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Michele Albertini/Racconto di mafia

Pubblicato da: Categoria: COVER

11
APR
2014
Ha vissuto in prima linea la gestione di comuni in cui corruzioni, tangenti e voti di scambio erano legge. Posti in cui i colletti bianchi sono più pericolosi delle lupare. Passando per i lager dei centri di accoglienza 
 
Nell’ottobre 2007 arriva un incarico di quelli che farebbe tremare i polsi a chiunque: la nomina di componente della Commissione Straordinaria per la gestione del comune di Lusciano, ruolo che ha ricoperto per due anni, sciolto per infiltrazioni mafiose. Lusciano non era e non è un comune qualunque, perché è uno di quei paesi dove a farla da padrone ci pensa il clan dei casalesi, quello di Francesco Schiavone detto “Sandokan”.
Qual è stato il suo primo pensiero una volta appreso della nomina?
«Una bella sfida “emozionante”. Prima di Lusciano avevo già fatto commissariamenti cd ordinari (per dimissioni del sindaco o di consiglieri comunali), ma mai per infiltrazioni mafiose, per cui il mio primo pensiero è stato proprio di una sfida impegnativa ma esaltante. Sinceramente, già per carattere, ho sempre preferito le sfide diciamo “difficili”, per cui mi sono subito calato nella nuova situazione, anche perché non ho avuto neanche il tempo di riflettere, visto che il Prefetto di Caserta ci chiamò il sabato per insediarci d’urgenza al Comune già il lunedì mattina».
 
Arrivato a Lusciano, che aria “tirava”?
«Tutte le comunità interessate da un provvedimento d’autorità di scioglimento per infiltrazioni dei propri consigli comunali vivono l’evento in maniera ambivalente: da un lato una parte della collettività che lo vive come momento di libertà, di rinascita, di nuova speranza, di vera e propria catarsi, dall’altro – diametralmente opposto - come momento di oscuramento, di sconfitta, di rabbia verso lo Stato. Lusciano si trova in un quadrilatero famoso (quello tra Lusciano, Casapesenna, Casal di Principe, Villa Literno) “controllato” dai casalesi fedeli a Francesco Schiavone detto “Sandokan” di cui ha detto molto nel suo libro “Gomorra” Roberto Saviano. Quel libro rispecchia in  maniera cruda e, purtroppo, realistica la condizione di quel territorio, totalmente degradato, impaurito e asservito alle cosche camorristiche. Arrivato a Lusciano, lo ricordo molto bene, ho avuto una sensazione di bruttezza, quasi di disgusto;  più percorrevo le strade del paese più tutto mi sembrava terribilmente brutto, indecente, abbandonato e il primo pensiero fu verso i poveri bambini e ragazzi che vivevano in quel paese così degradato. Comunque, una volta insediati e cominciato a lavorare, devo dire che la maggioranza della popolazione si è riconosciuta e stretta intorno alla Commissione; ci hanno dato fiducia e ci hanno chiesto con forza di aprire una nuova fase e di ridare a tutti loro la speranza di  riprendersi il proprio paese».
 
