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Gianluca Piaccione: Taglio, piego, creo

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

20
LUG
2012

 

Pittoscultore rigorista, come lui ama definirsi, vive e lavora a Taranto, ma sogna altri Paesi e soprattutto un buon mercante d’arte. Nel frattempo colleziona molte cose, fra cui anche consensi
La sua arte è il rigorismo, la ricerca accurata e analitica dei risultati, nella loro precisione. Nelle sue opere si percepisce la ricerca di forme geometriche, che non hanno nulla a che fare con i numeri e le formule in questo caso, ma che fanno danzare la sua tela, seguendo delle diagonali che le attribuiscono la terza dimensione attraverso movimento, staticità ed equilibrio. Gianluca Piaccione, figlio di una scuola tecnica, riesce a conciliare arte e razionalità, che il più delle volte sembrano essere conflittuali; sulla base delle sue conoscenze, riesce a creare una forma di arte tecnologica, ma piena di fantasia e creatività. La sua passione per l’arte contemporanea lo ha indotto a collezionare vari artisti, subendo inoltre influenze dalle filosofie giapponesi. Per la prima volta a Taranto, nella sua città, con una mostra nella Galleria Comunale, Gianluca si racconta.
Gianluca, nasci come pittore?
«No, nasco come collezionista: ho iniziato a collezionare dall’età di 20-22 anni piccole cose di poco conto, per poi approdare a cose più importanti, dalle quali in seguito ho tratto ispirazione. Le mie sono pittosculture».
A chi ti ispiri?
«Si intravedono tanti artisti che hanno segnato il mio percorso, ma fondamentalmente non mi ispiro a nessuno. Sostanzialmente l’idea di tagliare la tela nasce da Fontana, anche se di lui c’è ben poco, perché il suo era un taglio imperfetto ed era dato dalla gestualità. Nel mio lavoro la gestualità non esiste, ma si tratta di arte programmatica, quindi nasce da un programma o da uno schema mentale: non c’è niente di gestuale, né di istintivo. La mia non è un’arte in cui l’artista viene ispirato dall’emozione, io mi ispiro alla razionalità, il mio lavoro corrisponde a ciò che è definito “rigorismo”. Questa tecnica,  e lo dice la parola stessa, ricerca il rigore, la precisione, richiede una ricerca geometrica alla base».
Utilizzi il computer prima di realizzarli?
«Assolutamente no, il computer lo utilizzo solo per le sculture, perché richiedono un disegno preciso prima di essere realizzate: quando decido il disegno, il computer mi prepara uno schema che poi porto in fucina,  dove viene fatto un taglio laser e nascono le mie sculture. Per quanto riguarda la pittura,  è un disegno geometrico che nasce dal mio pensiero seduta stante, e tante volte, mentre lo metto in atto, questo pensiero si trasforma e nasce qualcos’altro, diventa qualcosa di nuovo che fa nascere un nuovo lavoro, si crea l’idea nell’idea. Il rigorismo perché ritrovo artisti come Castellani, a cui si ispirano le mie estroflessioni, cioè il fatto stesso che la tela fuoriesca dal quadro. Il taglio, come ho già detto, si ispira a Fontana».
Predominano i colori giallo, verde e azzurro, perché?
«Sono i colori primari, da questi tre colori  nascono tutti gli altri; infatti in uno dei miei quadri c’è il giallo, il verde,  l’azzurro e poi c’è il bianco che è neutro e non è  per caso. Un altro lavoro, ad esempio “Silver Fusion”, nasce da un quadro tutto nero, che poi si è evoluto nel rosso, e ritrovandomi  un barattolo color argento, è nato forse qualcosa di gestuale in me; questo però è un caso, perché torno sempre sul mio percorso che è quello del rigorismo, che è la precisione cadenzata, ritmica, analitica e  studiata, quindi niente dato al caso. Un’altra eccezione è “Intrusion”, quello con tutte le etichette dei vini di due anni, tra le quali si scorge l’etichetta della bottiglia di birra, ecco perché l’Intruso».
