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PARRUCCHIERA PER CASO E PER AMORE

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

22
DIC
2016
Sono stesa supina nella cameretta che un tempo era stata la mia e di mia sorella. Nel letto afianco al mio dorme Chiara, la mia bambina di tre anni. I miei genitori ci abitano da sempre in questa casa e per me e mia sorella Alessandra è sempre stata il nostro rifugio, quindi, quanti ricordi.
Mia sorella ha quattro anni più di me. Tutta precisina, compita, dolce, accondiscendente e studiosa, o meglio una secchiona. Si è diplomata e laureata nei tempi stabiliti e subito è andata a lavorare in uno studio legale. Si è sposata con un ufficiale elicotteristadella marina militare e non ha figli.
Io invece, tutto l’opposto, appena terminate le medie ho scelto l’alberghiero, non che mi interessasse il settore della ristorazione, solo perché mi avevano assicurato che lo studioera più blando e la pratica la faceva da padrona. Come Dio vuole riuscii a ottenere il diploma di: “Maturità Professionale per tecnico delle attività alberghiere”, che non ho mai capito nemmeno io cosa volesse dire. Comunque di quel diploma non me ne sono fatta niente perché intanto avevo iniziato a lavorare presso un parrucchiere per signora. Nessun contratto, nessuna assicurazione e la paga settimanale non era mai uguale alla precedente. A causa delle spese che doveva sostenere,iltitolare si lamentava sempre. Una volta c’erano i fornitori, un’altra le tasse, un’altra l’affitto del locale, la luce e altre mille cose da pagare. Insomma guadagnavo talmente poco che nemmeno con le mance riuscivo a racimolare un gruzzolo decente.
Con mec’era Loredana, o meglio, quando io sono arrivata, lei lavorava già da un paio d’anni in quel posto. Era brava a tagliare e tingere; bravissima nell’accostamento dei colori per le clienti chedesideravano i colpi di sole. Mentre io invece ero relegata a fare la sciampista e poco altro, oltre le pulizie, naturalmente. 
Un pomeriggio, in un momento di relativa calma, Loredana mi prese da parte e mi chiese di non andarmene subito dopo la chiusura, ma di aspettarla perché voleva parlarmi.
«A me?» Le chiesi stupita.
«Si a te. Ma non qui. Qui non si può parlare. Quando usciamo».
Era sempre stata così gelosa del suo ragazzo che pensaivolesseparlarmi di lui, per qualche marachella che avevo combinato e l’attesi oltre l’orario di chiusura e le chiesi:
«Be’ cosa mi volevi dire? Però,ti avverto, se ti devi lagnare di Giuliano, risparmiatelo, perché non ho nessuna voglia di starti a sentire».
Non centrava niente il suo ragazzo. Mi disse che si era stufata di lavorare in quel posto e per quella miseria che riusciva a guadagnare e stava pensando di licenziarsi per trasferirsi a Roma.
«Per i primi tempi andrei a stare da una mia zia, poi vedrò di sistemarmi per conto mio». Mi disse.
«E il ragazzo? Con Giuliano come fai?»
«Come faccio…? Lo lascio, tanto quello una sola cosa sa fare e per quella ne trovo quanti ne voglio».
«E il lavoro? Come ti mantieni? Pensi che a Roma aspettino tutte te le signore per farsi fare la messa in piega».
Scrollo le spalle e rispose cheavevagià le idee chiare.
«Ci ho pensato. Questa zia mi ospiterebbe e intanto cercherei lavoro. Ho già fatto delle ricerche su internet, non puoi immaginare quanti parrucchieri per signora ci siano a Roma. Possibile che nessuno abbia bisogno di due lavoranti?»
«Due? Perché due? Chi viene con te?» Le chiesi sorpresa, e capendo sempre meno.
«Avevo pensato che potevamo andarci assieme. Questa mia zia vive da sola e ci ospiterebbe. Lo farebbe per la parentela, per l’amicizia che ha con mia madre».
Io rimasi a pensarci ed ebbi bisogno di andarmi a sedere su una panchina. L’idea era così inaspettata, ma altrettanto allettante che mi lasciò confusa. Io a Roma, sola, indipendente. Adiciannoveanni a Roma. Restammo su quella panchina a parlare sino a quando squillò il mio cellulare ed era mia madre che chiedeva che fine avessi fatto.
Nei giorni e nelle settimaneche seguirono, con Loredana continuammo a parlare e a fantasticare su quel progetto. Mi disse che con i suoi non ci sarebbero stati problemi, ne aveva già parlato e loro l’avrebbero lasciata partire e anche aiutata economicamente e aggiunse che la madre aveva già preso contattocon la zia per definire il tutto. Intanto io ero ancora dubbiosa, piena di se e di ma, ma sempre più propensa a buttarmi in quell’avventura.
«Allora», insistette Loredana, «non ci resta altro da fare che licenziarci e,pergustarci lascenata del principale, farlo in un fine settimana».
Più che la reazione del titolare, a me preoccupava quella dei miei genitori. Di mio padrein particolare. Avevo la testa dura, ma come avrebbe reagito? Comunque lo sapevano, se decidevo di fare una cosa dovevo portarla a termine e allora, quando glielo dissi, non insistettero più di tanto per farmi rimanere e mi lasciarono partire.
Arrivate a Roma e uscite dalla stazione Termini, subito mi scappò un fischio di stupore. Non avevo mai visto una piazza così grande, così tanti taxi, tante macchine, tanta gente tutta assiemee in un sol posto.Loredana tirò fuori l’indirizzo di sua zia, chiese informazioni e prendemmo la metropolitana. Che avventura pensai. Ero elettrizzata, e tutto ciò che mi passava davanti, che vedevo, che sentivo, mi entusiasmava. 
Arrivate a casa, la zia ci chiese com’era andato il viaggio e poi ci mostrò la nostra stanza.
«Bene ragazze. Sino a quando non troverete di meglio, questa sarà la vostra cameretta. Spero che vi troverete bene qui da me. Sono sola e un po’ di compagnia non mi dispiace. Ma siete così brave e giovani che sono sicura che non dovrete attendere molto per trovare un lavoro e una sistemazione migliore di questa». 
Infatti, dopo aver mandato e portato direttamente a mano una marea di curriculum e lasciato i nostri recapiti telefonici a mezza Roma, trovammo lavoro, Loredana da un parrucchiere in centro,mentre io, dopo una quindicina di giorni,nei pressi dell’isola Tiberina, sul lungo Tevere. Ci assunsero tutte due con contratto a part time, ma come ci avevano anticipato e avevamo concordato,dovevamo lavorare tutta la giornata e se ci fossero stati dei controlli, avremmo dovuto dire, appunto, che lavoravamo solo mezza giornata, di mattina o di pomeriggio, secondol’orario dell’eventualecontrollo.
Dopo un anno e mezzo e qualche sacrificio,riuscimmo a trovare un alloggiotutto nostro. Un appartamentino semplice, composto da due stanzette, un piccolo tinello e un cucinino e così,dopo aver ringraziato e salutato la zia,ci trasferimmo e tutto andò a meraviglia sinoa quando Loredana conobbe un ragazzo che le chiese di andare a viverecon lui. Un bel problema per me, le spese dell’appartamento erano decisamente troppo alte per poterle sostenere da sola, e allora mi misi alla ricerca di un’altra ragazza che fosse in cerca di una sistemazione. 
Mi ero ormai ambientata. Il lavoro mi piaceva, con le clienti ci sapevo fare e con le mance riuscivo a guadagnare a sufficienza per potermi permettere anche qualche sfizio extra. Mi piaceva tutto di Roma e mi ero anche fidanzata con Loris, un bravo ragazzo che era venuto a lavorare qualche mese dopo di me. Aveva esperienza e ci sapeva fare e le clienti chiedevano tutte di lui.