Come si gestisce un comune sciolto per infiltrazioni mafiose?
«E’ evidente che se un comune viene sciolto per infiltrazioni, la situazione è veramente grave sotto ogni punto di vista. Bisogna tener presente che questi provvedimenti sono presi solo come “estrema ratio” e dopo mesi e mesi di indagini e riscontri, sia delle forze di polizia, sia di una apposita Commissione prefettizia (cd di indagine o di accesso) che relaziona al Prefetto e poi al Ministro dell’Interno per la decisione finale, presa poi in Consiglio dei Ministri. Partendo da ciò, è intuibile come la priorità assoluta e il filo rosso dell’attività della Commissione è ristabilire la legalità e il rispetto delle regole, partendo dal recidere tutti i contatti sospetti della struttura amministrativa con la criminalità e proseguendo, giorno dopo giorno, con una gestione amministrativa seria, democratica, rispettosa, attenta e solidale, per riportare la fiducia della maggioranza dei cittadini verso le Istituzioni. Chiaramente tutto ciò non è per niente facile. I collusi, i corrotti, gli associati alle cosche spesso sono persone insospettabili o colletti bianchi, spesso vere associazioni che apparentemente propongono iniziative o progetti per lo sviluppo del paese, ma in realtà sono solo affari delle cosche. Faccio solo un esempio. La gestione dei rifiuti. Oggi di nuovo sulle prime pagine per la nota vicenda della terra dei fuochi (sempre lo stesso territorio, sud Caserta-nord Napoli). Stavo a Lusciano quando scoppiò nel 2008 l’emergenza dei rifiuti in Campania, tonnellate di rifiuti nelle strade, montagne sui muri alti del cimitero. Ebbene, chi come me ha vissuto da vicino quel momento, ha potuto capire che tutto era “manovrato” ad arte. Erano state chiuse le discariche senza che fosse pronto l’inceneritore di Acerra, le società di raccolta e di gestione delle discariche erano tutte  società miste (con capitale a maggioranza pubblica) sommerse di debiti perché nessun Comune pagava il servizio, proteste popolari organizzate ad hoc per mettere pressione, Istituzioni ricattate, corrotte e incapaci di gestire il problema, insomma creare il caos (o come dicono loro à muinn) per arrivare a provvedimenti urgenti e di emergenza e lucrare sul grande business. Ricordo solo che, durante tale crisi,  dopo uno sforzo immane con telefonate e provvedimenti urgenti, eravamo riusciti un giorno, con l’aiuto dell’esercito, a ripulire tutta la città. Eravamo orgogliosi di aver ridato vivibilità al paese, ma la mattina dopo erano misteriosamente comparsi di nuovo quintali di rifiuti negli stessi siti, erano stati scaricati durante la notte da camion organizzati. Questa è la realtà nei territori controllati dalla criminalità organizzata. Fortunatamente noi pugliesi, anche se nel profondo sud, non viviamo queste barbarie, per non parlare di Martina che resta una vera e propria isola felice, nonostante alcuni recenti episodi di delinquenza, prontamente repressi dalle forze dell’ordine.
Ma tornando sulla domanda e chiudere l’argomento, dico pure che la gestione commissariale, se la comunità vuole, serve anche a creare uno spartiacque con il passato e ridare forza e coraggio alle forze sane della città. A Lusciano, infatti, alle elezioni ci fu un rinnovamento totale con l’elezione a sindaco di un medico noto in paese e totalmente estraneo in certi ambienti, mentre l’ex sindaco arrivò quinto su cinque».
 
