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ALESSANDRA SARCHI/Vita in due

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

22
MAG
2015
Alessandra Sarchi nel libro “L'amore normale” (edito da Einaudi) analizza quel mistero che si cela in ogni rapporto amoroso, narrando i conflitti dell’amore nell’epoca contemporanea e tratteggiando quella sottile utopia che cerca di abbattere i vincoli del possesso amoroso e dell’assolutezza che da esso prende forma, ricordandoci che l'amore è molte cose, ma in primis è  la necessità di sentirsi vivi. Del resto siamo tutti vittime della retorica culturale che sul sentimento amoroso si è costruita e la  monogamia  è la  forma in cui la civiltà occidentale ha elaborato la nostra visione dell’amore e del sesso. “L’amore normale” è  vincitore dell’edizione XIX del Premio Letterario Internazionale “Scrivere per Amore” dedicato ai libri d’amore, promosso dal Club di Giulietta. Un libro che ha il coraggio di interrogarsi sulle possibili varianti della famiglia nucleare e che prende le distanze dall'ipocrisia e dalle maschere sociali che troppo spesso indossiamo  per nascondere le insicurezze dell’età adulta. Come già nel suo precedente romanzo “Violazione”, Alessandra cerca di rimarcare come natura e cultura si combinino sempre nella definizione di ciò che culturalmente consideriamo normale, consono e giusto. Il libro inizia e finisce con due citazioni di Wolfgang Goethe, tratte da “Le affinitaÌ€ elettive”, del resto il  testo di Goethe continua ad essere di grande modernità, perché dichiara la consapevolezza di una netta contraddizione presente nelle relazioni amorose: da un lato la carica passionale, ribelle, piacevolmente destabilizzante dell’innamoramento e dall'altro, la cornice costrittiva e monotona dell’istituzione matrimoniale, come dire...da  innamorati si vorrebbe cambiare il mondo, da sposati si cerca di sopravvivergli. Il romanzo richiama il quadrilatero amoroso delle “Affinità elettive” di Goethe, ma “L’amore normale” ha un finale aperto e meno tragico. Per Laura, protagonista principale, la malattia è simbolo della precarietà della vita, infatti il  tumore al seno  le lascia una  cicatrice rosea  ed è da quel taglio di dolore e paura che nasce il senso e il desiderio della  “possibilità”, infatti la malattia agisce da fattore disgregante del suo matrimonio  fino ad allora considerato “normale e tranquillo”. Laura è alla ricerca di un po’ di felicità e la trova nel desiderio di concepire nuovi legami quando la fiamma di quelli vecchi è quasi spenta. Lei tenta di definire l’innocenza dell’adulterio, ma scopre che l’amore, quello “normale”, non è condivisibile. 
 
Per  Marguerite Duras, “scrivere era l’unica cosa che popolava la mia vita e che la incantava. L’ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonato”. Quando è nata in  lei  l’esigenza di affidare alla scrittura il  suo sentire più profondo. E cosa rappresenta per lei la scrittura?
 
«Rientro nel numero di scrittori che dichiarano di aver scritto da sempre, da che  hanno imparato l’alfabeto e la lettura. Ricordo certi pomeriggi, al tempo delle scuole elementari, in cui ritagliavo una figura, spesso da un giornale illustrato, la incollavo su un foglio e ci costruivo intorno una storia. Erano momenti di intensa e solitaria felicità. Non ho mai smesso, anche se la volontà di scrivere per pubblicare si è manifestata abbastanza tardi, dopo che mi ero data un’identità professionale come storica dell’arte. Scrivere mi consente di dare consistenza a percezioni e pensieri che squarciano l’ordinarietà e anelano a una forma, ma anche di evadere poiché la scrittura è sempre evasione, anche se si dichiara ispirata a un principio di stretta osservanza realistica, anche se è animata da un’istanza cognitiva è comunque e sempre una ricreazione, la traduzione codificata di un vissuto o la sua elaborazione immaginifica, dove il margine di scarto è anche una via di libertà incoercibile. La scrittura è un’operazione di illusionismo che mira a trovare la verità».
 
C'è  uno scrittore, un libro, una corrente che ha agito in  lei come via maestra  verso il mondo della scrittura? 
 
«Tutto quello che ho letto e che leggo finisce nella mia scrittura, per adesione o rifiuto, dal momento che la scrittura per me è questa iper-realtà con cui guardo il mondo. Tuttavia per far sì che la scrittura diventasse, oltre che un abito mentale, anche un’attività pubblica e riconosciuta, più dei libri hanno contato gli incontri con le persone, altri scrittori e specialisti del mondo dell’editoria che mi hanno introdotta a un mestiere, dandomi fiducia». 
 
Cos'è l'esperienza dell'amore per lei e  da dove o da cosa ha tratto ispirazione per scrivere il romanzo “L’amore normale”?
«Il verso delle Bucoliche di Virgilio – Omnia vincit amor, et nos cedamus amori – mi ha sempre fatto pensare alla radice biologica di questo sentimento: amiamo chi ci fa intravedere una cancellazione, non importa quanto momentanea, dei nostri limiti temporali e quindi della morte, amore, sessualità e continuità della specie sono intrinsecamente legati e vanno molto oltre la nostra capacità di dominio individuale. Però, essendo animali sociali, abbiamo anche avuto la necessità di regolare questo sentimento, dandogli una casa e un istituto giuridico attraverso lo stato, santificandolo e assolutizzandolo attraverso la religione. Non è detto che l’impianto sociale e culturale cresciuto intorno all’impulso amoroso sia sempre adeguato, prova ne è la profonda messa in discussione dell’idea di famiglia eterossesuale e monogamica in corso nei paesi occidentali. “L’amore normale” è una storia che parla di tutto questo e della mia passione per le coppie, per il mistero insondabile anche per chi lo vive, che fa stare insieme due persone». 
 
L’abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi  situazione e  qualsiasi morte lenta, tanto che il tradimento, ad un certo punto, sembra l’antidoto al morire ogni giorno un po’, perché mette a nudo le nostre ipocrisie e la nostra voglia di illuderci. Cosa succede quando ci si rende conto che le aspettative della società e le abitudini hanno preso il posto dei  nostri desideri reali?
«Nel migliore dei casi, quando subentra questa consapevolezza, avviene una ribellione e l’apertura verso un nuovo orizzonte. Tuttavia ne “L’amore normale” non è tanto l’abitudine a corrodere una coppia consolidata, quanto un trauma vissuto in modo molto diverso che finisce per separare, anziché unire. Credo sia molto comune, il dolore e la paura di perdere tutto ci portano a una dimensione di solitudine che può non essere facilmente condivisibile. Quante coppie si allontanano dopo un lutto, una grave perdita, una malattia che richiedono un’elaborazione individuale dall’esito affatto scontato».
 
Nel suo romanzo alcune esistenze  rinascono a nuova vita quando si rendono conto che le loro maschere sociali hanno preso il posto dei loro volti, che la luce dei loro occhi non splende più, solo allora trovano il coraggio di abbandonare le proprie false certezze e andare incontro al possibile, perché la vita è un sentiero imprevisto, qualcosa di incontrollabile ma certamente non casuale. Qual è la sua personale visione del destino e del coraggio delle scelte non facili?
«I personaggi romanzeschi sono portatori di un destino, o almeno dovrebbero essere costruiti in modo tale che il lettore veda in essi rispecchiata una possibile traiettoria. Nella vita fuori dalle pagine scritte individuare la propria traiettoria può non essere così facile. Ci sono individui dotati di maggiore determinazione, fortuna, coraggio forse. Credo si debba scegliere ogni giorno e forse non esistono opzioni facili o difficili di per sé, esistono solo le scelte, che ci rendono persone a tutto tondo, il resto è probabilmente inerzia». 
 
Gli uomini e le donne messi in scena in questo romanzo, rappresentano ognuno di noi con le nostre paure di cambiare, di mettersi in gioco seriamente, di guardarsi allo specchio e non riconoscersi più. C’è quasi una visione freudiana della vita dei personaggi, può essere definito un romanzo introspettivo, psicologico, un percorso che scava nel profondo di ognuno di noi. Come ha analizzato questi aspetti?
«Con L’amore normale volevo scrivere un romanzo corale, in cui ogni personaggio potesse esprimere la propria visione, il proprio pensiero. I confini del nostro io sono tracciati spesso dall’agire e dall’esserci degli altri, solo consentendo a ogni personaggio di dire ‘io’ mi pareva che emergesse questa pluralità di punti di vista».
 
Nel libro ci sono riferimenti artistici, a partire dal quadro “Penelope e Ulisse” che Davide e Laura vedono visitando una mostra di Primaticcio e che mostra  Ulisse mentre sfiora il mento della moglie, come per toglierle una maschera. Questo quadro fa scendere una lacrima dagli occhi di Laura, consapevole di stare tradendo il marito, ma anche dell’amore che prova per lui. Altro richiamo artistico è dato da "La joie de vivre” di Matisse. Nel racconto emerge  la sua passione per l’arte e  la potenza evocativa delle immagini. Del resto parola e immagine sono figlie della stessa Arte Madre, è così?
«Io penso spesso per immagini, lo faccio per abitudine inveterata e consolidata dal tipo di studi storico-artistici che ho compiuto. Parola e immagine intrattengono un rapporto complesso, appartengono a codici espressivi molto diversi e specifici, non sovrapponibili. Si dice spesso che viviamo in un mondo dominato dalle immagini e con questo si allude a una loro maggiore comprensibilità rispetto al testo scritto, eppure le immagini hanno una complessità non inferiore alle parole e rispetto alla quale siamo fra l’altro assai meno abituati a un’operazione di decodifica attenta, limitandoci forse a una fruizione di superficie, in prevalenza sensoriale». 
 
