Sceneggiatore, scrittore, imprenditore agricolo: parla l'autore de "Il mestiere più antico del mondo", a Martina per presentare il suo saggio sentimentale e per nulla retorico
“Tragico incidente stradale sull’Aurelia: morte tre persone e un contadino”. E’ questo l’efficacissimo incipit del “racconto sentimentale” di Antonio Leotti “Il mestiere più antico del mondo”, presentato presso l’Istituto Professionale di Stato “A. Motolese” nell’ambito del progetto di lettura consapevole portato avanti con la collaborazione del Presidio del Libro. Ospite d’onore, naturalmente, l’autore a cui abbiamo rivolto alcune domande.
Dopo aver firmato le sceneggiature di numerosi film, ne ricordiamo gli ultimi in ordine di tempo: IL PAESE DELLE SPOSE INFELICI (regia di Pippo Mezzapesa); VALLANZASCA. GLI ANGELI DEL MALE (Regia Michele Placido), la ritroviamo in libreria con un titolo decisamente non neutro: “IL MESTIERE PIU’ANTICO DEL MONDO” (Fandango). E questo mestiere è l’agricoltura. Reportage autobiografico, quasi diaristico nella prima parte, pamphlet con una conclusione rassegnata, nella seconda. Ce ne spieghi la genesi e il senso: passione o nostalgia?
«Il libro non nasce da una mia idea ma dalla mente fervida di Mario Desiati, il quale, conoscendo la mia esperienza agricola, mi ha chiesto di scrivere il libro. Ci ho riflettuto un po’, poi ho pensato che potevo provarci prendendo come modello quella specie di saggio sentimentale che è “Storia della mia gente” di Edoardo Nesi. Così ho scritto “Il mestiere più antico del mondo” in meno di due mesi. Sono bastati pochi tagli per arrivare poi alla stesura finale. Questa è stata la genesi del libro. La passione e la nostalgia vivono insieme nel libro in un rapporto che, per me, è abbastanza misterioso e inestricabile. Premesso che io detesto la nostalgia nella sua accezione sentimentale e lacrimosa, devo ammettere che il ricordo di quel mondo rurale ormai scomparso (per certi versi, fortunatamente scomparso), muove emozioni fortissime e incontrollabili. Basta una frase, uno scorcio, la vista di un campo lavorato, le mani massicce di chi la terra l’ha lavorata per davvero, per far emergere in un attimo “l’immenso edificio del ricordo”. Per questo non posso negare di essere nostalgico verso quel mondo, con tutte le sue storture e le sue ingiustizie che pure non mi piacevano nemmeno quando ero ragazzino. E forse, proprio da questa nostalgia è nata la mia passione, una passione senza precedenti, primitiva, solitaria, una forza che ti tiene incollato con i piedi per terra e che cambia per sempre la tua percezione del mondo.»
Parlare di agricoltura, di campagna, di mondo contadino in un contesto storico dominato dalle ferree leggi del mercato e dell’economia capitalistica non le sembra retorico?
«No, perché dovrebbe sembrarmi retorico? L’agricoltura è il settore primario dell’economia, fino a prova contraria. Purtroppo anche il nostro mondo è dominato, come recita la domanda, dalle ferree leggi del mercato, come potrebbe essere diversamente? Lavoriamo la terra e produciamo cibo. Cosa c’è di retorico in questo? Semmai la retorica appartiene ai media che danno del mondo rurale una rappresentazione idilliaca, falsa, puerile, usando parole d’ordine come “naturale”, “verde”, “genuino”, valli degli orti e colline fiorite, tutte formule che servono a vendere, mai a descrivere, il mondo dell’agricoltura. Curioso che la domanda dia implicitamente per scontato che gli agricoltori si sentono ormai espulsi e lontani dal mondo del mercato. Non è così. Ripeto, sono i danni causati da giornali e televisione, un argomento largamente trattato nel libro.»