La storia si ripete a luglio del 2011 quando viene chiamato a far parte della Commissione Straordinaria, nominata dal Ministro dell’Interno, per la gestione del comune di Marina di Gioiosa Jonica. Lei, in pratica, prese il posto di Rocco Femia eletto nel 2008. Le cronache narrano che subito dopo avere avuto la certezza dell’elezione, Femia si recò a casa del boss Rocco Mazzaferro, abbracciandolo in lacrime. Il commento del capo bastone fu: ”Abbiamo vinto, è finita”. Aveva vinto davvero Mazzaferro?
«Sì, aveva vinto Mazzaferro, dopo 10 anni di dominio dell’altra famiglia emergente Aquino e grazie al tradimento di un gruppo degli stessi Aquino. 80 voti di differenza, tutti provenienti dagli abitanti di un immobile imparentati con gli Aquino che avevano raggiunto un accordo con Mazzaferro (tutto oggetto di intercettazioni prima delle elezioni). Il più classico dei voti di scambio. Il Sindaco Femia è stato arrestato dopo due anni dall’insediamento ed è già stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione. Qui il problema, come avrà compreso, non è se ha vinto davvero Mazzaferro. Se non avesse vinto lui avrebbe vinto Aquino. Qui la domanda giusta sarebbe: Aveva vinto davvero di nuovo la ndrangheta?? Assolutamente sì come sempre. Questo è il dolore che si prova in queste realtà calabresi, non trovare mai nel loro passato momenti di riscatto della parte sana della popolazione e ciò ha solo un significato: da sole quelle società non sono in grado di cambiare la loro storia, serve lo Stato. Ma c’è anche un paradosso, finora i calabresi si sono lamentati in tutte le sedi dell’assenza e del disinteresse dello Stato, ora si lamentano dell’eccesso dell’intervento dello Stato con centinaia di arresti e decine di scioglimenti di comuni con infiltrazioni. A Marina di Gioiosa Jonica poi tale atteggiamento è stato ancora più marcato, in una città con due delle maggiori e potenti famiglie di ndrangheta (e non solo della locride), lo scioglimento è stato vissuto come una vera e propria ingerenza dello Stato nelle “cose loro” e la Commissione percepita più come nemica che punto di riferimento per la rinascita. Nonostante ciò, comunque, tengo a precisare che non è mai venuto meno il rispetto istituzionale anche da parte dei cd capiclan, tant’è che una mattina si presentò da me  il “famoso” Rocco Mazzaferro per lamentarsi di alcuni lavori fatti dal Comune su una strada di sua proprietà di cui voleva la ribitumazione. Dopo avergli spiegato che il Comune non aveva i soldi per rifare strade pubbliche a gruviera (figurarsi quelle private) alla fine, con un leggero sorriso, mi salutò  dicendo “Commissa’, me ne vado tranquillo, ho capito che me la devo bitumare da solo”». 
 
Peggio in Campania o in Calabria?
«La Calabria è un mondo diverso, non è paragonabile alla Campania e ciò perché c’è una grossa differenza tra la camorra e la ndrangheta. La prima è una organizzazione delinquenziale in senso stretto, molto spaccona, violenta, senza principi e circoscritta in precisi territori o addirittura quartieri, la ndrangheta è una organizzazione completamente nascosta ma capillare, organica ai territori, concettuale addirittura con spirito sociale, calma, fredda, calcolatrice. In Campania la presenza della camorra viene accettata per paura, in Calabria viene accettata per cultura. Vi riporto solo un esempio per far comprendere la differenza. A ottobre 2012, dopo un lungo e serio intervento strutturale sull’istituto scolastico della scuola media, siamo andati, con la dirigente, in tutte le aule per augurare agli studenti un buon anno scolastico e partecipare la nostra grande soddisfazione per avergli dato finalmente delle aule nuove e pulite. Nell’occasione abbiamo chiesto ai ragazzi di rispettare e curare le loro aule come fossero le loro stanzette di casa.  A metà novembre, un gruppo di ragazzi di notte si è introdotto nella scuola e ha appiccato un incendio di grosse dimensioni creando danni per oltre 60mila euro e chiusura della scuola per 5 giorni. Bene, tutti sapevano chi era stato ma nessuno ha parlato, anzi, alcuni genitori hanno fatto sit-in al Comune perché secondo loro il risanamento fatto e certificato dall’ASL non era sufficiente a garantire la salubrità degli ambienti. Questa è la Calabria. Mi manca l’esperienza in Sicilia, ma credo che la ndrangheta sia molto simile alla mafia, se non - come si dice - ancora peggio». 
 