E le filosofie giapponesi in cosa ti ispirano?
«Mi ispirano per quanto riguarda il kirigami e l’origami. Io utilizzo delle grandi tele, piegate in un certo modo, rifacendomi al  kirigami che è l’arte di tagliare la carta, nel mio caso la tela, l’origami è l’arte di piegare la tela. L’origami nasce nei miei primi lavori, ma non ne ho quasi più nessuno. Il kirigami nasce dal taglio, nell’arte programmata del taglio e della piega, nasce dall’esigenza di voler creare dal foglio piano un qualcosa di tridimensionale; quasi  come alcuni bigliettini di auguri che si aprono in maniera particolare. Le mie sculture bagnate in ferro, ma create in alluminio, nascono secondo un progetto kirigami: prendendo il foglio intero, tagliandolo e piegandolo, nasce un qualcosa di tridimensionale che originariamente era piano».
Quindi prima di realizzarlo lo progetti, non si evolve come attraverso le pennellate di Picasso?
«No, è tutto progettato, a volte occorrono 20 giorni di progettazione, con tagli e pieghe annesse, per cui se si sbaglia una linea, il quadro non funziona più e diventa un errore, o una forma totalmente nuova a volte».
La tua prima mostra a Taranto perché?
«Ho sempre pensato che non ci fosse una buona risposta in questa città, ma questa sera c’è stata, anche se la risposta  è data non solo dal consenso emotivo, ma anche da quello che diventa primario per l’artista, cioè la vendita. Nel momento in cui il quadro viene acquisito, percepito, tutto deve culminare nella reale conclusione del lavoro, venderlo. Io sono uno di quegli artisti che non conserva i quadri, ma li fa viaggiare, li fa girare per il mondo, soprattutto quelli a cui sono più legato. Effettivamente nella riuscita della mostra a Taranto non ci ho mai creduto, nasce dopo un anno di travaglio;  avevo bisogno di riprendermi come persona, dopo aver fatto una mostra a Pisa con un altro artista, che non ci ha dato grande soddisfazione, nel senso che non siamo riusciti nel nostro intento,  quello di far entrare i nostri quadri nelle abitazioni e nelle giuste collezioni».
Ora ti sei ricreduto?
«E’ stata una mostra che mi ha assorbito molte energie, anche se serve a farmi conoscere nella mia città. Mi hanno aiutato i social network, attraverso i quali coloro che hanno avuto modo di apprezzarmi hanno visto delle immagini, hanno visto delle foto e son piaciute, ma hanno scoperto che dal vivo sono un’altra cosa. La tridimensionalità non si sposa bene con la fotografia, che è piana e non  dà senso del volume, non dà la prospettiva, non  crea il gioco delle ombre che si realizzano invece con le luci sui tagli; il mio lavoro cambia in base all’osservatore e all’illuminazione. L’osservatore in base alla direzione in cui si muove davanti all’opera, ha una prospettiva diversa, quindi guardarla frontalmente dà un’immagine, guardarla lateralmente è come se fosse un’altra opera, sottoponendo a un altro gioco. L’illuminazione se è dall’alto verso il basso, crea delle ombre verso il basso, che si trasmettono sul quadro diventandone quasi parte. L’illuminazione crea un’ulteriore tridimensionalità».
Prossimi progetti?
«Quello di andare all’estero! Non è facile perché richiede tante energie e tanti investimenti, qui c’è solo il 5% di quella che è la mia progettualità, ma purtroppo bisogna fare i conti con la realtà; se tutte le opere realizzate non dovessero essere acquistate, ci vorrebbe un capannone per contenerle. Le opere bisogna prima smaltirle, perché hanno un peso, un costo e un volume, e questo rallenta i miei progetti futuri, così come  non avere un grande mercante d’arte (punto di contatto per l' arte contemporanea tra collezionisti, istituzioni, critici e artisti) che porta  grandi realizzazioni». 


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