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Una rousa non è una rosa

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

27
LUG
2012

 

Una rousa non è una rosa
 
Tesi di questo editoriale di mezza estate: spesso si è molto più interessanti quando si sta zitti.
Dunque, ultimamente –invece che andare a mare o cercare di scrivere cose più argute in questo spazio- sto dedicandomi a curare la dizione, in vista anche della ripresa in autunno di “Protagonisti”. Avendo passato gli anni di università in Toscana, avevo avuto modo di sciacquare i panni nell’Arno per bene e, tornata, avevo un accento perfetto: una cosa era una cosa e non una “cousa”, una rosa era una rosa e non una “rousa”. Ma ne è passato di tempo da allora, e le vocali si sono deformate come golfini di lana in centrifuga.  Certo, nessuno si accorge dei suoni maltrattati se la parola è scritta, ma quando si tratta di condurre un programma in tv, be’, la faccenda è più problematica. A poco vale il capello cotonato o l’importante stratigrafia di make up: per quanto si possa stare attenti, lo scivolone fonetico è dietro l’angolo. Insomma, è d’obbligo correre ai ripari e studiare, non quello che si dice ma come lo si dice; e in effetti la qualità del parlato è l’unica misura sulla quale possa agire, dato che, a meno che l’argomento non mi stia a cuore, prediligo parlare poco. Sono sempre stata negata anche a raccontare barzellette, perché per farlo con efficacia è necessario aggiungere particolari, ricamarci sopra, allungare il brodo… nisba: passando dalla mia esposizione, l’aneddoto o la barzelletta si contraggono in un plot stitico e diventano simpatici quanto la lista della spesa o la ricetta del medico. D’altronde o si pensa o si parla, e io penso assai.
Se il cervello è impegnato a parlare, come fa a osservare, ascoltare, riflettere? Mi piacciono le persone di poche parole ma buone: sono sintomo di una sensibilità pensosa, di una predisposizione al ragionamento  che impedisce di avere un’opinione certa e fissa per ogni cosa. Raramente i chiacchieroni incontrano le mie simpatie: sono come gocce d’olio che si spandono sulla superficie dell’acqua e là rimangono, incapaci di scendere appena in profondità, oppure impongono, con la mole del loro bla bla, l’ingombro narcisista della propria personalità.
Ho imparato a diffidare anche da coloro che parlano sempre in negativo su ogni persona, fatto o cosa di cui ci si ritrovi a esprimere un’opinione: purtroppo si tratta di un cattivo costume piuttosto frequente. Un conto è spettegolare con gli amici, un conto è usare la maldicenza come mezzo abituale d’espressione e di giudizio: qualcosa di sicuro non va e nell’aria c’è, se non il “polline di te” –come cantava Umberto Tozzi-, di sicuro molta negatività. Se poi a questo si aggiunge pure un tono di voce stridulo, il mio orecchio e tutto il resto attaccato scappano a gambe levate. Già perché ognuno di noi, parlando, indipendentemente dalle cose che dice, a suo modo esprime una propria musicalità: una vibrazione, direbbero in Oriente. Però talvolta non è musica, è solo rumore, due o tre ottave sopra la media.
Per concludere: non sono solo gli occhi a essere lo specchio dell’animo, ma anche la voce è un ottimo indicatore, insieme a quello che esprime e come lo esprime. Io intanto continuo il corso di dizione.
 


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