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LA TERRA DI MIO PADRE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

18
MAG
2017

Sono tornato qui, in questo paese al quale mi legano soltanto i bei ricordi delle vacanze estive, la mia infanzia serena e la presenza di qualche vecchia parente di mio padre, ormai quasi centenaria.
Sono steso sul letto, le braccia piegate sotto la testa e gli occhi che guardano il soffitto che s’illumina al passaggio dei fari delle macchine e penso che anche qui, in questo paesino di poche anime, da dove mio padre è partito all’inizio degli anni sessanta per andare a cercare fortuna a Torino, la vita continua e scorre regolarmente, magari meno frenetica, meno nevrotica di quella di una grande città, ma il progresso è arrivato anche qui, con la sua modernità e il suo superfluo.
Stanotte un’infinità di pensieri mi affollano la mente. È una notte strana, è la notte che precede il giorno che ho tanto atteso, e deve essere per questo che non riesco a prendere sonno e con la mente torno alla mia infanzia.
Il buio da bambino mi intimoriva sempre e se di notte mi svegliavo, avevo paura. Chiamavo la mamma, ma era sempre mio padre ad arrivare per primo accanto al mio letto. Lui ha sempre avuto il sonno leggero. Mi accarezzava i capelli, mi prendeva la mano e mi diceva di stare tranquillo, di non preoccuparmi. Mi bastava saperlo vicino e sentire queste poche parole perché la paura e lo sgomento si sciogliessero all’istante e dopo qualche minuto scivolassi di nuovo nel sonno.
Ma questa notte non posso contare sulle parole rassicuranti di mio padre, lui non c’è più da tanto tempo, io sono ormai diventato adulto, e d'altronde anche il buio ha smesso di farmi paura.
In lontananza sento il campanile della chiesa che metodico batte le ore, e la mente torna a tutte quelle estati in cui mio padre ci portava qui dai nonni a trascorrere le vacanze. Ma venivamo per far piacere a lui che sentiva forte il bisogno di rivedere i suoi genitori e la sua casa.
Mio padre era arrivato al nord all’inizio degli anni sessanta, ma al paese ci tornava tutti gli anni. Stando a Torino si era ammalato di nostalgia e sentiva la mancanza dei suoi cari, così, quando tornava, non vedeva l’ora di riabbracciare i nonni e di gironzolare tra le stradine che da bambino aveva calpestato a piedi nudi assieme ai suoi coetanei e amici, e che ora percorreva ormai da solo perché, come lui, tutti se ne erano andati via.
Questa non è la mia terra, questa è la terra di mio padre. La terra che lui ha amato tanto e che a vent’anni ha dovuto abbandonare per andare a cercare lavoro altrove. Qui sono rimaste le case, qualche negozietto, un paio di bar, un piccolo albergo gestito da una coppia anziana e tanti altri vecchi. Di giovani in giro se ne vedono pochi, quasi tutti se non sono andati o si sono trasferiti in città, per frequentare la scuola o per lavorare.
Il paese dei miei nonni, dove è nato e vissuto mio padre, adesso sembra quasi del tutto abbandonato. Solo d’estate si rianima un pochino con il ritorno di chi è andato a lavorare lontano o con l’arrivo di quei pochi turisti che, amanti della quiete e della tranquillità, hanno scelto questa località per trascorrervi un periodo di riposo.
Io da bambino salivo sin quasi sotto il tetto e mi andavo a coricare in quel letto alto, antico, con le spalliere di ferro e su cui, prima di me, chissà quanti avi avranno dormito. Supino sul letto, attendevo che il campanile rompesse il silenzio con il rintocco della sua campana solitaria e scandisse le ore, e quel suono mi rallegrava e mi faceva compagnia. Di giorno, con i suoi rumori, raramente riuscivo a sentire le campane ma la sera capitava di sentirle, e allora mi stupivo che la nonna decifrasse da quei singoli suoni le ore delle preghiere: il vespro, l’ave Maria, l’ora del rosario, o addirittura l’ora di andare a coricarsi.
 