Ma un giorno arrivò la doccia fredda, e fu quando Loris mi disse che stava pensando di licenziarsi per trasferirsi in Inghilterra. 
«Dove?» Gli chiesi, stupita e sorpresa.
«A Londra. Parlo un po’ l’inglesee vorrei perfezionarlo, e mi farebbe piacere se venissianche tu con me».
«Io? Con te,a Londra? Ma cosa dici? Non so la lingua, non sono ancora padrona del mestiere. Che ci vengo a fare?»
«Ci inventeremo il lavoro assieme. Ti aiuterò io. Una sistemazione la troveremo. Sono già in contatto con degli amici che lavorano e vivono a Londra da qualche tempo. Vedrai, andrà tutto bene. Ma se non rischiamo, non lo sapremo mai».Rischiammo. 
Telefonai ai miei e dissi loroche stavo andandoin vacanza a Londra per una settimana,e la domenica mattina prendemmo l’aereo. In aereo io non c’ero mai salita e così, quella preoccupazione si aggiunse alle angosce che già mi stavano tormentando. Stavamo andando in una città a mesconosciuta, dove non conoscevamo nessuno, se non questi amici di Loris che gli avevano promesso di ospitarci e di aiutarci per i primi tempi. Ma poi? Come ce la saremmo cavata? Ci eravamo licenziati assieme, nello stesso giorno, e non avevamo che quei pochi soldi che eravamo riusciti a mettere da parte, più quell’ultima mensilità.A Londra non sarebbero bastati nemmeno per due mesi.
Superate le Alpi, dall’oblò non si vedeva più nulla. Sotto di noi era tutto una coltre di nuvole. E anche l’atterraggio lo percepii solo attraverso lo scossone delle ruote che toccavano il suolo. Non si vedeva nulla, solo nebbia. Estava cadendo anche una pioggerella che non faceva altro che intristirmi ancora di più. Usciti dall’aeroporto non c’era nessuno ad attenderci. Loris fece qualche telefonata e poi salimmo su un torpedone, una navetta che ci portò in città. 
Gli amici di Loris erano anche loro italiani e lavoravano a Londra già da qualche anno, ma da come parlavano e per come vivevano, non sembrava certo che navigassero nell’oro. Io la notte mi stringevo a Loris e lo scongiuravo di tornare a casa, prima che i soldi finissero, ma lui rispondeva che avremmo dovuto iniziare tutto da capo, perché a Roma non avevamo più un lavoro.
Un giorno Loris stette in giro tutto il giorno e quando provavo a contattarlo sul cellulare mi rispondevache non dovevo preoccuparmi, perché stava parlando con i titolari di una catena dihaidresses for lady e che c’erano buone possibilità che ci assumessero.E così, quando tornò a casa, mi disse che finalmente avevamo trovato lavoro e che avremmo lavorato anche assieme.
Loris se la cavava bene con l’inglese, mentre io ero proprio un disastro, ma siccome lavoravamo nell’area di uno degli aeroporti londinesi, e di lìpassava gente proveniente da tutto il mondo, anche l’italianopoteva servire. Ele signore inglesi si dimostravano contente e dicevano che noi avevamo il tocco mediterraneo e il sole italiano nelle mani. Stranezze naturalmente, ma a noi faceva piacere sentirle.
In quel posto lavorammo e lavorammo sodo per sette anni, e trovammo anche casa. La prima nel quartiere Soho. Un quartieremoderno: negozi d’alta moda, gallerie d'arte, teatri, hotel di lusso, caffè e locali che restano aperti tutta la notteUn quartiere all'avanguardia, che però aveva e hauna pecca, una doppia vita. È sempre stato e continua a essere considerato il quartiere a luci rosse di Londra.
