascorso mezzo secolo dall’inizio delle prime stragi di Stato e dal volo dal quarto piano della Questura di Milano di Giuseppe Pinelli, quasi quarant’anni dall’abbattimento di un aereo di linea nei cieli di Ustica, altrettanto dall’omicidio di Aldo Moro e oltre due anni da quello di Giulio Regeni. Nonostante la verità sia sempre stata palese, oggi continuiamo a detenere solo mezze verità pari a nessuna verità. Perché la verità è unica. Aspetteremo, aspetteranno ancora per conoscerle e facendolo possiamo sperare, dobbiamo farlo fino a che arrivino, confidando nella coscienza, nel rimorso e nell’onestà dell’uomo. Abbiamo atteso anche per conoscere la verità di Stefano, nove anni, ma è arrivata anche per lui, per noi. Stefano Cucchi, reo di essersi perso in quella maledetta nuvola bianca che annulla la volontà e cambia gli uomini. Lui, Stefano, che era cambiato tanto a causa di quella nuvola bianca. Da professionista a tossicodipendente e spacciatore. Su questa terra, però, nessuno è davvero perso sino al suo ultimo respiro e in questo hanno creduto Paola e Claudio, i suoi genitori e sua sorella Ilaria che non l’ha mai abbandonato durante la sua battaglia. Ma la lotta contro quella maledetta nuvola bianca è dura e lo era anche per Stefano. Perché la droga è un male che distrugge la volontà e chi è tossicodipendente, non è più capace di scegliere. Stefano spacciava stupefacenti per farne uso ed era conscio di doversi assoggettare alle misure previste dalla legge per coloro che, come lui, finiscono per infrangerla. Non era un narcotrafficante internazionale ma conosceva le schedature, i fermi di polizia, i controlli, le perquisizioni, gli arresti, la reclusione, perché sapeva che spacciare il male è un reato. È il prezzo che paga un piccolo spacciatore. Stefano Cucchi aveva trentadue anni e nessuno saprà mai quanto avrebbe potuto vivere. Altri cinquant’anni oppure solo qualcuno a causa di una nuvola bianca troppo grande per lui. La legge, quella uguale per tutti, è composta di norme che regolano la vita di una comunità, quella che distingue in terra il bene dal male, dove ognuno ha un ruolo preciso affinché tutti la rispettino e punisce chi non la osserva. Eppure, c’è chi ritiene che la legge non sia giusta e che tali siano anche le punizioni. È così che è avvenuto per Stefano, anche se non è stato lui a contestarla ma chi ha deciso che chi spaccia per drogarsi non è affetto da una dipendenza che annulla la sua volontà ma è un criminale comune. Un tossicodipendente è un peso sociale, una vergogna per la pubblica decenza, un nemico dell’ordine costituito e, pertanto, ciò che prevede per lui la legge, non è sufficiente. È questo che ha pensato chi l’ha condannato e non era seduto sullo scranno di un tribunale ma fra le mura di una camera di sicurezza della caserma Appio Claudio di Roma. Per Stefano è stata decisa la condanna al massacro fino alla morte. Lui che era alto un 1 metro e 76 e pesava solo 43 chili. È strano pensare che all’interno delle questure e delle caserme, luoghi dove chiunque dovrebbe sentirsi protetto, si possa morire a seguito delle percosse o schiantandosi sui marciapiedi dopo un volo dal quarto piano. È strano perché quelle questure, quelle caserme ospitano donne e uomini che mettono a rischio la loro incolumità per proteggere i cittadini e tutelare la legge, con professionalità, impegno e abnegazione. Fra loro, però, c’è qualcuno che non vuole accettare il ruolo che gli è stato attribuito e ritiene che la legge, la stessa che dovrebbe rispettare e far rispettare, non sia efficace, sia inadeguata. Forte del suo compito sociale, smette i panni del tutore per indossare quelli del giudice. Non importa se sia un secondino o un agente semplice ma se lo decide, anche contro quanto preveda la legge vera, attua umiliazioni, soprusi, torture, pene di morte. Questo è quanto accaduto nella caserma Appio Claudio di Roma, così come nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli di Genova e in molte carceri italiane. Perché fra le Forze dell’Ordine, cui si devono stima e gratitudine per l’azione che svolgono per garantire la sicurezza, c’è chi non accetta quelle poche e semplici parole della Costituzione Italiana che recita “E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà … Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.” I motivi, probabilmente, sono gli stessi che permettono un trattamento di riguardo nei confronti di un pericoloso nemico dello Stato che, nonostante abbia sottratto 49 milioni di fondi pubblici, vive indisturbato mentre, nelle campagne di Manfredonia, un bracciante reo di non essersi fermato all’alt delle forze dell’ordine, per impedire la sua fuga, è stato immobilizzato, trascinato per alcuni metri fra i rifiuti per poi finire ammanettato alla ruota dell’autovettura di servizio. Forse perché il primo è un senatore della Repubblica mentre l’altro è un immigrato gambiano considerato clandestino in Italia. Mentre per il primo la verità è stata ampiamente accertata in tutti i gradi di giudizio, il secondo è stato assolto in primo grado per il capo di aggressione e condannato invece per quello di resistenza per il quale sconterà un anno di reclusione. Non tocca certo a noi valutare quale sia fra i due il soggetto che determini più pericolosità sociale, anche se, come chiunque, siamo dotati di discernimento e dei mezzi per formulare un’ipotesi credibile. Il principio per il quale si determini una serie di così evidenti discrasie, risale nell’approssimata valutazione che si attua nel collocare gli uomini presso il ruolo sociale che meritano. Non c’è, infatti, differenza di errore fra indicare come candidato al Senato un soggetto notoriamente nemico della Repubblica e della Democrazia e inserire fra le file delle Forze dell’Ordine, elementi con spiccate tendenze alla violenza e condizionati da ideologie politiche anche durante lo svolgimento del pubblico servizio. Sembra assolutamente inadeguato parlare di fortuite casualità nell’era in cui è quasi impossibile nascondere segreti mentre, per lo stesso principio, sembra plausibile che ci sia un unico filo conduttore fra le mancate verità sulle stragi di Stato, sull’omicidio di Giuseppe Pinelli, sull’abbattimento di un aereo di linea nei cieli di Ustica, sull’omicidio di Aldo Moro e quello di Giulio Regeni. Episodi così differenti non sono conseguenza di un unico complotto ma derivano dall’azione mirata di una minoranza di cittadini italiani che non accetta il risultato referendario del 2 e 3 giugno 1948 e dell’entrata in vigore, il successivo 1º gennaio 1948, della Costituzione della Repubblica Italiana. La conferma si manifesta proprio per la presenza di disturbatori della Democrazia che per scopi politici o interessi privati, tramite il posto immeritato che occupano nella società, riescono a ritardare, anche per decenni, la verità alla base della convivenza civile.