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Racconti a quattro zampe /Cane, gatto e passerotto

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

12
GIU
2015
Quell’anno la primavera proprio non voleva o forse non riusciva a soppiantare l’inverno. Sta di fatto che verso la fine di aprile la temperatura, anche se più mite, non era certo quella che ci si poteva aspettare. Le piogge e il vento la facevano da padroni e di casa si usciva ancora con gli abiti invernali.
Una domenica mattina mia madre, come tutte le domeniche, era uscita presto per andare alla prima messa “Per potermi dedicare alle cose da fare in casa e per preparare il pranzo domenicale”, diceva a chi le chiedeva perché facesse quella levataccia anche nei giorni festivi. 
Quando tornò dalla messa, intirizzita, con gli abiti e le scarpe fradici di pioggia, tra le mani teneva il suo foulard di seta il quale, a sua volta, conteneva qualcosa. Era un passerotto che, probabilmente a causa del vento e della pioggia battente, era scivolato fuori dal nido e non sapendo ancora volare era caduto a terra, tra rivoli d’acqua e pozzanghere. Mia madre vedendolo si sciolse il fazzoletto che le proteggeva la testa e lo raccolse. Una volta a casa depose tutto vicino al caminetto e dopo essersi andata a cambiare d’abito, tornò in cucina arrotolando un calzino di mio padre. Aperto con cautela il foulard, prese il passerotto e lo depose delicatamente nella calza che aveva assunto la forma di un caldo nido di lana. Per tutta la giornata il passerotto non si mosse da quel nido improvvisato, né dette segni di vita, ma il mattino successivo, quando mia madre lo prese tra le mani per cercare di imboccarlo con della mollica imbevuta di latte sistemata all’estremità di uno stecchino, il passerotto sembrò destarsi dal suo torpore e spalancando il becco per inghiottire quel cibo inaspettato, allungò il collo e cominciò a pigolare. L’operazione venne ripetuta da mia madre più volte al giorno e per più giorni e il passerotto, anche se non si azzardava ancora a lasciare il suo nido di lana, quando la vedeva avvicinarsi cominciava a cinguettare, a spalancare il becco e a rizzarsi sulle zampette. Anche la gatta e il cane di casa si stavano abituando a lui. Quando lo videro per la prima volta saltellare sulla mensola della cucina stettero per un po’ a guardarlo incuriositi, poi tornarono nella loro posizione di sempre: raggomitolati sul tappeto davanti al caminetto acceso. La gatta, anche se femmina, la chiamavamo Gimmi, come tutti i gatti che avevamo avuto, e anche il cane, come tutti i cani che avevamo avuto, si chiamava Fido. Dividevano tutto: spazi, giochi e a volte anche la cuccia. Solo il cibo era differente. La gatta, troppo aristocratica e schifiltosa, non si sarebbe mai abbassata a mangiare quella carne penzolante dalle ossa bollite che mia madre dava al cane. Per lei si doveva provvedere diversamente, con specifici bocconcini posizionati fuori dalla portata del cane, perché Fido non faceva tanti complimenti quando si trattava di mangiare. 
Il cane, se era ancora vivo e poteva poltrire davanti al caminetto lo doveva solo a mia madre, perché da un pezzo per mio padre avrebbe fatto ben altra fine. Eravamo andati a prenderlo circa due anni prima a casa di un suo amico. Lo scelse tra la cucciolata e lo portammo a casa. Lo svezzammo e verso i nove mesi cominciammo ad addestrarlo, ma i risultati, lamentava mio padre, tardavano. Quando arrivò la stagione della raccolta dei funghi mio padre e io ci armammo di coltello, spazzolino e cesto di vimini, chiamammo il cane e tutti assieme ci inerpicammo su, verso il bosco che sovrastava il paese. Dopo qualche ora, senza che fossimo riusciti a trovare un solo fungo, ci accorgemmo che Fido non c’era più. Incominciammo a cercarlo, a chiamarlo, a fischiare ripetutamente, ma il solo risultato che ottenemmo fu quello di disturbare dei cacciatori che stavano appostati nei dintorni. Ritornando sui nostri passi chiedevamo a chi incontravamo se avessero visto un cane rossiccio dal pelo irto e di razza incerta, ma nessuno ci seppe dire niente. Verso le due del pomeriggio mio padre, con la cesta ancora vuota, decise comunque di tornare a casa: “Si sarà perso o sarà stato impallinato da qualche cacciatore che lo avrà scambiato per una lepre o un cinghiale” disse, rimettendosi il coltello in tasca e avviandosi giù per il sentiero. Giunti in cima alla discesa che portava verso casa, scorgemmo mia madre che ci stava aspettando davanti al cancello. Quando arrivammo a tiro di voce mio padre le chiese perché stesse lì ad aspettarci. Lei rispose che era preoccupata per il nostro ritardo. “Perché preoccupata?” Volle sapere mio padre. “Perché è dalle 11:30 che vi sto aspettando e voi non arrivavate. “E’ perché saremmo dovuti tornare a quell’ora?” chiese ancora lui. “Perché Fido è tornato a quell’ora. E io non vedendovi arrivare mi stavo preoccupando.” Mio padre sentendo quelle parole si irrigidì e le chiese dove si trovasse in quel momento il cane. “Dove vuoi che sia? Nella sua cuccia, davanti al caminetto che dorme.” Gli rispose lei. In preda alla rabbia, mio padre lasciò cadere a terra il cesto, scostò me e mia madre e si precipitò in casa. Ci volle tutta la calma e la diplomazia di mia madre, nonché le mie lacrime, perché il cane non fosse passato per le armi. Da quel giorno l’indifferenza di mio padre nei suoi confronti fu comunque totale, ma Fido non sembrò preoccuparsi molto, anzi. Da quel giorno si sentì ancora più libero di fare quello che voleva, soprattutto dormire beatamente ai piedi del caminetto. Una volta sola mio padre lo degno ancora di uno sguardo, ma solo per dirgli: “Mai visto un cane più pigro di te. Mangia pane a tradimento.” Ma come detto Fido, ritenendosi superiore a quelle ingiurie, si limitò a sbadigliare e poi si rimise nella sua cuccia calda e riprese a dormire. Ma anche la gatta una volta rischiò un brutto quarto d’ora. Era successo quel giorno che mio padre aveva trovato in cantina dei sacchi di patate e di farina rosicchiati dai topi. Tornato in casa lo disse a mia madre e lei gli suggerì di posizionare delle trappole, ma lui rispose che lo aveva fatto, ma i topi sembravano troppo furbi per restarci intrappolati. Mentre rimuginava sul da farsi, a mio padre cascò lo sguardo sulla gatta che beatamente stava dormendo rannicchiata su una poltroncina imbottita. “Eccola la soluzione.” Disse, prendendola per la collottola. “Ma lasciala stare, non lo sai che è incinta? Tra qualche giorno nasceranno i micini, dove vuoi portarla?” Lo redarguì mia madre, ma lui non volle sentire ragione. Prese la gatta e la scaraventò in cantina. “Non datele da mangiare, mi raccomando. Quando le verrà fame se lo dovrà procurare da sola”, sentenziò mio padre chiudendo a chiave la porta della cantina. Naturalmente mia madre, sebbene lasciasse la gatta in quel luogo, le portava ogni giorno del latte e dei croccantini. Tutto continuò così fin quando un giorno mio padre si presentò sulla porta della cucina e con aria perplessa si appoggiò allo stipite dell’uscio:” Venite a vedere, io non credo ai miei occhi. Il mondo sta andando alla rovescia.” Io e mia madre lo seguimmo in cantina e quando scostò due sacchi di legumi scorgemmo la gatta che stava allattando i suoi micini. “Beh? Dov’è la novità?” Chiese mia madre: “Lo sapevi che era in attesa. Che c’è di strano se ora allatta i suoi cuccioli.” ”Guardate bene, per favore.” Replicò mio padre, scostandosi. Io e mia madre allora ci chinammo verso la gatta per vedere meglio e così scorgemmo si i suoi cuccioli che succhiavano avidamente il latte, ma tra loro si notavano anche dei topolini che cercavano di farsi largo per poter arrivare anche loro a succhiare il latte. Evidentemente anche la mamma topolina aveva partorito in quei giorni e allora, a differenza degli umani, le due mamme avevano optato salomonicamente per una pacifica e tenera convivenza.
Il tempo passava ed anche il passerotto, che ormai volteggiava liberamente per casa, dal lampadario alla credenza, dalla credenza alla finestra, aveva messo tutto il suo piumaggio “I passerotti non si possono tenere in gabbia. Mica sono dei canarini.” Disse un giorno mia madre aprendo la finestra per lasciarlo volare via. Titti, così chiamavamo il passerotto, volò sul davanzale della finestra, si affacciò e poi spiccò il volo. Mia madre, con una lacrimuccia che le bagnava le ciglia, richiuse la finestra e tornò alle sue faccende. Verso l’imbrunire sentimmo dei ticchettii venire dalla finestra, qualcuno stava battendo sui vetri. Era Titti che voleva rientrare. Aperta la finestra, il passerotto fece un breve gorgheggio e poi volò nel suo calzino che mia madre aveva dimenticato sulla credenza. Per giorni si ripeté quell’andirivieni del passero che volava via il mattino e tornava la sera, finché un giorno non fece più ritorno. “Forse avrà messo su famiglia.” Disse mia madre preparando la cena. Una mattina però, mentre si stava soffermando a parlare per strada con una vicina di casa, vide svolazzare sopra di lei un passerotto. Non ci fece molto caso, in campagna capita spesso di vederli volare nelle adiacenze delle abitazioni. Ma quando l’amica si allontanò e mia madre riprese la via di casa il passerotto svolazzò ancora più vicino, sempre più vicino, sino ad appoggiarsi sulla sua spalla. Era Titti, che riconoscendola aveva abbandonato per un attimo il suo nido e la sua covata per andarla a salutare.
 


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