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SPECIALE CARNEVALE / Le maschere tradizionali tarantine

Pubblicato da: Categoria: EVENTI

20
FEB
2019

Da alcuni anni Taranto sta rivivendo una seconda primavera per quanto attiene il Carnevale della tradizione in riva allo Jonio. Si tratta di un tentativo che viene messo in atto da alcune associazioni di stampo tradizionale che operano nella città antica del capoluogo ionico.

Si sta tentando di ricreare quell’atmosfera accattivante e allegra che ha dato brio ed importanza a questo Carnevale fino agli anni Sessanta del secolo scorso.

Come oggi anche ieri il grande contenitore che faceva da attrattore per la festa più pazza dell’anno era quella città antica che, pur trascurata per oltre 50 anni, tra l’ultimo secolo e il primo ventennio di quello attuale, ha saputo, tuttavia, mantenere intatto quel fascino e quel clima che era tipico della festa carnascialesca dei tarantini.

A differenza di Cispiano, di Mottola, di Massafra, di Martina Franca e di altri paesi dell’area jonica Taranto non ha mai vantato una propria tradizione carnevalesca incentrata sulla sfilata dei carri composti da molteplici personaggi lavorati in cartapesta.

Questa tradizione non ci appartiene e bene fanno oggi coloro che vogliono rilanciare il nostro Carnevale della tradizione a non impelagarsi in una operazione che sarebbe molto onerosa dal punto di vista dei costi ma anche dal punto di vista organizzativo. Per fare ciò, infatti, occorre una solida e comprovata ed esperta Fondazione che possa lavorare tutto l’anno per poi presentare al pubblico il frutto di tanto lavoro.

Taranto, nel segno della tradizione e della storia, ha saputo ritagliarsi quella fetta di festa  carnascialesca che ha fatto tanta breccia nella mente di noi tarantini al punto tale che ne vogliamo riprendere tutte le coordinate che insieme ci presentavano il clou del Carnevale nell’ultimo giorno ad esso riservato.

Dopo il 17 gennaio nelle case dei tarantini che abitavano nella Città Antica si cominciava a discutere su come mascherare i propri bambini. Nel passato non c’erano gli abiti principeschi e fatati di oggi e, quei pochi erano riservati ai figli dei nobili degli ultimi tre secoli.

Al popolo tarantino piaceva camuffarsi e far ridere di sé vestendo abiti che dovevano suscitare ilarità e satira al tempo stesso.

Sembrerà strano, ma così non è, sapere che tra le maschere preferite dai ragazzi c’era quello dello zoppo, del cieco, del gobbo e dell’ubriacone, invece alle bambine bastava indossare una gonna, una camicetta e un fazzoletto di raso della propria mamma e coprire il capo con un grande scialle di seta o di lana per personificare la donna popolana tarantina. Chi poteva cercava di ricavare con ritagliare da abiti da dismettere ciò che potesse rendere felici i bambini.

Per gli adulti il discorso era più impegnativo perché dovevano trovare gli abiti dei grandi condottieri, coprire il capo con cappelli adeguati ai loro abiti, tingersi il volto con il sughero bruciato o con il carbone e, talvolta, mettere sul volto anche una finta barba.

L’impegno più grande, però, era rappresentato dal fatto che i giovani che avevano estro ed energia dovessero per il martedì di Carnevale procurarsi un bel cavallo sul quale montare per scorazzare allegramente su e giù da Piazza Castello a Piazza Fontana attraverso l’allora abitata e commerciale via Duomo, l’Antica Strada Maggiore che, a buon motivo, fu battezzata dai nostri nonni come la via D’Aquino della prima metà del Ventesimo Secolo.

Altri esperti nell’addobbo dell’unico caro di Carnevale cercavano, un mese prima dell’inizio dello stesso, tutto quello che dovesse servire per rendere spettacolare questo grande carro che a malapena riusciva a passare nella stretta via Duomo quasi strisciando a destra e a sinistra fra i palazzi della strada nobile dei tarantini. Su questo carro c’era “ ‘u Tate”, espressione che i tarantini rivolgevano al proprio nonno ma che per l’occasione era riservata a Re Carnevale.

