MENU

Giancarlo Liviano D'Arcangelo/Il Momentaneo e l'eterno

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

28
GIU
2013
Avevamo già segnalato nella nostra rubrica “Parole che contano” il reportage “Invisibile è la tua vera patria” (Il Saggiatore) di Giancarlo Liviano D’Arcangelo che, con il suo precedente lavoro “Le ceneri di Mike” (Fandango), meritatamente si era aggiudicato il Premio Sandro Onofri, istituito dalla Casa delle Letterature di Roma, per il migliore reportage narrativo. 
Oggi riprendiamo l’argomento, non per spirito di “campanile” (Giancarlo Liviano D’Arcangelo è nato a Martina Franca), ma per ribadire l’oggettivo valore di un saggio che in ognuna delle 246 pagine conferma l’onestà intellettuale, la serietà, il rigore con cui l’autore ha condotto il suo studio economico, sociale, culturale dell’Italia attraverso l’analisi di sette complessi industriali ridotti a desolate e desolanti carcasse metalliche che possiamo interpretare come il correlativo oggettivo di un processo, quello dell’industrializzazione selvaggia, dallo sguardo miope, tutto concentrato sull’immediato benessere (di pochi), sulle menzogne e sull’omissione che dà per scontata l’accettazione da parte di una “nazione democratica” il principio secondo cui “i cittadini non debbano immediatamente sapere in che modo siano spesi i denari incassati dallo stato attraverso il prelievo fiscale”. Un processo fondato sulla commistione fra legge e interesse di pochi, che ha permesso la moltiplicazione di certe fortune individuali e familiari (Olivetti a Ivrea, i Florio a Palermo, i Crespi in Lombardia).
C’è tanta fatica dietro “Invisibile è la tua vera patria”, per la cui stesura l’autore ha impiegato quasi un anno e altrettanta fatica richiede al lettore. Ma è una fatica che appaga, purchè sorretta da una solida motivazione intrinseca: si deve voler leggere questo reportage, consapevoli di fare una scelta premiante solo dopo aver terminato la lettura, quando cioè, a percorso concluso, si avrà chiara la visione d’insieme e, soprattutto, la chiave interpretativa dell’industrializzazione italiana. Una lettura, quindi, che smaschera, che svela. “Ripercorrendo la storia industriale d’Italia, da quando il concetto di produzione di massa ha cominciato a espandersi su scala internazionale modellando sempre più la società in modo che il sostentamento minimo iniziasse a dipendere via via più strenuamente dal lavoro salariato – a causa della fitta concentrazione di beni di produzione e capitale nelle mani di un’irragionevole minoranza di soggetti -, non è difficile allora notare come la commistione tra interesse imprenditoriale privato e la penetrazione  dello stesso nelle istituzioni in Italia sia stata, sin dagli antipodi dello stato nazionale, il vero segreto del buon successo economico e dell’arricchimento fagocitante.”
“Invisibile è la tua vera patria” può essere letto come un susseguirsi di “esercizi” che, allenando lo sguardo, rendono visibile all’occhio corpi metallici, ingranaggi, lamiere e tanta polvere nera. I relitti dell’industrializzazione, capillarmente descritti, utilizzando un vocabolario ricchissimo e oggettivante, diventano gli indicatori del declino di un’Italia che dà di sé uno spettacolo avvilente orchestrato da “soggiogatori e aguzzini mediocri” dai quali dovremmo una buona volta liberarci. Imprenditori privati che saccheggiano e avvelenano i luoghi con il pretesto del lavoro e vi restano finchè  c’è “una pietra da mungere”.
Abbiamo raggiunto Giancarlo Liviano D’Arcangelo che presenterà il suo reportage a Martina Franca il 2 luglio prossimo e gli abbiamo rivolto alcune domande.
 
Un tuo nuovo lavoro, rigorosissimo. Un altro reportage. Questa volta scandagli  i luoghi, gli spazi dell’industria italiana che “non c’è più”, come si legge nel sottotitolo. Cosa anima questo tuo voler raccontare una patria in declino?
«È un’esigenza che nasce dal bisogno profondo di mantenere vivo uno sguardo, un racconto della realtà che non sia mistificato in senso mediatico, ossia attraverso la semplificazione insopportabile del mondo nel nome degli interessi dei grandi gruppi possessori del capitale, ma che semmai sia mistificata in direzione della bellezza dostoevskiana, cioè a scopo umanistico, perché almeno nelle opere sia l’anima a trionfare, e nient’altro. Viviamo in una sorta di lager colorato fatto di pinguini che ballano, finta attenzione all’attualità, finto agone politico, finta spinta culturale. Bisogna trasformarsi in paladini del patrimonio umano e universale di storie fatte di amore, morte, giustizia,eroismi, fallimenti.» 
 