Il 1994 è un anno cruciale per Lei: decide di lasciare il massacrante lavoro televisivo (aveva appena firmato come autore “DAVVERO” , il primo reality show italiano) per assumere la conduzione tecnica dell’azienda di famiglia a San Casciano dei Bagni in Toscana. Da scrittore a contadino, insomma. Due condizioni esistenziali accomunate , come lei scrive, da “velato disprezzo”. Può chiarirci questo concetto?
«No so se sono uno scrittore, sicuramente non sono un contadino, atteso che i contadini non esistono più, per fortuna. Esistono agricoltori, coltivatori diretti, piccoli proprietari, imprenditori agricoli, operai, braccianti, ma i contadini no, quelle donne e quegli uomini perennemente sfruttati che vivevano in condizioni precarie e miserevoli, per fortuna non ci sono più. Chi rimpiange il mondo contadino, non sa di cosa parla. Ciò premesso, vengo alla domanda. Il velato disprezzo di cui parlo nel libro ha due origini diverse. Quello riservato agli agricoltori viene dal sentimento di arretratezza, di obsolescenza antimoderna che le figure del mondo rurale suscitano nei cittadini inurbati insieme all’istintiva, ma tacita, paura verso la fatica fisica. È ovvio che si tratta di una falsa percezione della realtà. Il lavoro oggi è diventato molto meno faticoso, ci sono le macchine, le meravigliose macchine agricole, tecnologicamente avanzatissime, e anche nelle colture, nella selezione delle sementi, nelle tecniche di coltivazione, l’agricoltura ha fatto passi da gigante. Per quanto riguarda invece gli scrittori, la gente di cinema, gli artisti, insomma tutta quella massa di persone che si occupa della produzione di “cultura” (una parola che, a causa del suo progressivo svuotamento di senso, non è più spendibile, secondo me), si tratta di un fenomeno molto più diffuso e cosciente. Faccio un esempio: mia madre, figlia della borghesia terriera toscana, come racconto nel libro, quando vuole insultarmi, ferirmi, mi dà dell’intellettuale. Questa parola, fateci caso, è usata quasi sempre, e in ogni contesto, come un insulto. Comprende un’implicita accusa di elitarismo, di snobismo, di fancazzismo. Ecco, a questa forma di sprezzo mi riferivo. Quando dico il mestiere che faccio a qualcuno che non mi conosce, mestiere che, sia detto per inciso, non ho mai abbandonato, il più delle volte vengo guardato con la condiscendenza di chi pensa: “ Sì, va be’, fai lo sceneggiatore, lo scrittore, sì, va bene, ma quand’è che ti trovi un lavoro?”.»
E veniamo al Suo lavoro di sceneggiatore e di autore televisivo. Qual è il rapporto che lega la scrittura alle immagini? Ritiene che oggi la “parola”, i dialoghi siano dominati, schiacciati dalle immagini?
«La risposta richiederebbe lo spazio di un libro. Proverò a rispondere nella maniera più sintetica possibile. La sceneggiatura è soprattutto scrittura per immagini, si tratta cioè di una scrittura di “servizio”, di un testo fatto per essere trasformato in inquadrature, sequenze, scene. Le parole devono dunque rispondere a questa esigenza, servire esclusivamente a descrivere, nella maniera più concisa possibile, quello che si vedrà sullo schermo (per questo è obbligatorio l’uso della terza persona singolare e del tempo presente). Il dialogo, contrariamente a quello che si pensa diffusamente, non è un elemento a parte, separato dal corpo della sceneggiatura. Spesso questo genere di domande sembra alludere a una sorta di conflitto ontologico tra le immagini e il dialogo. Per quanto riguarda la mia esperienza, posso dire che il testo deve crescere tutto insieme, non ci possono essere dei buoni dialoghi, per intenderci, se il lavoro sulle immagini e quello, ben più importante, sui personaggi non sono stati abbastanza accurati. Poi si può dire tranquillamente che è buona pratica, almeno una volta lo era, limitare l’uso del dialogo a favore delle immagini. Uno dei miei maestri diceva: stiamo facendo cinema, non radio.»
