L'artista ha varcato l'oceano e affrontato un pezzo della dorsale jazz della East Coast che da New York raggiunge la sudista Georgia. Il risultato? Il disco Rylesonable, realizzato insieme a un pacchetto di mischia formato da ottimi artisti americani
Per secoli abbiamo dato per scontata “l’universalità dell’opera d’arte” basandoci su canoni estetici e concettuali assoluti. Ma è altrettanto vero che l’idea di arte/artista nella storia ha spesso cambiato pelle per adeguarsi all’evoluzione dell’umanità: nel XXI secolo non appare azzardato affermare che l’artista è una creatura in perenne movimento in un mondo ormai troppo piccolo per contenere l’esplosione di sapienza e bellezza di tutti gli artisti del mondo. Si riducono le distanze, cambia il linguaggio espressivo e cambia il pubblico fruitore che, finalmente, può definirsi “globale” nel senso pieno del termine. E’ probabile che la cantante Antonella Chionna sia giunta alle stesse conclusioni nel realizzare il suo ultimo disco Rylesonable insieme a un pacchetto di mischia formato da ottimi artisti americani? E’ probabile. Quello che è certo è la tratta aerea con cui ha varcato l’oceano per raggiungere il pianista Pat Battstone, il contrabbassista Kit Demos e il vibrafonista Richard Poole per una tournée USA che ha distillato suoni e voci che avrebbero costituito la “massa critica” del disco Rylesonable (prodotto dalla casa discografica DodiciLune – distribuzione IRD). Mai come stavolta l’antico detto “suonare a casa di suonatori” assume valenza piena visto che la Chionna (come la chiamano amici ed ammiratori) ha affrontato un pezzetto (piccolo ma significativo) della dorsale jazz della East Coast che da New York – spiaggia spiaggia – raggiunge la sudista Georgia. Di luogo comune in luogo comune: la tana del lupo! Una galassia di jazz club affollata da finissimi palati musicali che nei fine settimana si stravolgono di jazz e squisite bistecche americane, eredi diretti dell’aristocrazia della black music della cinquantaduesima strada di NYC. Non è un ambiente facile da penetrare per nessuno straniero, tantomeno per una discendente del belcanto italiano, anche se all’epoca dei fatti (2016) la folle corsa di Donald Trump nelle primarie americane non era ancora sinonimo di steccati internazionali. Ma la Chionna porta con sè il suo inseparabile zainetto rosso, una specie di borsa magica alla Mary Poppins, da cui l’artista estrae quei prodigi che ce la fanno amare come “artista totale”: è poetessa (e che poetessa), è improvvisatrice nell’area culturale che ha inventato l’happening, è bellissima (sul palco e fuori) ma soprattutto è grande cantante jazz nella terra che questo sublime genere musicale ha generato. Inoltre, che non guasta, gode di una padronanza della lingua americana che apre immediatamente le porte dello spettacolo al pubblico indigeno, favorisce l’interplay (l’amalgama diremmo in Italia) coi suoi accorsati compagni di viaggio, facilita lo scambio diretto di informazioni artistiche quando il progetto sonoro non è comodamente congegnato a tavolino ma nasce da un’idea istantanea che cresce e si nutre dell’estro dei quattro artisti. Infatti, ben otto dei dodici brani del disco sono frutto della loro intensa collaborazione lasciando solo tre tracce alla rivisitazione standard dei “monumenti” del jazz tra cui spicca Sophisticated Lady di Duke Ellington e una traccia in solo voce con testo della Chionna su musica del chitarrista e compositore pugliese Gabriele di Franco. L’approccio al Duca-Totem riesce ancora una volta a stupire (come nel precedente album della Chionna, Halfway to dawn - sing a song of Strayhorn); è minimalista e riletto, in audace misura, da suoni che provengono, inequivocabilmente, dal “di dentro” della cantante. Devastante è la bellezza del brano di chiusura in cui Antonella compie il miracolo di ibridare due classici come Lover Man (cavallo di battaglia di Billie Holiday) e Nature Boy (cfr. Nat King Cole) in una coltura di purissimo blues da cui emerge la maestria di Battstone/ Demos & Poole. Non è un caso che l’album godrà del doppio passaporto e circolerà, con buone speranze, anche negli Stati Uniti dove se la vedrà con l’imbalsamato sistema matriarcale del canto jazz americano che continua a sfornare una generazione di suffragette della musica tecnicamente bravissime ma tutte uguali e prigioniere del repertorio di maniera tranne rare eccezioni. Penso a Laurie Anderson, instancabile sperimentatrice della voce, che in Rylesonable fa talvolta capolino attraverso il corpo di Antonella Chionna. La parte dell’album più sperimentale, che non chiede mai ausilio all’elettronica spinta tranne le sobrie incursioni del piano Fender Rhodes di Pat Battstone (ndr, discepolo di Bill Evans), alterna bellissime e rarefatte atmosfere in cui la Chionna sfodera il suo fascino più irresistibile: la voce come uno strumento tra gli strumenti. Stavolta Antonella Chionna ha veramente “trovato l’America” e questo album la proietta in una dimensione tutta sua ed originale che spezza la litania delle cronache musicali su questa ex enfant prodige ormai avviata su un percorso sui cui esiti si può esprimere un solo pronostico: grande! Il disco è di una semplicità tale da rendere inammissibile qualunque forma di resistenza e/o allergia ai percorsi alternativi; è un inno alla resilienza pura verso i traumi causati da novità; è una porta da spalancare, con risolutezza, per accedere al suono totale che avvolge e coccola come una ninna nanna. Pregevole perfino nel titolo con Antonella che si permette un ardito calambour (gioco di parole) tra i suoni americani: Ryles, infatti, è il nome di uno dei locali jazz in cui il quartetto si è esibito durante il tour americano mentre reasonable è il corrispondente italiano di ragionevole.