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IL COLOMBO

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

16
DIC
2016
Alla signora Isidora la zia del marito non era mai stata simpatica, ma pur di andare ad abitare in una casa di quest’ultima, senza pagare l’affitto, aveva chiuso un occhio e accettato di accudirla e si era anche presa l’impegno di prepararle tre pasti al giorno. 
Avevano questo impegno e così la sera, prima di andare a dormire, Isidora si recava dalla zia e le portava una tazza di tè di latte o di brodo.
Ma quella sera, quando entrò nella stanza con la tazza del brodo fumantee la vide immobile, supina nel letto,con gli occhi aperti,capìche era morta.
Si avvicinò, la chiamò, le sollevò un braccio che ricadde pesantemente sul letto e scivolò verso il pavimento,il capo si reclinò e anche le labbra si dischiusero leggermente come se volessero dire ancora qualcosa.
La signora Isidora non aveva bisogno d’altro per lasciarsi invadere dal terrore. Appoggiò la tazza con il brodo sul comodino e scappò via. Trafelatarientrò incasa, dovetrovò il marito Alvaro seduto in poltronache stava guardando la televisione.L’uomo, vedendola stravolta e smortacapì che era successo qualcosa, ma non chiese niente. Era sempre stato di poche parole.
«È morta». Sussurrò Isidora, e al pensiero che l’aveva addirittura toccataprovò un nuovo brivido che le corse giù per la schiena.
Il marito fece cenno di aver capito e spense la televisione, ma non trovò nulla di strano nel fatto che una di novantasette anni, seppure sua zia, fosse morta.
«Bisogna avvisare il prete, farlo venire per l’olio santo, la benedizione e recitare qualche preghiera». Aggiunse la moglie, ancorasconvolta.
All’epoca, quando il marito glielo aveva proposto, Isidora non ci aveva pensato due volte. 
«Dove si mangia in due,sipuò mangiare anche in tre».
Aveva sentenziato.L’importante era andare ad abitare in una casa decente e senza pagare l’affitto. Bisognava avere tanta pazienza, questo sì, ma era importante chiarire bene e soprattuttofar si che fosse messotutto nero su bianco. 
«Carta canta». Aveva risposto Alvaro, quando la mogliechiese preoccupata come sarebbero andate a finire le cose, ora che sua zia era morta. 
«Noi abbiamo un contratto firmato e controfirmato, e sappiamo che il testamento è stato depositato dal notaio e che è a nostro favore. Lascia tutto a noi, comprese le due case, sia quella dove abitiamo noi,sia quella dove abitava lei».
Ed era ora che ne venissero in possesso, dopo tutto quello che avevano fatto per lei, sibilòil marito.
Chiamato da Alvaro mentre si stava mettendo a letto, il prete, con la bottiglietta dell’olio santo in una tasca e l’acqua benedetta nell’altra, si recò a casa della vecchia Sconsolata, vedova Calumari, per le funzioni di sua competenza e lìfu raggiunto anche dal medico del paese che con un grugnito salutòi presenti, dettedistrattamente un’occhiata alla defunta epoisi trasferì in cucina per stilare il certificato: morte per cause naturali - Vecchiaia. Scrisse.
Quando se ne andò il dottore e di seguito anche il prete, Alvaro disse alla moglie che al momento non restava altro da fare e che pertanto potevano andare a dormire anche loro. Tutto il resto: fiori, manifesti e funerale, doveva essere rimandato all’indomani perché di competenza delle dame di carità della congrega della Santa Vereconda, di cui sua zia ne era la presidente onoraria.
La moglie gli ubbidì, ma dormire, ne era certa, sarebbe stato difficile,avendo ancora lo sguardo vitreo della zia davanti agli occhi e l’aveva anche toccata. Ne aveva di pensieri che le avrebbero turbato la notte. 
Quando, alle cinque e trenta del mattino Alvaro scese in cucina, la moglie era già lì: smorta, spettinata, in camicia da notte, con le calze calate sino alle caviglie, ma senza nessun segno di tribolazione notturna. Stava preparando il caffè, come al solito. Tutto come sempre, solo che adesso non sarebbe più dovuta uscirea quell’ora,in pantofole e vestaglia,per portarealla ziaSconsolata la colazione.
Celebrate le esequie, deposte le corone, terminate giaculatorie e rosario delle dame di carità, tutti tornarono a casa,e anche Alvaro e Isidora ripresero la vita di sempre,macon un’incombenza in meno e con due case di proprietà in più.
Alvaro,ormai da anni in pensione, il giorno successivo ai funerali,prese la sua doppietta e andò a caccia. Era la sua passione, sin da ragazzo: tordi, merli, allodole, beccacce, qualche lepre, in poche parole sparava a tutto ciò che gli capitava a tiro.
Usciva da casa verso le cinque, cinque e trenta, poco prima dell’alba e siincamminavasu per i sentieri che portavano verso i boschi e spesso, quando attraversava la piazza, gli capitava di incontrare il parroco che andava in chiesa acelebrare la prima messa. 