Sono sette i luoghi del declino. Come i vizi capitali, come la somma delle virtù cardinali e teologali. Del resto fra gli autori delle citazioni che aprono tutti i capitoli del tuo reportage,  compare  Dante. Quali a tuo avviso i vizi d’origine del selvaggio processo di industrializzazione che ha fagocitato l’Italia, rendendola invisibile, e quali le virtù da mettere in campo per  restituire allo sguardo, ma non solo a quello, il volto autentico di questo nostro Paese agonizzante?
«Vizi e virtù si scontrano in guerra feroce nella storia industriale del nostro paese, che è meravigliosa se analizzata attraverso lo strumento visionario, sincronico e dilatatorio della letteratura. Ci sono storie di famiglie importanti finite tutte come i Buddenbrook di Thomas Mann. Mi vengono in mente i Crespi in Lombardia, o i Florio in Sicilia, mentre un discorso a parte merita l’esperienza olivettiana,che è di un’importanza secolare. Adriano Olivetti era un uomo che stava realmente cercando di costruire un mondo diverso. Per quanto riguarda i problemi dell’industrializzazione italiana la sua crisi nasce a mio parere agli antipodi del processo, il boom è nato sotto l’enorme spinta della politica che concettualmente ha sempre avuto un sguardo al breve periodo, mentre da poco più di un ventennio quella stessa politica è diventata un semplice braccio armato dei grossi gruppi mondiali detentori del potere economico e che hanno preteso le privatizzazioni e il libero scambio, ma in chiave di strumento di controllo e dominio. È stato l’inizio della concentrazione mostruosa di risorse. La crisi è inevitabile e irreversibile se in un paese sedicente democratico il 10% della popolazione ha il 50% della ricchezza. E sono dati Bankitalia.»
 
Questo tuo reportage nasce da un viaggio: hai attraversato l’Italia tutta, fermandoti in luoghi precisi. Quali dei luoghi da te visitati hanno prodotto i moti più intensi di rabbia-delusione-amarezza che percorrono tutto il volume?
«Palermo. È una città meravigliosa dove il massimo della bellezza si confronta con il massimo della bruttezza, e paradossalmente anche la bellezza in questo mondo è sempre più merce, diventata un bene per pochi. E le miniere sarde, dove la natura si è ripresa le poche sacche territoriali che l’uomo le aveva strappato.»
 
Tu scrivi: “Occhi irrequieti, vividi, all’erta. Orecchie tese. Armi sensoriali di difesa.” La vista e l’ascolto, quindi,  come mezzi per corazzarci, per difenderci, appunto. Ma, in ultima analisi, sono le parole, quelle che ci auguriamo possano tradursi in azioni costruttive, le risorse dalle quali attingere quell’energia necessaria a una vita che non sia pura sopravvivenza. Cosa rappresentano per te le parole?
«Le parole, nel mondo dominato dalle immagini in flusso frastornante senza linguaggio o dalle emoticon, sono tutto.  Sono acqua nel deserto. Non esagero. Sono mezzi di sostentamento, di sopravvivenza, armi di difesa. Il mondo milluplicato dai media in grandezza è un posto indecifrabile, le parole servono a dominarlo. Lo dico sempre: un mondo in 500 parole è noioso, piatto, e ci sfugge. Un mondo in 5000 parole è dominato da chi lo legge e da chi lo racconta.»
 
A quali parole ricorrere per iniziare l’operazione-salvataggio? Non poteva mancare, fra i luoghi da te visitati e studiati dal di dentro, l’Ilva. Potresti riassumerci umore, tensioni e percezioni che ne hai ricavato?
«Taranto è un luogo per me noto, sono cresciuto a Martina, a Taranto ci sarò stato mille volte. Ma tornare a circumnavigare il sito industriale è stata un’esperienza sconvolgente. Toccare con mano la manomissione di un territorio che senza l’industrializzazione selvaggia sarebbe tra i più belli del mondo, veder battagliare la naturale e misteriosa maestosità del mare e la precaria maestosità del sito industriale basta a capire dove risiede il momentaneo e dove l’eterno. Taranto avrebbe trovato da sé in altri settori economici la sua fonte longeva di sostentamento. Sfido chiunque a sostenere il contrario.» 
 
L’incipit del settimo e ultimo capitolo del reportage contiene un passaggio durissimo sulla scuola, “infido habitat dalle fauci affilate” in particolare su un momento cruciale dell’anno scolastico, quello dell’affissione dei quadri, dei risultati finali. Riportiamo il passaggio nel quale descrivi il bidello che “armato di puntine technicolor inchiodava in bacheca il responso oracolare dei nostri docenti, frattanto deformati in efori.”  Questo rito si è svolto nei giorni scorsi, mentre al momento si stanno svolgendo gli esami di Stato. Anche la scuola italiana agonizza e in quest’agonia non mancano forme di preoccupante delirio, di rado stemperate da sprazzi di serena lucidità. Questa domanda è rivolta a te come intellettuale: a quali parole, a quali sguardi e a quali orecchie la scuola dovrebbe orientare oggi i ragazzi e le ragazze che la “frequentano”?
«Non tutto nel mondo può seguire le logiche del business. La scuola è uno di quegli ambiti che dalle logiche aziendali dovrebbero essere tenuti a distanza per motivi ontologici. La formazione di un essere umano non può essere monetizzata, se non nei libri apocalittici di fantascienza. Ma anche in questa concezione della vita umana come un bilancio c’è aria d’irreversibilità.
Non c’è da far affidamento alla politica oggi, chiunque governi. Il paradigma dominante della vita pubblica ormai sono le politiche dettate dagli interessi dei grandi gruppi finanziari-economici, che hanno bisogno di una massa composta di bestie da soma spaesateprivi di strumenti cognitivi. La scuola dovrebbe creare individui liberi dal conformismo e del mainstream di alcuni prodotti culturali, che siano gialli o motivetti da hit-parade.
 La riduzione della scuola a bilancio aziendale è un ottimo metodo per depotenziare la sua funzione educativa. Anzi, è il metodo migliore.» 
 


Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor