La talentuosa cantante martinese si presenta oggi in una nuova veste, quella di poetessa. La prima raccolta, “Epifanie baritonali”, rappresenta il suo più audace esperimento
Ho conosciuto Antonella circa sette mesi fa, quando l’ho intervistata per le sue grandi doti di cantante. La rivedo oggi agli albori del suo esordio letterario. Ha pubblicato infatti il suo primo libro, una raccolta di frammenti poetici, di pensieri e, come ci racconta, di tasselli di vita. Mi accoglie nella sua bella casa e la prima domanda che le faccio, mentre ammiro degli splendidi dipinti appesi in salotto, è: «Li hai fatti tu? Non dirmi che sei anche una pittrice!». Sorride e mi risponde che no, non li ha dipinti lei e l’arte pittorica non è fra le sue attitudini. Mai dire mai, penso io, che solo pochi mesi fa ero all’oscuro anche delle sue velleità letterarie. Ventidue anni vissuti intensamente, giorno dopo giorno, con continue conquiste e con la costante voglia di migliorarsi. Antonella Chionna è un’artista eclettica, camaleontica, poliedrica. Dotata di eccezionale cultura passa con disinvoltura da un argomento all’altro. Cita Epitteto, Joyce, Virginia Woolf e tanti altri. Legge molto, lo si deduce dalla sua spiccata proprietà di linguaggio, e la conversazione con lei spazia fra le tematiche più disparate. Mentre sorseggiamo delle bevande calde – caffè per me e tè per lei – mi racconta di “Epifanie baritonali”, della sua nascita e di quell’illuminazione avuta tra gli scaffali di una libreria.
Ti lascio cantante e ti ritrovo poetessa. Parlami del tuo esordio letterario: di cosa si tratta?
«“Epifanie baritonali” è un esperimento, quasi futuristico, vista la brevità e l’amore per la sintesi. Si tratta di frammenti evocativi. Sono dei versi ibridi, si pongono a metà fra l’epigramma e l’haiku, una forma poetica composta da tre versi per un totale di diciassette sillabe (secondo una distribuzione di 5-7-5).Ogni componimento è nato cercando di fare tesoro dell’insegnamento orientale, ma la creazione di un’opera porta, inevitabilmente, a rielaborare la propria visione e a riconsiderare sotto una luce diversa quello che inizialmente può sembrare l’ideale. Ogni prodotto è soggetto alla temporalità, dunque se all’inizio voleva essere una raccolta ispirata alla metrica haiku, con una scansione molto rigida, in fase di elaborazione ha subìto delle modifiche. Non dimentichiamo che l’haiku nasce in Giappone, quindi con una lingua completamente diversa dalla nostra. L’italiano presenta una diversa musicalità, pertanto ciò che può andar bene per una cultura, deve necessariamente essere riveduta e corretta in un’altra».
Come è nata questa raccolta?
«Per caso. Camminavo tra gli scaffali di una libreria, cercando di rilassarmi dopo una giornata piuttosto intensa, e a un certo punto mi sono trovata di fronte a un’antologia di poeti orientali. Ne sono stata subito attratta e in breve tempo ne sono rimasta anche alquanto colpita, poiché, ripensando alle antologie orientali, mi aspettavo di trovare dei lunghi componimenti poetici e invece mi sono ritrovata tra le mani un libro formato da tante pagine bianche con appena tre versi. Mi sono incuriosita e ho cominciato a studiare un po’ l’arte dell’haiku e i suoi derivati e poi si sa, una cosa tira l’altra ed ecco “Epifanie baritonali”».
Dunque ti rifai molto a questo genere giapponese?
«Diciamo piuttosto che è stata la molla propulsiva che ha fatto scattare qualcosa in me e mi ha portato alla creazione di questi versi. Tuttavia il mio libro non si prefigge di essere una raccolta di haiku. È semplicemente un tentativo di creare un nuovo modo di dire le cose attraverso la fusione tra l’haiku e l’epigramma. Come dicevo, il libro è nato con questo influsso, ma varia sotto molti aspetti. Mentre alcuni componimenti seguono fedelmente la metrica orientale, altri appaiono più liberi; per esigenze espressive a volte sono uscita fuori dalle regole aggiungendo o sottraendo delle sillabe, o magari adottando un verbo transitivo al posto di uno intransitivo. E va bene così, perché a volte, affinché il linguaggio sia maggiormente interessante, è necessario fare delle scelte che si discostino dalla norma ortodossa. Quelli che possono sembrare errori sono nuove possibilità compositive, che rendono più interessante la poesia. La mia è stata più che altro una curiosità, una voglia di studiare la nascita e la storia di quel genere di componimenti, unita a un desiderio di cimentarmi in quest’arte così diversa. E soprattutto di farlo nella mia lingua».
Cosa che non deve essere stata affatto facile.
«Beh, quando si attinge a linguaggi che non fanno parte della nostra cultura è necessario fare i conti con il problema della lingua. Non scopro nulla di nuovo, gente più in gamba di me ci è arrivata tre secoli fa, però è una difficoltà che bisogna tenere bene in considerazione. Esiste anche un manifesto italiano dell’haiku il quale spiega tutte le regole di questa modalità compositiva. È piuttosto interessante, anche se ritengo che non si può sempre dare un nome a tutto. A volte è importante lasciarsi guidare dall’istinto.»
Una sorta di improvvisazione disciplinata, dunque, proprio come nel jazz?
«Più o meno. Il jazz è un linguaggio democratico che permette a chiunque di esprimersi con i propri mezzi e non in virtù del fatto che qualcuno ti ha detto che lo strumento va utilizzato in una certa maniera. Tuttavia, pur essendo democratico ha bisogno di molta disciplina, nel senso che per improvvisare devi aver seminato. Per essere liberi occorre avere carattere, passione e cognizione. Bisogna conoscere tutto e poi, se lo si ritiene necessario, distruggere tutto. La tecnica è importante nella misura in cui può agevolare le nostre inclinazioni, ma per creare nuovi linguaggi occorre superarla».
La scelta di puntare sulla sintesi e sulla brevità è causale o corrisponde a un’esigenza ben precisa?
«Abbraccia il mio gusto personale. Diciamo che è il genere di poesie che io leggerei. Sono dell’opinione che nel 2012 si debba andare oltre, si debba avere il coraggio di sperimentare nuovi metodi, nuovi modi di esprimersi. Replicare all’infinito cose già fatte è obsoleto. Ho il massimo rispetto per chi si crogiola malinconicamente nel passato, ma in un’epoca dove tutto è già visto, già fatto, si deve osare, si deve cambiare. È necessario creare un filtro tra passato e presente, una forma di comunicazione valida, diretta, che arrivi subito al cuore delle cose. Ed è quello che ho cercato di fare io.»
Di primo acchito, quando si vedono versi così brevi e frammentati si pensa che siano parole messe lì a caso. E invece hanno una struttura e un’identità ben precisa. Ogni termine, anzi ogni sillaba è studiata nei minimi dettagli.
«È vero. Anzi, spesso si fa molta più fatica a sfrondare, a eliminare le parole. È difficile catturare, esprimere un’immagine avendo così poco spazio a disposizione. Andare dritti all’essenziale non è facile, soprattutto per noi occidentali, che amiamo invece dilungarci in generale. L’attitudine giapponese è molto lontana dal mio mondo, dal mio modo di essere, e la sfida è stata proprio questa. Provare a ridurre, a sintetizzare seguendo delle logiche che non sono casuali».
A proposito di noi occidentali, spesso tendiamo a considerare con un certo sospetto qualcosa che si discosta da ciò che siamo abituati a conoscere. Non hai paura che la tua poesia possa non essere capita?
«Quando ci si espone, ci si sottopone necessariamente a un giudizio, positivo o negativo che possa essere. Fa parte del mettersi in gioco; è giusto che sia così. Le innovazioni hanno sempre bisogno di un terreno fertile. Purtroppo in alcuni contesti manca la predisposizione al nuovo, manca la voglia di aprirsi al diverso. Ma a mancare è soprattutto il coraggio di mettersi in discussione e sperimentare nuovi modi di approcciarsi alle cose. Io l’ho fatto, e poco importa se incontrerà o meno il gusto del lettore. Epitteto diceva: “Tra le cose che esistono al mondo alcune sono in nostro potere, altre no […] non i fatti turbano gli uomini ma i giudizi sui fatti”. Quando c’è una forte motivazione e una grande volontà nei confronti di quello che è in nostro potere, tutto il resto, come il giudizio degli altri passa in secondo piano».
E la tua motivazione qual è stata?
«La necessità di inviare un messaggio, che però non è immediatamente decodificabile. Semplicemente avevo un’esigenza di esprimere un’opinione, di fare i conti con quello che sono e di far scattare un impulso e una partecipazione a quello che mi circonda. Avevo bisogno di esprimermi, di confrontarmi con il mondo e di democratizzare la fruizione di cose lontane dalla nostra cultura. Scavare nella propria interiorità per un’artista è indispensabile. E soprattutto lo è entrare in contatto con un pubblico, che inevitabilmente ti sottopone a un confronto. Tutti possono definirsi artisti tra le mura di casa. Altra cosa, però, è mettersi in gioco ed esporsi a giudizio».
