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Antonio Martellino: L´UOMO DI ALEXANDERPLATZ

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

8
GIU
2012

Storia di un martinese sopravvissuto alla guerra più truce, all’orrore del lager e a un tedesco che aveva capito male. Dalle memorie di Antonio Martellino, una pagina di storia e di memoria collettiva

 
Antonio Martellino, all’epoca dei fatti, era un giovanissimo carabiniere nativo di Martina Franca che prestava servizio a Schio, nella provincia di Vicenza. Aveva circa vent’anni ed era in forze di quel particolare corpo, gli “aggiunti”, che andavano a coadiuvare il personale dell’Arma dei Carabinieri in caso di necessità. Necessità come può essere la guerra, e infatti questa storia comincia l’8 settembre del 1943. In quella data, il maresciallo Pietro Badoglio, l’uomo che Vittorio Emanuele III aveva scelto per succedere al decaduto duce Benito Mussolini, aveva rilasciato un proclama via radio che annunciava l’armistizio con gli anglo-americani. Di conseguenza, ogni ostilità contro i nuovi alleati sarebbe dovuta cessare immediatamente. Ma come metterla con i tedeschi?
Un paio d’ore prima dell’alba tenue e tredici ore prima dell’annuncio dell’armistizio, alla caserma di Schio squillarono gli allarmi, che ruppero la quiete della notte: i tedeschi, a bordo dei travolgenti, ruggenti e irrefrenabili panzer giunsero per vendicarsi della radicale svolta, ufficializzata in gran segreto il 3 settembre ma annunciata ben cinque giorni dopo, che il piccolo re savoiardo e il suo nuovo e discusso braccio destro avevano operato. E a farne le spese non sarebbero stati i generali e i capi di Stato, al sicuro nei loro palazzi, ma quei giovani soldati che, come Antonio, avevano appreso la novità per radio, come i loro stessi (ex) alleati e si erano ritrovati da un momento all’altro allo sbando. 
Durante la serata del 7, Antonio aveva prestato servizio a Bassano del Grappa assieme ad un tedesco. Alle ore quattro antimeridiane, a notte fonda, quando egli era già tornato in caserma, per il campo risuonò l’allarme: i panzer abbatterono e stritolarono tra i cingoli le reti di cinta; una volta accerchiata la caserma, si innalzò il perentorio ordine «Deponete le armi!» dalle cime dei possenti bestioni d’acciaio. «Deponete le armi o vi uccidiamo tutti!», urlato con quella spigolosa e cavernosa cadenza che adesso assumeva connotati infernali. I soldati delle SS, che stavano di stanza poco lontano, a Rovereto, invasero il campo con i mitra in braccio: assestarono mazzate con i calci delle loro armi agli italiani in uniforme e li radunarono all’interno degli edifici.  
Gli italiani rimasero bloccati all’interno della caserma di Schio fino alle otto: per quattro ore furono prigionieri della loro stessa base, sotto la minaccia del fuoco nazista. Alle ore otto circa arrivarono i camion sui quali furono caricati i prigionieri e con i quali furono condotti a Mantova, dove rimasero per ben quattro giorni, senza nulla da mangiare. I tedeschi, sadici e irriverenti come autentiche iene, si divertivano nel gettare tozzi di pane per terra, così da scatenare tremende risse tra italiani e italiani, che pur di mettere sotto i denti del pane, per quanto sporco e impolverato, non esitavano a calpestarsi l’un l’altro. Persero ogni parvenza di razionalità umana, tanto che arrivarono a picchiarsi e a calpestarsi fino ad uccidersi: più che la disperazione, poté la fame. E se gli italiani erano costretti alla bestialità dall’inedia, il più bieco sadismo ispirava le risate dei brutali biondi dagli occhi azzurri, più simili a diavoli che ad angeli, che si spanciavano letteralmente quando scorgevano un prigioniero per terra, esanime, con le ossa rotte e la faccia rossa di sangue e sfigurata dalle impronte delle suole e delle ginocchia altrui.