«Sia lodato Gesù Cristo». Esordiva il prete.
«Sempre sia lodato». Rispondeva Alvaro, ma appena girato l’angolo abbassava le braccia, congiungeva le mani e faceva un gestaccio perché così com’era vestito, tutto di nero e con la tonaca sino ai piedi chesembrava un corvo, riteneva che gli portasse iella. 
Per mancanza di selvaggina, per colpa del prete o di chissà cos’altro, non si è mai capito con precisione, Alvaro continuava però a rincasare con il carniere sempre vuoto.
A Isidora andava comunque bene così, perché da quando il marito aveva cominciato a soffrire diun’artrite infiammatoriache gli provocava forti spasmi, indolenzimento, gonfiore e arrossamento alle gambe, non aveva perso tempo e si era rivolta al medicoper chiedergli se potesse dipendere magari dall’alimentazione. 
«Niente carne». Aveva raccomandato il dottore.
«E la selvaggina?» Aveva azzardato lei.
«Veleno!» Sentenziò il medico.
Perciò,il giorno della morte della signora Sconsolata, quandoAlvarotornòdalla caccia con un piccione, invece di farlo mangiare al marito,Isidora lo aveva bollito e portato alla zia, per il pranzo.
Alvaro aveva adocchiato il volatile, appollaiato su un palo della luce alla periferia del paese, mentre stava rincasando ancora una volta senza aver sparato nemmeno un colpo. Due colpi di doppietta ma il piccione rimase lì, immobile, sul palo. Non si era mosso. La mira non era più quella di una volta, lo sapeva bene, ma adesso queste bestie non si spaventano più nemmeno degli spari, pensò.
Ricaricò e si avvicinò di qualche passoe sparò altri due colpi. Col primo lo mancò ancora, ma il secondo, con il quale lo colpìe solo perché il volatile non si era mosso, lo fece cadere ai suoi piedi.
Gli era venuto il dubbio di aver sparatoa un animale già moribondo, ma era la prima preda che gli capitava a tiro dopo giorni di vuoto assoluto, e allora lo raccolse e lo portò a casa.
La verità però, la venne a sapereilgiorni dopo, quando al bar incontro il suo amico Ugo, il falegname, che dopo aver preso il caffè con lui, gli disse che doveva tornare a casa per via dei colombi. 
«Che colombi?» Chiese Alvaro.
«Quelli che mi stanno lordandoil terrazzo con i loro escrementi».
«Come mai?» ReplicòincuriositoAlvaro.
«Da quando è venuta ad abitare sopra di me una coppia di romani che ha l’abitudine di lasciare sul davanzale briciole di pane e avanzi di cibo, i colombi vanno a mangiarli e intanto mi riducono il terrazzo una latrina. Un vero schifo. E mi sono stufato di passare le giornate a pulire e a gettare acqua sul mio terrazzo».
«E cosa puoi fare?» Insistette Alvaro.
«Che cosa posso fare? Prendodei chicchi di granoturco, li metto a mollo nell’acqua,aggiungo stricnina e camomilla. La camomilla per confondere gli odori. Lascio tutto a macerare per una notte e poi…mangiati due o tre chicchi, i piccioni possono recitare il de profundis».
In quel momento Alvaro realizzò perché tre giorni primaquel piccione non si era mosso nemmeno dopo i tre spari andati a vuoto e,tornato a casa,lo riferì alla moglie.
Isidora cominciò subito a tremare e a sudare freddo,e stava quasi per svenire al pensiero che quel piccione lo aveva bollito e portato per il pranzo alla zia del marito. E quel pensiero continuò a tormentarla anche nei giorni seguenti e a non farla dormire la notte. E allora decise di parlarne al parrocoe di chiedergli un consiglio, un parere, ma in forma ufficiale, nel confessionale e solo in confessione.
Dopo aver passato una notte insonne, al mattino,di buon’ora,Isidora andò alla prima messa, quella delle sei, e poi disseal parroco che voleva essere confessata. Il prete la guardò perplesso, si rimise la stola sulle spalle e s’infilò nel confessionale.
«Ma questa è roba per icarabinieri». Si lasciò scappare il prete, appena udito quello che gli aveva riferito la donna.
«Ma io ve lo sto dicendo apposta in confessione. Perché sarei venuta qua se no? Se volevo metterla in piazza o andare dai carabinieri,lo potevo fare di persona, senza passare prima da voi».
«E allora, da me cosa volete?» Chiese il confessore, non riuscendo a stare fermo sulla sedia.
«Non lo so nemmeno io. Magariuna penitenza, ma soprattutto l’assoluzione, perché io non ho commesso peccato. Non ne sapevo niente di niente che quel colombo era stato avvelenato».
«Non avete commesso peccato? Mortale lo avete commesso, e non solo, qui si tratta anche di un reato gravissimo. Avete ammazzato quellasanta donna, pace all’anima sua, conunboccone avvelenato. Ve ne rendete conto?»
«Ma io non ne sapevo niente, come ve lo devo dire? Come potevo sapere?»
Gli rispose pigolandoIsidora e soggiunse:«Non ne sapevo niente».
La discussione andò avanti ancora un po’, poi,lasciando Isidora più confusa e frastornata di prima, il prete si alzò di scatto e sparì dietro una pesante porta.
Giunto in sacrestia, il parroco si ricordò di aver visto in piazza e anche davanti alla canonicadei piccioni morti stecchiti, ma aveva creduto che fossero morti per cause naturali, per colpa di qualche malattia o di vecchiaia. E vederli immobili a terra,per lui era stato un vero dispiacere, perché i colombi gli erano sempre piaciuti e spesso dava loro da mangiare i ritagli delle ostie.
Qui si trattava di unreato e come poteva pensare Isidora di lasciare fuori i carabinieri? Il parroco non se la sentiva di tenerselo per séquel segreto. Se si fosse trattato dell’uccisione di un semplice piccione pazienza, ma qui c’era ben altro. Era un fatto impossibile da risolvere cristianamente,con quattro semplici Pater Ave e Gloria. C’era di mezzo la morte di quella santa donna, la presidentessa delle dame di carità, e bisognava assolutamente informare i carabinieri. 
Ma non andò in caserma, fece in modo di incontrare per caso, per strada,il maresciallocapo, quando attraversavala piazza per tornare a casa. 
Per tutta la durata dell’esposizione,tra mille se e ma, il sacerdote raccontò quello che sapeva e ventilòanche l’ipotesi che forse era stato commesso un reato, il militare prese mentalmente appunti e alla fine, avendo fatto un po’ di calcoli, sbottò:
«Uno?» Almeno quattro, ne vedeva di reati il sottufficiale: omicidio colposo, circonvenzione d’incapace, maltrattamento di animali e spari in luogovietato, perché i piccionie si sapeva, non si allontanavano mai dal paese, e quello doveva essere stato abbattuto in paese, al massimoin periferia, nei pressi delle ultime case.
Salutato il parroco, il maresciallo si fregò le mani e non fece niente per dissimulare la sua soddisfazione. In quel paese non succedeva mai niente, ma ora poteva dimostrare,sia ai superiori,sia ai paesani,come lui sapesse far rispettare la legge e perseguire i colpevoli.
La convocazione in caserma, ad Alvaro aveva provocato imbarazzo,forti dolori allo stomaco, gonfiore e arrossamenti alle gambe. Che cosa potevano volere da lui i carabinieri?
Ma quando il maresciallo gli chiese se avesse ben capito il motivo per cuierastato convocato, pensò alla morte della zia e rivide anche il piccione sulla cima del palo, immobile mentre lui prendeva la mira, e rispose di sì.
«Ma cosa c’entro io?» Aveva ribattutoa stretto giro, Alvaro. 
E altrettanto convinto che anche sua moglie non avesse nessuna responsabilità per quanto accaduto, riferì anche di lei. Lei non aveva fatto altro che spennare il piccione, cucinarlo e portarlo a sua zia Sconsolata, per il pranzo. Tutto lì. Loronon avevanonessuna responsabilità, né avevano infranto la legge. Per gli spari,Alvaro ricordò al maresciallo che era periodo di caccia ed era vero, e che il piccione lo aveva colpito al volo su in collina e che si trattava di un colombaccio, e qui invece mentì due volte.
Quelle risposte il sottufficiale le ritenne un colpo basso. Tuttavia a denti stretti e tra sé, aveva dovuto ammettere che non aveva tutti i torti il pensionato. Prove servivano. E allora con chi se la poteva prendere?
Con il medico se la poteva e doveva prendere, perché aveva stilato e firmato il certificato di morte mendace.Ma certo, se la doveva prendere proprio con lui, che fra l’altro gli stava anche sulle scatoleper via di quella faccendadegli anticoncezionali chiesti per la moglie e che subito era rimasta incinta di due gemelli. Ma non bastava. Se la doveva prendere anche con chi andava in giro ad avvelenare impunemente colombi.
E allora il maresciallo pensò di mettere sotto torchio il povero Alvaro che nel frattempoaveva cominciato a sudare copiosamente esi stava contorcendodai dolori.
«Se non mi dicesubito chi è che si diverte adandare in giro ad avvelenare colombi, che anche il prete se ne è accorto e ne ha visti stecchiti in terra, lei passerà un brutto guaio».
«Ugo Garzulo, il falegname». Rispose Alvaro, con un filo di voce, ma senza esitazione.
Dopo il dottore, segnalato al tribunale competente, il maresciallo convocò in caserma anche il falegname, il quale cercò inutilmente di scaricare la colpa sui romani, sulla loro cattiva abitudine, tutta capitolina,di dare da mangiare ai colombi, ma tutto fu inutile.
Sia il medico sia il falegname,furono costretti a ricorrere al patrocinio legale e scelsero una donna, l’avvocato Valeria Palumbelli,la quale però,stringendosi nelle spalle, davanti al giudice,non poté fare altro che appellarsi alla clemenza della corte.


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