“Epifanie baritonali”. Un titolo che è tutto un programma.
«E che mi è venuto piuttosto spontaneo. Erano delle parole che mi ronzavano in testa da un po’. Sai, ho sempre amato la letteratura inglese, Woolf e Joyce su tutti. Ed è proprio il concetto di “epifania” di quest’ultimo che ho voluto adoperare, quello che per Virginia Woolf era il “moment of being”. “I had an epiphany”: ho avuto un’illuminazione, un’ispirazione. “Epifania” è un termine che mi è rimasto impresso e rappresenta per me un vero e proprio insegnamento di vita, la capacità di vedere come delle cose a cui non riuscivi a dare spiegazione ti si rivelano improvvisamente poiché scattano dei meccanismi interiori che ti portano a modificare la tua visione del mondo».
È, come abbiamo detto, la tua opera prima. Cosa hai provato quando l’hai finalmente toccato con mano, quando hai visto il prodotto finito?
«Emozione, non per il nome stampato in copertina. Non sono mai stata una molto interessata all’autocelebrazione, non mi è mai importato delle etichette, né di apparire a tutti i costi. L’emozione è scaturita dall’aver riconosciuto me stessa nelle pagine scritte».
Se nelle pagine interne troviamo Antonella, in copertina c’è un altro Chionna.
«Mio padre Michele, che ha prestato la sua immagine per il mio libro e che ringrazio per questo, come ringrazio il mio editore, Cosimo Lupo, talent scout lungimirante, Emiliano Narcisi e Francesca Cosanti (FREM photographers) che hanno realizzato la foto di copertina, tutti coloro i quali hanno accettato di prestare il proprio punto di vista per le prefazioni: Claudio Principe pittore poliedrico, Bruno Simeone e Daniele Del Genio designers eclettici, Erika Leserri amica storica e talentuosa scrittrice, Anna Romano meravigliosa didatta e Alessandro Leo compagno di vita e musicista formidabile. Ancora ringrazio la Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca, Gianluca Fumarola regista e giornalista, presidente del circolo culturale cinematografico “Buster Keaton”, che ha realizzato il booktrailer relativo al libro, Valeria Santoro, Angela Barratta, Michele Basile, Valentina Chionna, Cinzia Greco, Benvenuto Messia, Anna e Daniela Cassano, Relais Masseria Sant’Elia, Cantine Girolamo, Ludoteca “la bacchetta magica”, Studio 57.»
Come si inserisce la musica in questo progetto?
«La musica fa parte di me, sempre e comunque. Dare vita a un’opera è un po’ come mettere al mondo un figlio, e quindi assemblare insieme i tasselli genetici della propria individualità, sintetizzare tutto ciò che si è vissuto, se si è vissuto, fino a quel momento. Dunque la musica non può che farne parte. Io ritengo che si debba essere artisti in toto, l’arte non dovrebbe conoscere settorializzazioni. Sperimentare altre forme d’arte, può solo far progredire le potenzialità del mio strumento, della mia interiorità.»
A cos’altro stai lavorando?
«Beh, sto seguendo diversi progetti, oltre allo studio. La priorità assoluta va all’uscita del primo disco firmato da me, prevista il 2013. Inoltre tengo particolarmente al progetto con i Cool Train, il trio di cui faccio parte ormai da quasi un anno. Gli altri due componenti, Angelo Mastronardi (piano) e Antonello Losacco (basso), saranno presenti e offriranno il loro punto di vista alla presentazione del libro che si terrà presso la Fondazione Paolo Grassi il 21 dicembre alle ore 18. Amo questo gruppo, oltre che per l’affetto che mi lega ai due musicisti, anche per la grande stima che nutro nei loro confronti. Mi piace perché i Cool Train, nonostante la giovane età, oltre ad avere delle spiccate affinità elettive, possiedono una grande dignità e professionalità in ciò che fanno a prescindere dal salario. È un laboratorio in continua evoluzione. Tornando alla scrittura ho in cantiere un paio di cosette, un romanzo e una nuova raccolta di poesie.»
E chissà che la prossima volta non scopriremo un tuo nuovo talento…
«(ride, ndr) Beh, il trittico della mousikè greca è quasi al completo, manca solo la danza…. ho fatto dieci anni di classica se può interessare, ma tranquilli! Per vostra fortuna non ho mai posseduto la compostezza dell’etoile!»