C’è da temere più la mafia della “lupara” o quella dei “colletti bianchi”?
«Oggi ormai sono organiche l’una all’altra. Tutte le organizzazioni mafiose hanno da molto tempo compreso che non basta la violenza o la paura per fare affari, anzi hanno capito che i migliori affari si fanno senza violenza, ma solo con il potere dei soldi, di cui sono strapieni. Ecco il connubio: da un lato la necessità di ripulire il denaro dall’altro la necessità di averlo a qualunque costo. Gli interessi sono assolutamente coincidenti ed ecco che il passo è breve. Corruzione, tangenti, minacce negli appalti pubblici sono all’ordine del giorno e quasi sempre i sodalizi sono molto stretti e oliati, senza limiti e timori. Tutto è calcolato, anche  qualche anno di carcere oramai. Lo stesso discorso vale per impadronirsi degli Enti Locali. Avere il “proprio” sindaco, più che a garantirsi affari, serve alle cosche per evidenziare il proprio potere sul territorio, il vero obiettivo è avere tutti i cittadini loro sudditi, questo è ciò che gli interessa veramente».
 
Altra esperienza di rilievo, quella di dirigente di Presidente del Centro Operativo Misto per la gestione dell’emergenza immigrazione nel centro accoglienza di Brindisi. 
«Qui cambiamo completamente registro, entriamo in un argomento molto delicato e per certi versi scivoloso. Da un lato l’immigrazione soffre di pregiudizi atavici che non scompariranno mai, tutti i popoli sono gelosi della loro terra e non amano condividerla con altri, dall’altra la gestione dell’immigrazione è la massima espressione della solidarietà umana e del riconoscimento dell’uguaglianza tra gli uomini. I concetti sono molto delicati. Sono oramai oltre 15 anni che mi occupo di immigrazione, dagli albanesi nel 1997 ad oggi. Dall’interno del problema posso solo dire che possiamo avere mille pregiudizi verso lo straniero, ma quando lo hai lì di fronte e ti racconta la sua storia di disperazione e di privazioni, non puoi che pensare a quanto siamo egoisti e disumani. Il razzismo è sempre molto forte e presente, anche tra chi dice il contrario. E’ chiaro che, come in tutte le comunità, anche tra gli immigrati vi sono delinquenti o cattive persone, ma il 90% è fatto da giovani che vogliono solo vivere una vita più decorosa e umana. Non dobbiamo mai dimenticare, inoltre, che proprio noi italiani siamo stati il popolo degli immigrati del secolo scorso, e di certo se abbiamo “esportato” Al Capone, abbiamo anche “esportato” l’attuale sindaco di New York. Questa è la storia».
 
Perché i centri d’accoglienza italiani vengono sempre più spesso paragonati a delle prigioni?
«Perché lo sono, se parliamo dei CIE (Centri di Identificazione ed espulsione). Negli ultimi anni abbiamo avuto una serie di leggi che hanno inasprito tutti i reati connessi all’immigrazione perché si pensava che la repressione avrebbe scoraggiato gli immigrati, ma - come abbiamo visto tutti - il fenomeno è aumentato. Significa che siamo di fronte a gente che viene da una tale disperazione che non può essere fermata dalle leggi. Veniamo alle criticità del fenomeno. Ci sono due punti fondamentali: 1) l’immigrazione ci sarà sempre fino a quando ci saranno differenze abissali tra i tenori di vita di paesi limitrofi e 2) la repressione non serve a nulla. Dico solo un dato: la percentuale di stranieri rimpatriati d’autorità non ha mai superato il 10%. Cosa significa ciò? Qualche anno fa, con l’introduzione della Bossi-Fini e delle successive leggi, abbiamo introdotto il reato di clandestinità, per capirci la polizia trova per strada uno straniero, non ha documenti e quindi lo arresta per clandestinità. Bene questa legge non ha mai funzionato, abbiamo solo messo migliaia di stranieri in carcere per poi rilasciarli dopo qualche tempo e rinchiuderli nei CIE. Bene, la permanenza nei CIE (come Brindisi) fino a 4/5 anni fa era massimo di 90 giorni, oggi è di 18 mesi. Noi teniamo un anno e mezzo una persona chiusa in questi Centri, praticamente simili al carcere (se non peggio), solo per attendere dal proprio paese la conferma se le generalità prodotte a voce al momento del fermo corrispondono al vero. Cioè se è vero che io mi chiamo Michele Albertini. I paesi di origine non rispondono quasi mai (solo il 10% che dicevo prima) per cui dopo 18 mesi li rilasciamo con un foglio di espulsione dall’Italia dato direttamente nelle mani dell’immigrato. Vi posso garantire che chiunque di noi impazzirebbe, esattamente come succede a loro, se ci rinchiudessero per 18 mesi solo per sapere il nostro nome, cioè senza alcun reato commesso. Fortunatamente il reato di clandestinità è stato abrogato qualche giorno fa e, a breve, dovrebbe essere modificato anche il termine di permanenza nei centri. Per finire, devo evidenziare che alla beffa di attendere 18 mesi inutilmente una risposta, per esempio dalla Somalia, che non arriverà mai, si aggiunge il danno economico che abbiamo con questi periodi così lunghi. Uno straniero in un CIE non costa meno di 100euro al giorno, di cui 30/40 per i servizi di accoglienza e tutto il resto per stipendi delle forze dell’ordine e riparazioni continue delle strutture. Vi lascio immaginare le cifre di cui stiamo parlando».    
 
