Pernici, sempre pernici

Questi sono giorni dominati, oltre che da un sole ancora veterosettembrino, dall’onnipresenza di alcuni miti pop che, come le pernici di Re Sole, dopo un po’ -per quanto squisite- tendono francamente a stufare. Un mito pop è un punto di riferimento dell’immaginario popolare, collettivamente accettato e impossibile da mettere in discussione: tanto per capirci, Che Guevara e la Callas non sono miti pop, perché possono piacere ma anche no; San Gennaro, Marilyn Monroe e il bocconotto del Tripoli invece rientrano nella categoria di trasversalmente graditi a tutti, e guai ad affermare il contrario. Dicevamo, le pernici: complici una serie di anniversari, non si sente parlar d’altro che non di Beatles e di James Bond. Entrambi festeggiano il cinquantesimo dal debutto discografico gli uni e cinematografico l’altro, ed è tutto un fiorire di edizioni rimasterizzate, articoli, interviste, she loves you yeye e mi chiamo bond james bond. Non ne posso più, né dei quattro di Liverpool né del personaggio di Ian Fleming. E in questa inflazione di miti di massa il mio pensiero affettuoso e solidaristico va a un quadro del Veronese, Le nozze di Cana, un dipinto enorme nelle dimensioni e nella sfortuna: non solo trafugato da Napoleone e trasportato al Louvre dal bel refettorio benedettino dove si trovava, ma condannato alla sorte più atroce per un’opera d’arte, ovvero condividere la stanza con la Gioconda. La povera tela, schiacciata da quel mito pop che si ritrova come coinquilina, non le è appesa accanto, in modo così da poter intercettare almeno qualche sguardo seppure indiretto, ma si trova dirimpetto, cosicché l’unica cosa che le si rivolge è la nuca, perché l’attenzione è tutta per Monna Lisa. Deciso: fonderò un comitato per la liberazione de Le nozze di Cana.