Non ci andammo ad abitare in quel quartiere, trovammo casa invece in un’altrazona, questa un po’ troppo cosmopolita e naif per i miei gusti, ma sempre meglio del Soho. 
Intanto il mio inglese stava migliorando e così cominciai a sentirmianche più sicura,e mi stavo anche ambientando in quella città molto bella, ordinata ma forse, per i miei gusti, troppo uggiosa e piovosa, mentre la mia storia con Loris continuava ad andare a gonfie vele.
Un giorno mi telefonò Loredana da Roma e mi disse che la titolare le aveva proposto di rilevare l’attività. Il marito non stava bene, erano anziani e voleva ritirarsi per poterlo assistere. Aggiunse che laclientelanon mancava e che lei ci stava facendo un pensierino, ma che da sola non se la sentiva di affrontare tutte quelle spese, perciò, se noi, Loris ed io, fossimo stati d’accordo, potevamo diventare soci e rilevare assieme quell’attività.
Quella notte non riuscimmo a dormire. Andammo a letto, ma subito riaccendevamo la luce e parlavamo. Si spegneva e si riaccendeva. Ci alzavamo e ci coricavamo, si valutava, si soppesava, si litigava, ma alla fine prendemmo la decisione. Se Loredana aveva pensato a noi, se lei avevafiducia in noi e ci stava offrendo quell’opportunità, perché non averla anche noi, in noi stessi, e approfittarne?
Nel giro di un mese facemmo le valige e tornammo a Roma. I primi tempi furono duri: rate, tasse, e non so a quante altre spese dovemmo sostenere. Per fortuna la clientela non mancava e alla fine riuscimmo a ingranare e ritrovammo anche la nostra serenità. Tutto stava andando per il verso giusto, a gonfie vele, ela ciliegina sulla torta arrivòuna domenica sera, mentre Loris eraincollatoal televisore per seguirele partite di calcio.
«Tiziana, perché non ci sposiamo?» Mi chiese.
Io lo guardaisorpresa e poi ironicamenterisposi:
«Ma chi vuoi che ci prenda a noi due?»
«No. Non sto scherzando. È da un po’ che ci penso e ritengo che sia arrivato il momento di sistemare le cose, tra noi».
Restai senza parole e cominciai a tremare. Stavamo assieme ormai da nove anni e non ne avevamo mai parlato di matrimonio, anzi io non ci avevo proprio mai pensato. Mi andava bene così. Averlo vicino, viverci accanto, lavorare con lui,mi bastava.Così,la sua proposta mi lasciò senza fiato e anche quella notte non riuscii a prendere sonno, ma dal giorno dopo cominciai a organizzare i preparativi per le nozze.
Ci sposammo in chiesa, nella mia città. Io, come tradizione in l’abito bianco e con il pancione che ancora riuscivo a contenere tra le falde dell’abito. 
Settemesi dopo nacque Chiara.
Ero arrivata a Roma a diciannove anni, senza una lira in tasca, senza esperienza elasciando i miei genitori col muso lungo, ma portando con me quella fiduciosa incoscienza che solo quell’età poteva darmi.
A Roma i primi tempi non furono facili e non feci altro che masticarepezzi di pizza o panini con la mortadella. Londrainvece sembrava una pazzia, maa parte la fatica per farsi capire ed essere capita, anche lì andò tutto bene. Poi di nuovo a Roma, che sembrava una pazzia ancora maggiore delle altre, e invece ci ha dato la possibilità di diventare titolari di un’attività tutta nostra.
Ora, per Natale, siamo tornati a trovare i miei genitori e mentre Loris continua a seguire tutte le partite del campionato di calcio in televisione e sento mia madre che di lasta facendo partire la lavastoviglie, eccomi qui, nella mia cameretta di ragazzina, con Chiarache dorme affianco a me, a pensare a quanta strada sono riuscita a fare da sola econ l’incoscienza e la tenacia dei miei diciannove anni.
 


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