Qualcuno, protetto da norme oscure sul diritto d’autore, afferma che il nome del Teatro, aperto a Parigi nel 1897 e luogo simbolo di rappresentazioni macabre e cruente, derivasse da “Guignol”, ovvero una marionetta, partorita dalla fantasia del burattinaio Laurent Mourguet, che raffigurava un operaio di Lione, impiegato nell’industria serica locale e famoso per la sua capacità di dileggiare i potenti in modo caustico ed irriverente. Per anni le rappresentazioni del Grand Guignol, dominate da riproduzioni di infanticidi, esecuzioni crudeli, torture, ebbero un mostruoso successo. Il pubblico accorreva per vedere questo autentico show dell’orrore ed il genere, per oltre un secolo, ispirò una vasta gamma di variazioni sul tema.
Il nome del teatro è dunque diventato sinonimo degli spettacoli che si celebravano al suo interno: forme di suggestione collettiva miranti a far dimenticare il confine tra la verità e la finzione, portando gli spettatori a chiedersi se il sangue che sprizzava sul palco fosse frutto di fendenti reali, o solo di finzione scenica. Nel 1994 Neil Jordan, nel suo pittoresco e ridondante “Intervista con il vampiro”, utilizza proprio il Grand Guignol per inscenare un sacrificio umano: un brano di famelici vampiri che azzanna e dissangua una giovane donna, dinanzi ad un pubblico estasiato e sgomento, convinto che tutto non sia che una sceneggiata. L’uccisione travestita da spettacolo, ovvero uno dei sogni di qualsiasi sadico, con tanto di folla plaudente, dinanzi alle gesta dell’assassino.
La tradizione legata al macabro, al cruento, alla spettacolarizzazione della sofferenza è giunta sino a noi veicolata spesso dalla tradizione, che sovente ha attribuito un valore culturale a rituali in cui la morte, il dolore, il sangue, hanno dominato la scena. Le famose mattanze dei pescatori siciliani, le corride spagnole, le sfide in cui uomini e animali si fronteggiano, ancora oggi, quasi incuranti della nostra evoluzione, ed infine il Palio. Già, a Siena, nel 2018, pochi giorni fa, la corsa di cavalli forse più famosa del mondo ha alzato il sipario su un’orrida sequenza di cadute, infortuni, dolore e morte.
Raol, il cavallo della contrada della Giraffa, è stato abbattuto, dopo una carambola che gli ha procurato una grave lesione ad una zampa. Le immagini della torsione innaturale dell’arto del cavallo hanno fatto il giro del mondo e gli amanti del Grand Guignol avranno potuto osservare, fotogramma per fotogramma, la distruzione di un arto, prima di mettere a fuoco che quella sequenza, dopo poche ore, avrebbe portato alla soppressione di una vita. Si dirà: è tradizione. Già, la tradizione, questa “traditio”, questo passaggio, da mano a mano, secondo gli usi e i costumi degli antichi romani, che oggi diventa marchio di praticabilità. Una corsa pericolosa, spesso fonte di infortuni per i cavalli che vi partecipano, ma in fondo, una rinnovata e secolare esperienza, che pare giustificare l’orrore, relegandolo ad effetto collaterale di un potente farmaco salvavita. Un bisogno insopprimibile di ripetere la corsa fa scempio del dolore immotivato di magnifiche creature. Il rapporto deviato tra passato e presente, una rimozione acritica del sentire accresciuto da secoli di consapevolezza e civiltà, annegano la sensibilità dell’umano vitruviano, lasciando il campo alla plebe assetata di sangue bollente. Mancano i ceppi su cui mozzare mani e teste, o squartate giovani fanciulli, sacrificati alle divinità maligne della natura. A questa tradizione non siamo ancora arrivati, sembreremmo averci rinunciato, ma quanto al resto, se si tratta di cavalli, possiamo ancora dare il peggio di noi, giustificati da secoli di barbara e cieca abiezione.