Vallanzasca. Gli angeli del male da Lei sceneggiato è un film che ha destato numerose polemiche. Certamente anche la sceneggiatura non sarà stata un’operazione semplice. Ha subito censure prima di giungere alla forma definitiva?
«Il film ha subito la censura dovuta al sentire comune del nostro popolo. Durante la scrittura ci rendevamo conto che la storia che stavamo raccontando toccava corde molto intime e delicate per chi è stato vittima di Vallanzasca. La prima censura è venuta perciò da noi stessi. Poi, per quanto ne so io, non abbiamo avuto ingerenze anche perché i nostri referenti erano americani, i produttori della Fox, per intenderci.»
Qual è l’aspetto che l’ha più colpita di Renato Vallanzasca?
«Il dolore. Mai ostentato, mai lasciato trapelare, ma in tutto quello che dice c’è, non il rimpianto, ma il dolore per una vita gettata al vento. Basti pensare che Vallanzasca, condannato a quattro ergastoli e duecentosessanta anni, ha trascorso in carcere 42 dei suoi 62 anni.»
Ritiene che oggi in Italia ci sia spazio per l’autonomia narrativa, la creatività e la qualità letteraria degli sceneggiatori? Mi spiego: i gusti del pubblico (fortemente omologati) non le sembra che condizionino al ribasso la qualità della scrittura cinematografica?
«L’autonomia narrativa degli sceneggiatori mi sembra appartenere di diritto alla categoria dell’ossimoro. Lo sceneggiatore non è libero per definizione. Appartiene al regista del momento, lo deve psicanalizzare, capire, deve cercare di indovinare cosa ha in testa, che storia vuole raccontare e poi regalargli tutta la sua esperienza, la passione, in definitiva, la vita. Ecco perché sono personalmente contrario al termine “co-sceneggiatore”. È una parola che si sforza di descrivere una situazione di parità che nella realtà non esiste. Preferisco sentir dire che Antonio Leotti è lo sceneggiatore di Pippo Mezzapesa, per esempio. Molto più vicino alla realtà, molto più onesto dal momento che in quel momento, io appartengo a lui. I gusti del pubblico? Certo, l’impressione è che il pubblico rifiuti decisamente un certo tipo di film. Senza farne un dramma, penso che dovremmo prenderne atto e industriarci a trovare un modo per salvare il senso del nostro mestiere e offrire contemporaneamente qualcosa di interessante al pubblico. È già successo in Italia, la commedia all’italiana, frutto della censura bigotta del nostro paese, ne è un esempio luminoso.»
Lei ha sceneggiato “IL PAESE DELLE SPOSE INFELICI” di Mario Desiati. Nel passato ha sceneggiato IL PARTIGIANO JONNY. Qual è la maggiore difficoltà della trasposizione di un testo letterario in una sceneggiatura? E quale l’aspetto più creativo, stimolante?
«Per quanto sorprendente possa sembrare, stando almeno alla mia esperienza, non c’è gran differenza tra una trasposizione e un soggetto originale. Il problema principale (che film vogliamo fare? Cosa vogliamo raccontare ed eventualmente dire?) è identico in entrambi i casi. Bisogna cominciare comunque con una scaletta, cioè con una sequenza di segmenti narrativi che possano racchiudere il film in pochissime pagine, nel caso di una trasposizione si fa riducendo il testo, nel caso di un soggetto, al contrario, si fa sviluppando il teso. Ciò che personalmente ritengo stimolante è la sfida. Tanto più la storia che dobbiamo raccontare va verso la complessità, tanto più mi esalto. I risultati, però, li lascio giudicare a voi.»