Quello dell’immigrazione è un problema che l’Unione Europea ha scaricato sulle spalle del nostro Paese?
«Sicuramente siamo il paese più esposto per gli ingressi, però siamo tra i meno per le permanenze. Ecco perché l’Europa spesso ci disapprova sulle tematiche dell’immigrazione; per loro le nostre lamentele sono fuori luogo ed in parte hanno ragione  considerato che l’80% degli immigrati vogliono solo passare dall’Italia per andare in Germania, Francia o altro. La verità è che non vogliamo farcene una ragione che siamo un paese di frontiera e che sarebbe meglio, una volta per tutte, organizzarci per bene per la gestione del fenomeno della prima accoglienza, piuttosto che continuare a gestirlo sempre come emergenza, come fosse una calamità improvvisa. Pensate che ogni volta che arriva una nave a Lampedusa, praticamente ogni 3-4 giorni, il Ministero dell’Interno comincia a fare decine e decine di telefonate ai Prefetti per sistemare questa gente. Una assurdità, per non parlare dell’accoglienza dei minori».  
 
In questa continua emergenza, chi sta pagando il prezzo più alto?
«Un po’ tutti. E’ chiaro che se parliamo di prezzo umano, non c’è storia: lo pagano gli immigrati. Se parliamo di altri prezzi, economici, organizzativi, sociali ecc. allora sicuramente lo paghiamo tutti, noi e loro, Italia e Europa. La mia speranza è che si arrivi a trattare questo fenomeno con rispetto e buon senso, senza demagogia e falsi moralismi».
 
Parliamo ora di politica. Lei, dopo una esperienza amministrativa vissuta in prima persona, è attualmente uno dei componenti  dell’Organo di Valutazione Interna del comune di Martina Franca. La politica è meglio viverla da attore o da spettatore?
«La mia unica esperienza amministrativa risale oramai a quasi 14 anni fa ed è stata una esperienza meravigliosa. Io sono del parere che ogni cittadino dovrebbe fare l’assessore della propria città almeno per tre mesi, solo così capirebbe la complessità dei problemi. E’ una esperienza unica: andare la mattina in Comune e occuparsi dei problemi dei cittadini, cercare di dare risposte, predisporre programmi o progetti di cui sicuramente non si vedrà il completamento ma che magari serviranno ai nostri figli, confrontarsi con tutti per migliorare il futuro della tua città, tutto ciò è unico. Chiaramente fare il Commissario straordinario è abbastanza simile, ma in quel caso amministriamo comunità dove non viviamo, per cui c’è un impegno serio ma distaccato, amministrare la propria città è passione pura (sempre se si crede in quello che si fa, naturalmente). Presidente dell’OIV è tutt’altra cosa. Un ruolo oggi molto importante a seguito di tutte le nuove norme sulla trasparenza, l’anticorruzione, la pubblicità dell’azione amministrativa, la misurazione e  la valutazione delle performance dell’Ente e dei suoi diretti interpreti. Resta un ruolo “tecnico  e terzo” che non è di spettatore, ma neanche  di attore principale. Ma per rispondere in maniera secca alla sua domanda, non ho dubbi: la politica va vissuta da attore e non da spettatore anche perché ogni provvedimento, ogni decisione politica riguarda la nostra vita e non credo che nessuno abbia intenzione di delegare la propria vita ad altri». 
 
