Bersaniani, dalemiani, renziani, lettiani, franceschiniani, epifaniani, cuperliani, damianiani, colaninniani, civatiani, fassiniani, fioroniani, bindiani, finocchiariani, barchiani, zandiani, puppatiani, giovani turchi e qui mi fermo per carità di patria. Il tedioso elenco che vi ho appena propinato è rappresentativo delle diverse anime che si confrontano, e molto più spesso si scontrano, nella caotica galassia rappresentata oggi dal Partito Democratico. Il fatto che ci siano anime diverse e diverse sensibilità di per se non è un disvalore, ma lo diventa nel momento in cui non si può riconoscere una mente lucida che possa canalizzare le diversità in un progetto comune, lo diventa quando è palese la mancanza di una leadership autorevole e collettivamente riconosciuta. L’immagine è quella di un esercito nel quale i generali sono più numerosi delle truppe che guidano e non esiste un capo di stato maggiore. Qualcosa del genere era accaduto a Caporetto e sappiamo bene come è finita. Lo spettacolo indecoroso, ed oggettivamente sconfortante in particolare per i propri elettori, che da mesi ci offrono gli eredi di quello che è stato un tempo il più grande partito della sinistra europea è il frutto marcio di ciò che è stato, per più di venti anni, l’unico progetto politico che sono stati in grado di produrre: l’antiberlusconismo militante! Oggi, nel momento in cui il molok berlusconiano sta per crollare sotto il peso ineluttabile del dato anagrafico, sotto i fendenti della spada del giustizialismo e sotto il fardello dell’insostenibile leggerezza della sua velleitaria rivoluzione liberale, il collante antiberlusconiano si sta sfaldando miseramente e con esso il grande bluff. Per venti anni il grande bluff si è auto alimentato della falsa illusione che per conquistare il potere non fossero necessarie le idee, i progetti, la visione globale di un Paese e di un mondo in vertiginoso mutamento, ma che bastasse semplicemente addizionare il maggior numero possibile di diversità. Le due occasioni in cui aritmeticamente il centro sinistra ha vinto, i due governi Prodi, hanno palesato impietosamente l’incapacità di governare e nessuno ne ha tratto le debite conseguenze. Quello che poi è accaduto nelle elezioni di febbraio, e nelle scelte successive, ha messo la pietra tombale sull’arrogante insipienza di una classe dirigente impresentabile. Non vi è compiacimento in me nella constatazione di questo fallimento, ne può esserci in alcuno. Le prime vittime del disastro politico complessivo del Paese sono i cittadini, siamo tutti noi al di là delle bandiere. Ci ritroviamo con un centro destra destinato all’evaporazione nel momento in cui il Cavaliere uscirà di scena, in qualunque modo questa uscita avvenga, perché nessuno ha avuto la lungimiranza di preparare il dopo Berlusconi formando una classe dirigente ed una strategia politica autonoma, sganciata dal geniale magnetismo del capo a coprire il vuoto ideologico. E ci troviamo con un centro sinistra che non esiste più, calpestato dal mucchio selvaggio che ha preteso di tenere insieme cattolici integralisti e comunisti ortodossi, inconsistenti socialdemocratici ed ancor più inconsistenti socialisti, sinistri ecologisti e spregiudicati liberali, desolatamente privo di un cervello pensante. È proprio vero che se Atene piange, Sparta non ride, ma il centro sinistra è ancor più da biasimare per l’ostracismo con cui ha tentato, e tenta ancora oggi, di annientare Matteo Renzi ed il suo lucido progetto riformista. Per puro piacere intellettuale mi piacerebbe conoscere che analisi politica sulla situazione attuale del Partito Democratico avrebbero fatto i signori Luigi Longo, Umberto Terracini, Giancarlo Paietta, Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer.