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EGIDIO PANI/NON CHIAMATELO EVENTO

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

12
OTT
2012

 

Nato in un contesto storico ricco di fermenti nuovi,  in una Martina in bilico tra modernità e fuga nel passato, il Festival della Valle d’Itria è figlio di una lungimirante visione internazionale. A dimostrarlo la documentata analisi trasversale curata da Egidio ed Elisabetta Pani, in un saggio che si oppone al fiato corto e alla miopia dell’eventismo. Gli autori sono già al lavoro per il sequel
 
L’attuale proliferare di “eventi culturali” afferenti a diversi ambiti e interessi, da quelli artistici (musica, letteratura, arti visive) a quelli gastronomici e folcloristici, passando attraverso la valorizzazione di luoghi, paesaggi, beni architettonici,  produce un effetto di stordimento, lasciando che prevalga una logica casuale nella determinazione di scelte culturali.  Sembra che non solo ai fruitori, ma anche agli organizzatori degli eventi stessi  sfugga l’obiettivo  delle numerosissime esperienze che negli anni ’70 fecero  della Puglia  “la terra promessa della cultura”. In altri termini: di cosa parliamo quando parliamo di cultura?  L’urgenza avvertita è quella di individuare  i legami di senso tra pensato, agito e percepito, affinché la nostra Regione quella “promessa” possa mantenerla. In caso contrario, la smania dell’evento a tutti i costi, della visibilità,  che qualcuno ha definito “eventite”,  inevitabilmente si conclude in un nulla di fatto, in un dispendio di energie e risorse (denaro pubblico) che non produce alcuna crescita culturale, nessuna riforma del pensiero e dell’agire quotidiano.  “Se la musica è bellissima: Puglia terra promessa della cultura. Il Festival della Valle d’Itria”  è un volume scritto a quattro mani da Egidio ed Elisabetta Pani, per i tipi Levante Editori- Bari, in cui il minuscolo formato tipografico è inversamente proporzionale alla  elevata qualità, quantità  e spessore delle informazioni e delle riflessioni in esso contenute. Gli autori individuano nel Festival della Valle d’Itria  la più alta espressione artistica di una Regione  che, nel cuore degli anni Settanta,  aveva scelto di investire nella cultura come “componente essenziale dell’economia nella società dello spettacolo, della comunicazione, della vivibilità urbana prima ancora che della visibilità turistica”.  Ma sarebbe ingenuo pensare che le 150 pagine, di cui il prezioso volumetto si compone,  si fermino al commento di un’iniziativa ormai così consolidata e riconosciuta a livello internazionale, da rendere lapalissiani e, quindi, scontati, se non proprio banali,  i giudizi positivi. I Pani - padre e figlia – vanno oltre e ricostruiscono, con documentata accuratezza, una vera e propria storiografia del Festival della Valle d’Itria, esplicitando con chiarezza la coerenza dei  nessi tra scelte politiche, visioni culturali, trasformazioni economiche in atto, bisogni emergenti. Fu così che  “mercoledì 27 agosto 1975, alle ore 21.15, nell’atrio del Palazzo Ducale dell’elegantissima Martina, con “Orphée et Eurydice” di Gluck nacque il Festival della Valle d’Itria. Il titolo sui manifesti è quello originale francese. Quasi a precisare che il Festival è orgogliosamente, puntigliosamente internazionale; i titoli non si italianizzano!”  Non un “evento”, dunque, ma il risultato di una progettualità interculturale, tutt’altro che provinciale o campanilistica, lungimirante. Una progettualità  che era “distacco da un passato di sconfitte per il Mezzogiorno ed era la speranza (meglio l’illusione) che il Sud sarebbe cambiato con la cultura e con l’arte, con un servizio pubblico per tutti e non per pochi! Per un teatro necessario. E senza eventi!”.  Il tutto all’ombra di Paolo Grassi, a cui tuttavia – precisa Egidio Pani - “non piaceva il ruolo di nume tutelare” e non piacevano le “invidie paesane”.
 
Saggio? Come definire questo libretto che abbiamo letteralmente scovato, perché non presente in nessuna vetrina delle quattro librerie martinesi? Chi ne sono i destinatari? I musicologi? Gli operatori culturali? I fruitori del Festival?
«E’ un libro che quasi si nasconde. Abbiamo operato con umiltà, senza clamori. Lo abbiamo scritto quasi per noi, per comprendere e aiutare altri a comprendere un fenomeno che è sociale, quasi prima che artistico e culturale».
 
