Ricordate di certo la vicenda delle due cooperanti “umanitarie” italiane sequestrate in Siria, probabilmente da un gruppo di jihadisti che si rifanno al sedicente Califfato, e liberate a stretto giro di posta presumibilmente a seguito del pagamento di un riscatto (si parla di 12 milioni di euro) da parte del Governo italiano. Uso il condizionale perché, ovviamente, il pagamento del riscatto non è stato confermato ma neanche smentito con forza come è d’uso in questi frangenti. Il caso ha lasciato irrisolti molti quesiti e molti dubbi sulle modalità del sequestro non sono stati dissipati, facendo di questo sequestro un “unicum” nella tragica storia dei sequestri di cittadini occidentali da parte di milizie jihadiste. Fatto sta che Vanessa e Greta, questi i nomi delle due ragazze, sono tornate a casa in tempi brevi e senza apparenti traumi ne fisici ne psicologici. E questo fatto, per quanto positivo, suscita ulteriori perplessità sulle anomalie di un evento che di per se è drammatico. L’ultima ed ulteriore anomalia è di pochi giorni fa quando Vanessa, parlando a nome anche dell’amica Greta, ha rilasciato un intervista al quotidiano “La Repubblica” nella quale ribadisce la comune volontà di tornare presto in Siria per proseguire l’opera di volontariato. Fin qui i fatti, pochi, così come li abbiamo appresi. Alcune riflessioni credo che si impongano. Innanzi tutto mi chiedo in che tipo di “famiglie” hanno vissuto e vivono queste due ragazze. Come genitore sarei naturalmente orgoglioso di un figlio che sente forte la vocazione alla solidarietà nei confronti di chi soffre, ma non potrei sottrarmi all’obbligo di verificare a priori il grado di pericolosità, diretta ed indiretta, che sovrasta certe attività “umanitarie”. Lasciare che ragazze così giovani possano vivere una realtà di guerra atroce, quale quella che si vive nell’antica terra mesopotamica, dove le regole più elementari della civiltà vengono ogni giorno calpestate in nome di un Dio tanto irascibile quanto intollerante, penso sia da incoscienti per non dire irresponsabili. Poi mi chiedo che tipo di personalità hanno queste due figlie del tempo che stiamo vivendo. Farsi ritrarre ripetutamente avvolte nel chador, un capo di abbigliamento avvilente per il significato di sottomissione delle donne di religione musulmana, o nella bandiera siriana, o farsi riprendere mentre imbracciano un fucile mitragliatore, sono segni evidenti di personalità distorte nelle quali sfuma il confine tra solidarietà e sovversione. Ma cosa è davvero accaduto in Siria alle due cooperanti? Perché hanno spontaneamente dichiarato di essere state trattate bene, di non aver subito alcun tentativo di violenza ma “di aver avuto rapporti sessuali consenzienti” con i loro rapitori? Qualcuno potrebbe rifarsi alla Sindrome di Stoccolma dimenticando che questa si manifesta a seguito di una violenza fisica e psicologica, cosa della quale non sembra che le due amiche abbiano sofferto. E cosa significa questo desiderio irrazionale di ritornare dopo pochissimo tempo nei luoghi del sequestro? Forse, visto che la loro liberazione è stata comprata dal Governo con i soldi dei cittadini, gli italiani hanno diritto di ricevere risposte chiare a queste domande inevase. E se le motivazioni sono solo filantropiche, esclusivamente umanitarie, posso fornire a Vanessa e Greta un lungo elenco di Paesi, tra l’Africa ed il Sud America, dove ogni giorno centinaia di migliaia di bambini giocano la loro impari partita a scacchi con la morte perché non hanno nessuno che possa dargli un sorso d’acqua, un sorso di latte ed un pugno di riso, senza necessariamente andare a soddisfare il loro anelito nel buco nero dell’integralismo islamico.