 
Nel romanzo l’ombra di Tanathos aleggia sulla vita dei protagonisti e chiama in causa il suo antagonista Eros. Per Laura,  la malattia è simbolo della precarietà della vita  segnata da un tumore al seno che le lascia una rosea cicatrice e agisce da fattore disgregante del suo matrimonio fino ad allora considerato “normale e tranquillo”. Subentra così il tradimento. Come si può vivere con onestà un rapporto d'amore senza sentirsi oppressi dai sensi di colpa o da logiche culturalmente determinate?
«Credo di non avere una risposta a questa domanda. I personaggi del mio romanzo sono tutti inseriti in un contesto sociale e culturale che li determina, come ognuno di noi è determinato dal luogo in cui vive e agisce. Il che non significa che venga a mancare del tutto la libertà, la possibilità di essere autentici. Nell’eros c’è una carica eversiva molto forte che però poi tende a essere normalizzata, non solo dalla società, ma anche da noi stessi altrimenti sarebbe una forza troppo lacerante e dispersiva. Forse dobbiamo accettare che questo equilibrio non sia mai dato una volta per tutte, ma debba continuamente essere ricercato e rinnovato».
 
Il suo romanzo "Violazione", che allude alla profanazione della terra per mano dell’uomo, al mancato rispetto di regole e allo sfruttamento delle risorse come se fossero illimitate, fa riferimento anche a una violazione più intima, quella della fiducia, dei rapporti umani. Cosa può dirci in merito?
«Violazione è un termine di ambito giuridico e fa riferimento al mancato rispetto di regole che sono state stabilite dagli uomini per una loro pacifica convivenza.  Nel mio romanzo omonimo è proprio questa la dimensione che viene a mancare: il rispetto delle regole. Un fenomeno peraltro molto marcato nel nostro paese. Si dice che senza regole l’uomo torna a una condizione ferina, ma non è vero, gli animali hanno regole, altrimenti non potrebbero costruire comunità e conservare la loro specie; certo l’istinto di sopravvivenza è l’unica legge che sembra governare indiscussa il mondo animale, ma l’uomo sembra sottrarsi anche a questo principio elementare. Quando un elemento minaccia il branco con i suoi comportamenti, il branco lo isola. Viceversa nell’evoluto e complesso mondo umano spesso singoli individui accumulano quote di potere molto pericolose per il loro prossimo, o come sta accadendo da almeno un secolo, l’intera umanità adotta un atteggiamento di sfruttamento del pianeta come se le risorse fossero infinite, e non lo sono. Insomma, le regole dovrebbero servirci a colmare la distanza, davvero grande, che si è scavata rispetto al senso del limite fornito da quella che i Greci chiamavano la fusis, e che possiamo tradurre un po’ grossolanamente come natura». 
 
 
Il dolore è parte integrante della nostra vita, irrompe improvviso, ci possiede e ci abita, ci abbandona per un certo tempo salvo poi fare ritorno, ci spinge a evolvere, scardina certezze diventando motore  dell’evoluzione. 
Qual è la sua interpretazione del dolore  e della possibilità di superarlo?
«Io non credo che il dolore migliori nessuno, ammesso poi che abbia senso parlare di miglioramento e non, invece, più semplicemente di esperienza. Siccome il dolore è un’esperienza molto forte ha notevoli possibilità di incidere su chi lo prova, ma non è detto che questo porti a una svolta positiva, anzi. Spesso il dolore indurisce, chiude, anestetizza. Comunque prima o poi capita a chiunque, nelle forme più varie e non c’è cura brevettata: dobbiamo attraversarlo, se intorno troviamo la compassione, ossia la capacità di immedesimazione e di empatia che la nostra specie ha sviluppato, abbiamo il più forte alleato possibile».
 
Quale consiglio può dare a uno scrittore alle prime armi?
«Uno scrittore alle prime armi dovrebbe dimenticare tutto quello che hanno detto gli altri scrittori e trovare la propria voce. Se non si spaventa davanti a questa operazione solitaria, direi che può andare avanti».


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