Il libro è stato autoprodotto. Ha provveduto Lei alle spese di stampa. L'ha voluto, insieme a Sua figlia, e ora lo diffonde presso centri di ricerca in Italia. Qual è la ragione di tanto, lodevole naturalmente, impegno?
«Elisabetta era molto interessata agli sviluppi culturali del Festival, anzi sta ancora studiando e continua ad approfondirli perché è una professionista accurata, profonda, seria, un talento straordinario. Io cerco da anni di capire meglio la Puglia. E lo faccio da dilettante – credo – di qualità. Elisabetta e io abbiamo sempre lavorato senza cercare finanziamenti pubblici. Abbiamo un’etica che osserviamo rigorosamente. Il Festival è la Puglia migliore e va conosciuto a livello nazionale ed europeo».
 
Da cosa nasce il legame con Martina Franca, tanto da dedicarle un capitolo? (Martina Franca: città, paese, borgo, continente?).
«Non sono pugliese. Mio nonno era sardo, mio padre napoletano, mia madre romana; sono nato in Calabria e ho studiato a Napoli. Vivo a Bari da decenni e mi ha colpito la profonda diversità della Puglia, in specie della cosiddetta Terra di Bari, rispetto alle altre Regioni meridionali. Ho voluto comprendere questa diversità che lego alla inesistenza di una “questione meridionale” come malamente  imposta da intellettuali e politici.  Dei diversi e più Mezzogiorni e della specificità pugliese ho scritto in alcune mie pubblicazioni come “Immaginare Bari”, “La maschera caduta. Il Teatro Petruzzelli” e in questo volume dedicato al Festival di Martina. In cui oltre il Festival, la cui vicenda artistica è descritta da Elisabetta, ho cercato di capire una storia dove la politica ha avuto gran parte ma anche l’entusiasmo intelligente di pochi».
 
Nel capitolo dedicato a Martina e ai martinesi, Lei scrive: "E' una città complessa: è contadina, baronale, intellettuale, operaia, imprenditoriale... A Martina Franca, nella apparente serenità dei rapporti sociali, cova un forte individualismo, a volte chiuso, apparentemente fuggevole alla partecipazione sociale". Vuole chiarirci questo aspetto?
«Martina è una città ambigua. E’ nella modernità ma dalla modernità vorrebbe fuggire. E’ una città in apparente (forse falso) movimento: non mi è facile chiarire questa mia impressione. Mi ha colpito in un negozio trovare, accanto ai prodotti della terra (verdure etc.),  i prodotti di una industria di bellezza  martinese (creme per il viso etc.). C’è voglia di fare, di crescere, di industriarsi.  Ma c’è anche voglia di tornare a essere la piccola capitale dei Duchi. Martina è  dentro la modernità, anche quella deteriore, perché alla devastazione di un territorio prezioso e unico i martinesi tutti – non diamo colpe ai soli politici! – hanno contribuito notevolmente con eccezioni come quelle che si raccolgono  intorno a “Umanesimo della Pietra” ed agli intellettuali fuori del coro». 
 
Fulcro della Sua puntuale ricostruzione storica è la nascita del Festival della Valle d'Itria, "segnale del cambiamento radicale avvenuto in Puglia tra il 1960 e il 1980. Può sintetizzarci questo mutamento?
«La ringrazio di aver colto l’accurato esame storico fatto sul decennio pre Festival. Il Festival, da solo, non è comunque il cambiamento che era già in corso nella società contadina e piccolo borghese dei paesi dei trulli».
 
C'è una parola che Lei non ama: evento. Eppure questo termine è oggi più che mai ricorrente, tanto da sembrare il toccasana della cultura, dell'economia.
«Elisabetta e io non amiamo gli “eventi” , amiamo le cose fatte bene, senza clamori, profonde e serie e perciò bellissime anche senza essere eventi gonfiati dalla cattiva informazione e dalla cattiva politica».
 