Al quarto giorno da quell’8 settembre, gli italiani furono imbarcati su vagoni per il bestiame, dopo essere stati smistati secondo la provenienza (quelli del nord da una parte, quelli del sud dall’altra) e partirono. Ma la loro speranza di ritornare a casa dai propri cari fu immediatamente mortificata quando capirono che il treno non andava verso Roma, ma verso Berlino! Scoppiarono a piangere, urlarono e pregarono Iddio perché potessero rivedere, un giorno, le proprie famiglie. Ma molti di loro lasciarono ogni speranza a Mantova. E il viaggio, già doloroso, fu peggiorato dalle atroci condizioni igieniche cui dovettero sottostare i detenuti. E il loro numero si ridusse ancora.
Durante una tappa nei pressi di Colonia, un italiano si lanciò su una bocchetta antincendio, posta lì in mezzo alla strada. Non appena fece per abbeverarsi dal getto dell’acqua, il calcio di un fucile gli si abbatté sulla spina dorsale. I muscoli, ormai svuotati, non riuscirono a prevenire il colpo, e la colonna vertebrale fu schiantata: l’italiano morì sul colpo. Il luogotenente nerovestito, coi suoi occhi color ghiaccio e i suoi capelli paglierini, coperti da un cappello di cuoio, fulminò gli altri prigionieri che avevano assistito e, ghignando, disse «Wasser ist nicht gut zu trinken [L’acqua non è buona da bere].», raccogliendo le risa dei suoi sottoposti e i sommessi pianti degli italiani.
Dopo due giorni passati a Kostrin, nel campo di smistamento, il ventenne Antonio Martellino fu spedito a Basdorf, nel Lager numero 3, settore C, con la matricola 39894. Fu assegnato ai lavori in fabbrica, presso una catena di montaggio automobilistica. Unico suo sostentamento era una specie di zuppa maleodorante fatta di vegetali ed altre erbette, che ben presto lo fecero riempire di liquidi e, benché pesasse meno di 40 chilogrammi, appariva gonfio come un anafilattico: i dorsi delle sue mani si erano grottescamente deformate come guanti di lattice gonfiati d’aria e i suoi occhi erano spariti in mezzo alle palpebre tumefatte, come se queste fossero state bersaglio per le vespe. Subiva quotidianamente percosse da parte dei bestiali biondi dagli occhi azzurri. I soldati delle SS, inguantati nelle loro uniformi nere, con le due piccole saette ricamate sulle braccia e sui distintivi, godevano letteralmente nel assestare tallonate ai costati e contro gli stinchi di quei traditori. «Italienische Scheiße!» facevano, picchiando e ridendo. Ma Antonio teneva duro; altri suoi compagni non ce la facevano: morivano deperiti durante gli estenuanti turni di lavoro; spiravano preda di convulsioni dovute alle forti infezioni contratte e, chi non moriva ma non riusciva a mantenere i ritmi, veniva spedito a Buchenwald, il qual nome risuonava alle orecchie degli italiani allo stesso modo della Morte. A Buchenwald i prigionieri venivano gasati o, peggio, finivano sotto i bisturi dello studioso professor Karl Clomberg. 
Il 20 luglio 1944, lo stesso giorno in cui fallì all’attentato ai danni di Hitler, la cosiddetta Operazione Valchiria, Antonio Martellino vide per l’ultima volta Benito Mussolini, che visitava Berlino in qualità di Capo della Repubblica Sociale Italiana, stato-fantoccio nelle mani dei tedeschi. Quella mattina non era stato mandato in fabbrica perché aveva la febbre a quaranta gradi. Fu scelto assieme ad altri quattro prigionieri: erano sicuri che sarebbero finiti nei forni crematori, come altri prima di loro, e le lacrime furono sufficienti da far sgonfiare buona parte del suo corpo tumefatto dai liquidi in eccesso prodotti causa dell’alimentazione a base di sola zuppa vegetale. Mai Buchenwald fu così vicina per Antonio: invece furono condotti a Berlino, dove l’Alexanderplatz, blindata in ogni suo angolo, era gremita di gente come mai avevano visto i suoi occhi di italiano. Ma dire che Antonio vedesse è voler essere buoni: gli occhi tumefatti percepivano a malapena una massa informe e ondeggiante, fatta di mani e teste agitate. Le grida, gli inneggiamenti, gli applausi si confondevano insieme e gli bombardavano le tempie come granate. Alexanderplatz, per Antonio, non era che una immensa valle nebbiosa e spettrale da cui voler uscire al più presto.