Re Carnevale veniva adagiato in un lettone in uno stato di grave e terminale malattia e le lunghe siringhe che venivano iniettate non servivano a nulla perché sembrava già scritto il suo destino.

Attorno al re Carnevale piangeva la moglie “Quaremma” vedendosi ormai vedova e tante altre maschere che non volevano accettare l’ingloriosa fine di Carnevale.

Giunto al Pendio di San Domenico il carro veniva preso d’assalto con scene strazianti di dolore. Re Carnevale era morto e bisognava bruciare il suo fantoccio nella Piazza Grande o Piazza Fontana. La stranezza era rappresentata dal fatto che pur trattandosi di un fatto luttuoso nella piazza si ballava e si cantava, invece i ragazzini davano vita ad una curiosa e pericolosa battaglia chiamata “’a petrescine”, una battaglia a suon di confetti ricci che se ti colpivano lasciavano un segno profondo e talvolta provocavano anche sanguinamento.

Per tutto il pomeriggio del Martedì di Carnevale era una avventura camminare su via Duomo perché i buontemponi nascosti dietro i vetri delle finestre e dei balconi rovesciavano addosso al malcapitato chili e chili di bianca farina rovinandone l’abbigliamento.

In casa le nostre mamme erano intente a preparare un ragù di una bontà eccezionale perchè fatto con più carni e, soprattutto, con le carni del maiale da poco ammazzato. Il secondo piatto variava dalle costate di maiale alla salsiccia a punta di coltello, il vino veniva versato a fiumi e le chiacchiere si friggevano e si mangiavano subito tanto erano buone, non c’era nemmeno il tempo perché potessero essere spolverate di zucchero.

Le tasche di noi bambini in quei giorni erano piene di confetti ricci e di confettini multicolori con uno stelo di cannella e perciò detti “cannelline” .

Questo era il Carnevale che piaceva ai tarantini e che oggi si sta cercando di far risorgere. C’erano però almeno altre tre maschere che traevano origine dalla dominazione spagnola nella nostra città.

La prima era quella di “Meste Giorge”, il nobile pettoruto che vestiva gli abiti di Luigi Filippo. Recava in mano un bastone in cima al quale c’era un pomo e ne faceva di cotte e di crude soprattutto prendendo di mira le belle ragazze.

C’era una ulteriore maschera chiamata “Scaligero”, c’era anche “Quaremma ‘a zinzellosa”, la vedova di Carnevale che affogava entrando ed uscendo dalle cantine che erano numerose in quei tempi nella Città Antica.

La maschera che era l’emblema della estrema povertà era quella di “Angiacche ‘a tignose”. Costei era una donna del popolo che vestiva in maniera dimessa e che nel corso dell’anno svolgeva un lavoro riluttante, infatti girava la sera nelle case dei nobili, metteva sulla sua testa pelata, a causa di una malattia del cuoio capelluto, il vaso da notte in ceramica e svuotava in Mar Piccolo gli escrementi che esso conteneva, previo una ricompensa che serviva per consentirle di poter sbarcare il lunario.

Alla mezzanotte in punto dal campanile della Cattedrale di San Cataldo suonava a morte il campanone. Era il segnale che il Carnevale si poteva considerare concluso. A quel punto nelle case dei nobili dame e cavalieri facevano cadere sul volto la maschera e le nostre donne si affrettavano a lavare con acqua bollente i tegami perché non rimanesse nemmeno la minima tracia di unto di carne suina. In piazza Arcivescovado il Vescovo e il Capitolo Metropolitano scendevano in processione, si accendeva il falò composto dai rami di ulivo della Domenica delle Palme dell’anno precedente e con la cenere si cospargevano il capo.

Era la Quaresima e tutti la rispettavano, tranne i nobili.

Ma questa è un’altra storia che vi racconteremo nello Speciale di Pasqua.



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