Sono tanti i punti esclamativi e quelli interrogativi che ricorrono nel Suo libro. Soffermiamoci sui punti interrogativi. C'è un futuro tra i trulli?  Ci sembra di cogliere alcuni timori.
«Il mondo ci è cambiato sotto i piedi e non ci accorgiamo delle voragini che si aprono. Il Mediterraneo non è mai stato un mare di pace (oltre le retoriche che imperversano, imperterrite e fasulle), è un mare di sangue. Dovremmo acquisire il futuro che ogni giorno ci entra dentro creando una etica nuova, una moralità comune, una scuola che formi giovani addestrati a quel futuro. Scimmiottiamo, invece, vanamente i modelli imposti dalla pubblicità e da una informazione corrotta e quindi dal grande capitale finanziario  che la gestisce. Siamo out anche se ci illudiamo di essere in! Il Festival di Martina deve trovare ragioni profonde cui ancorarsi, se no diventa una delle tante manifestazioni estive che sorgono a migliaia (fin quando i soldi pubblici ci saranno…)  in una Puglia stordita, in una Italia infelice, in una Europa distratta e senza futuro».
 
Il libro è stato scritto a quattro mani, insieme a Elisabetta Pani, nota pianista, vincitrice di numerosi concorsi nazionali e internazionali. Il suo contributo permette di cogliere la storia delle 38 edizioni del Festival, attraverso l'analisi delle opere proposte al pubblico. Ad Elisabetta  Pani chiediamo: quali gli aspetti salienti che emergono nelle varie direzioni artistiche e qual è stata l'evoluzione culturale?
«La circostanza che più colpisce analizzando l'evoluzione culturale del Valle d'Itria è che dal 1975, anno di nascita del Festival, fino all'ultima edizione dell'estate 2012, la manifestazione martinese è riuscita a mantenere salda la sua originaria identità musicale; dalla gestione Caroli e Stefanelli fino all'ultimo direttore artistico Triola, passando attraverso i lunghissimi periodi di Celletti e Segalini.
Con scelte musicali caratterizzate dal coraggio di dar vita a un Festival privo di titoli famosi e già cari al pubblico, recuperando opere rappresentative del bel canto italiano e della scuola napoletana con rigore filologico sulle edizioni originali spesso mai eseguite in tempi moderni. E  il coraggio di riscoprire opere di compositori di pugliesi quasi del tutto sconosciuti al pubblico nazionale e internazionale».
«Celletti sottolineò, accanto alle linee guida fondanti, la predilezione per il bel canto e l'importanza della scelta delle "voci giuste" per i diversi ruoli. Non cercava il protagonismo divistico, montato spesso dalle amicizie giuste e una stampa amica, ma voci scelte con una cura che solo lui poteva avere nel cogliere le sfumature più profonde di ogni voce assegnando a essa il ruolo per lei veramente perfetto. La convinzione che alcune opere desuete e musicalmente complesse possano rivelarsi dei capolavori se messe in scena dagli interpreti giusti è uno dei punti di forza del Festival.   Proprio scegliendo il difficile il Festival ha trovato la sua strada tra le tantissime iniziative festivaliere italiane. L’obiettivo non è attirare più pubblico possibile, ma attirare un pubblico di qualità creando un punto di riferimento unico per un determinato repertorio. Il pubblico del Valle d’Itria sapeva che sarebbe andato incontro a un’esperienza musicologica particolare».
«Anche Segalini, pur  ampliando la dimensione del Festival con opere in particolare francesi, continua la ricerca di partiture meno eseguite o di versioni originali poco rappresentate. Egli lascierà in eredità anche numerose edizioni filologiche redatte appositamente per le messe in scena del Valle d'Itria secondo i criteri dell'accurata ricostruzione delle originali intenzioni del compositore».
«La nuova direzione artistica di Triola non rinnega il passato, anzi lo esalta e lo valorizza, con scelte che rimarcano l'identità originaria del Festival: gli autori della scuola meridionale, il belcanto, la rarità, le edizioni filologiche. A questo però si affianca una grande apertura alla modernità con la messa in scena di opere contemporanee spesso caratterizzate da argomenti sociali legati ai temi dell'identità, della tolleranza, dell'interculturalità con uno sguardo anche alla storia del secolo appena trascorso e a quella contemporanea. E nel 2012 per la prima volta in 38 anni il Festival commissiona un’opera a un contemporaneo: “Nur” di Marco Taralli (Aquila 1967). La vera scommessa che ora si gioca è innovare, quindi, con talenti giovani non trascurando il grande patrimonio dei giovani artisti pugliesi».
 


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