La gente assisteva ai discorsi che il loro Führer, in compagnia dei suoi tirapiedi, stava tenendo dall’alto di uno spalto, in fondo alla piazza. Il tedesco guardò il nostro Antonio, fece un cenno al maestoso spalto addobbato con bandiere rosse e nere e con svastiche, e, nella sua lingua (Antonio aveva ormai imparato il tedesco, suo malgrado) esclamò, quasi a voler infierire, ripetutamente «Antonio! “Papà” sta parlando!»
Antonio non riusciva a vedere bene: la febbre lo faceva star male e i suoi occhi, gonfi com’erano, non gli permettevano di distinguere nulla oltre il metro di distanza. E il fatto che Benito Mussolini facesse il suo discorso in tedesco non aiutò il giovane carabiniere a riconoscerne la voce, essendo la sua capacità uditiva non meno malandata di quella visiva. E, per tutta risposta, disse, rivolto al suo carceriere, «Ma ste rumbe u’ cazze!» e lascio al lettore la traduzione. Il tedesco, tuttavia, che di sicuro non conosceva il dialetto pugliese, intese tutt’altro: «Du wagst es, rufen Sie mich Katze? [Hai osato chiamarmi “gatto”?]» ringhiò l’aguzzino. E giù un ceffone tale da mandare il malconcio Antonio a terra.
Sullo spalto, intanto, Mussolini teneva il suo discorso. Non era più il Duce, l’uomo che aveva dichiarato la guerra dall’alto della balconata di Piazza Venezia. Non era più il Rifondatore dell’Impero Romano. Tradito dai suoi stessi uomini e da quella casata reale che gli aveva affidato per vent’anni i destini di un’intera, gloriosa nazione, era adesso l’ombra di se stesso, un funzionario per nulla differente agli altri che circondavano colui che combatteva contro il mondo intero. E, se sarebbe caduto questi, Mussolini e tutti gli altri che quel giorno ad Alexanderplatz lo fiancheggiavano lo avrebbero seguiti nella tomba, passando dalla forca, appesi per i piedi. 
Questo era il Mussolini del 20 luglio, ad Alexanderplatz: un uomo. Né più né meno di un uomo che aveva perso tutto.
Il 21 luglio Antonio e i suoi compagni di sventura erano di ritorno al lager di Basdorf: le SS non c’erano più. Erano state sostituite dalla Polizei, la polizia tedesca, dai modi sicuramente meno bestiali e sadici. Con le SS, gli italiani erano costretti a camminare a testa bassa: chiunque tra i prigionieri avesse alzato lo sguardo, sarebbe incorso nell’ira dei qualcuno di loro e, dopo essere stato accusato sommariamente di aver detto qualcosa di sbagliato, sarebbe stato picchiato o addirittura sparato. Con la Polizei fu tutto diverso: anche se ancora prigionieri di guerra, gli italiani tornarono a sperare e misero da parte il terrore. Ma perché le SS erano state sostituire dalla Polizei? Solo qualche tempo dopo Antonio e gli altri italiani avrebbero avuto risposta: Benito Mussolini aveva interceduto perché gli italiani prigionieri in Germania godessero di condizioni migliori e per suo volere le SS (di cui ben conosceva i metodi) furono sollevate da quell’incarico. Lo stesso uomo che era stato dimenticato e scacciato dall’Italia per puro calcolo di guerra non aveva voluto dimenticare gli stessi italiani che aveva condotto in battaglia.
L’8 maggio 1945: la Germania firmò la resa e la guerra poté dirsi finita sul fronte occidentale. I sovietici invasero il lager dove Antonio era internato. Molti tedeschi, per sfuggire ai russi, si finsero prigionieri, ma, per rappresaglia, gli stessi italiani li indicarono ai loro salvatori come “crucchi”, e furono ben lieti nell’assistere al trattamento che i sovietici avevano in serbo per loro. Antonio e altri suoi compagni, baciati dal destino, passarono i successivi cinque mesi come prigionieri di guerra con i russi. Come tale, aiutò a ripulire le strade dei paesi vicini dai cadaveri e dalle macerie che la guerra aveva lasciamo come suo unico frutto. A ottobre poté riabbracciare la sua famiglia, a Martina Franca.
 


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