Ce lo dà un giudizio su questi due anni di amministrazione?
«Questa Amministrazione si è insediata in un momento molto delicato per la città sia da un punto di vista politico che amministrativo. Anni e anni di lotte politiche interne hanno fatto perdere a Martina tanti treni che non passeranno più. L’interesse personale ha prevaricato l’interesse generale e il commissariamento dell’Ente per oltre un anno è stata la prova evidente. Questa Amministrazione ha avuto subito il gravoso compito politico di dover riportare fiducia nel cittadino comune e credo che, in questi primi due anni, l’impegno non sia mai mancato ma ancora la strada è lunga e tortuosa. A ciò va aggiungo, che la decisione di nominare tanti amministratori giovani, se da un lato ha portato quel sano e necessario entusiasmo, dall’altro ha dovuto scontare nel primo anno una fisiologica inesperienza. Oggi, questi giovani sono il valore aggiunto. 
Certo, sindaco e giunta non sono stati aiutati dalla situazione amministrativa dell’Ente che scontava (e ancora sconta) l’assenza, da alcuni anni, di tutta la classe dirigente gestionale e, questo, permettetemi, è un macigno pesantissimo per una nuova amministrazione che si insedia per governare. Tuttavia, lo sforzo enorme di dotare al più presto l’Ente di queste figure sta dando già i primi frutti con l’assunzione già fatta di due dirigenti e dei bandi di concorso per altri tre. Penso che se non ci saranno problemi politici, la seconda parte del mandato potrà essere altamente proficuo e con risultati molto apprezzabili dai cittadini. Per questo mi sento di dare un giudizio sicuramente positivo di questi primi due anni dell’amministrazione Ancona».
 
Una domanda cattiva: ma quei duecentomila euro a fine 2013, ai dirigenti spettavano davvero?
«Una legittima e corretta da porre al presidente di un Organismo di controllo interno. Il problema è che la spiegazione non può che essere un po’ tecnica, ma cercherò di essere semplice e chiaro. I 200mila euro erano riferiti alla riliquidazione delle indennità di posizione ai dirigenti f.f. che si sono succeduti a Martina dal momento del pensionamento dei precedenti dirigenti ad oggi. Come OIV abbiamo subito preso atto che alcuni  decreti (non tutti) di nomina degli anni scorsi di dirigenti f.f. riportavano espressamente una clausola di riliquidazione della indennità di posizione subordinata però alla conclusione del processo di “misurazione e valutazione delle posizioni dirigenziali” terminato con la pubblicazione della delibera G.C. n. 221 del 30.5.2013. In poche parole, chi ha dato a suo tempo questi incarichi aveva dato il minimo di legge e l’eventuale saldo sarebbe stato riconosciuto solo dopo la suddetta delibera, creando, quindi, una vera e propria aspettativa da parte dell’interessato.
Per cui, con tale impostazione, spettavano non a tutti ma solo a chi aveva detta clausola e qui, sempre l’OIV, ha segnalato al Sindaco delle anomalie nella determina di fine 2013 che è stata immediatamente sospesa per rifare i conteggi per bene. Per cui nessuno scandalo ma solo degli errori, ma gli organi di controllo interno esistono anche per questo».


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