Papà era stato uno dei tanti che alla metà del secolo scorso, chiuse in una valigia di cartone le sue poche cose indispensabili, aveva dato un bacio a sua madre e, salito sul treno, si era diretto al nord con la speranza di trovarci un futuro migliore. Lasciava la sua terra tanto amata, ma anche tanto avara. Abbandonava il lavoro duro nei campi, il sudore della fronte e quelle zolle aride e sassose, per entrare in fabbrica.
La storia di mio padre è analoga a quella di tanti altri, di quei tanti che come lui sono stati costretti a lasciare la loro terra per andare a cercare fortuna altrove. Ma non tutte le storie sono uguali, ci sono storie diverse e anche storie con la esse maiuscola. Storie che si fanno ricordare, che lasciano il segno e che si portano dietro la nostalgia di un passato remoto ma, nonostante tutto, sempre vivo e presente. Storie che riportano al profumo dell’aria, ricordano i colori della campagna, l’azzurro del cielo, il bianco della calce spalmata sulle pareti delle case e, soprattutto, l’armonia di quel dialetto inconfondibile e ormai quasi del tutto dimenticato.
La stazione di Porta Nuova accolse mio padre con un abbraccio gelido e la città non fu meno fredda e distaccata della stazione. Non fu facile per lui ambientarsi, ma cercò di adattarsi. Entrò in fabbrica sette mesi dopo il suo arrivo a Torino e, in quei sette mesi, pur di non chiedere soldi a casa, si adattò a fare qualsiasi tipo di lavoro per riuscire a pagarsi un posto letto in una pensioncina di periferia.
I primi anni furono difficili e ovattati di solitudine. Era un turnista e lui preferiva fare quello di notte perché gli permetteva di guadagnare qualche soldo in più. Il lavoro era duro e lo stipendio non era un granché, ma si accontentava. Diceva che andando in fabbrica almeno non era più soggetto alle bizzarrie del tempo, alle grandinate, ai raccolti andati male, alla siccità.
Era vero, ora aveva uno stipendio regolare che gli permetteva di guardare al futuro con maggiore tranquillità, ma si lamentava perché i suoi abiti adesso odoravano di vernici e di metallo, e non più di fieno e olive, come una volta.
Quegli anni per lui furono caratterizzati dal lavoro, da rinunce e sacrifici, ma alla fine raggiunse una certa stabilità economica che prima non aveva mai conosciuto. E questo lo indusse a pensare di mettere su famiglia. Finalmente poteva sposare quella ragazza che aveva conosciuto in quel negozietto dove lui andava tutte le mattine, appena smontato dal lavoro, per acquistare pane e mortadella. Fece tutto secondo le regole: andò a chiedere la mano al padre della ragazza, anche lui originario del sud e, ottenuto il consenso, affittò un piccolo appartamento con il riscaldamento centralizzato e con l’acqua corrente, calda e fredda sempre pronta, e si sposò. Nel giro di tre anni, arrivammo prima mia sorella e poi io.
Erano gli anni del boom economico. La vita era cambiata e a tutti sembrava più facile potersi sbilanciare in compere e spese non sempre essenziali. Era il periodo in cui bastava firmare una pila di cambiali alte così, per potersi portare a casa tutto quello che volevi.
In quel modo mio padre acquistò gli elettrodomestici per mia madre: prima il frigorifero e la televisione, poi la lavatrice e in fine anche un’utilitaria per tutta la famiglia.
Quelle rare volte che la sera raccontava della sua infanzia vissuta al paese, della miseria che regnava in casa sua e dei motivi che lo avevano indotto ad andare a cercare lavoro al nord, mia sorella ed io lo stavamo ad ascoltare ma ci sembrava tutto così lontano, inverosimile. Ci diceva che a volte saltava anche i pasti e che, per non consumare le scarpe, spesso andava in campagna a piedi nudi. Indossava gli abiti smessi del fratello maggiore, dopo che la madre li aveva rammendati e adattati a lui.
Non ci dovevamo vergognare, ci diceva, ma dovevamo sapere che non era sempre stato così, come lo vedevamo noi ora, e che proprio per questo non dovevamo dare tutto per scontato. Dovevamo studiare. Dovevamo ottenere quel pezzo di carta che ci avrebbe affrancato dalla fatica e permesso di trovare un lavoro meno faticoso e consunto del suo.
E così, mia sorella ed io crescemmo, come molti altri bambini, con il corpo al nord e il cuore al sud, nella terra dei nostri nonni e genitori; nella terra delle nostre vacanze estive.
Mio padre, ancora prima di andare in pensione, fantasticava di voler tornare a vivere nella casa dei suoi genitori, dove era nato e cresciuto, ma le sue speranze durarono poco. Appena lasciato il lavoro, cominciò a stare male. Dapprima fu solo un malessere, un lento deperimento poi, quando il suo stato di salute cominciò a preoccupare, si sottopose a degli esami clinici e a nulla valsero l’intervento chirurgico e le cure che ne seguirono. La malattia, in tre mesi, affossò per sempre le sue speranze di poter trascorrere la vecchiaia nella sua casa, nel suo paese.
«Ma ho ancora un sacco di cose da fare e da mettere a posto…Mi devo anche trasferire». Aveva detto al medico, al momento della severissima diagnosi.
Pochi giorni prima di morire, mio padre era ancora ricoverato in ospedale ed io avevo dato il cambio a mia sorella per la notte e così, quando rimanemmo soli, mi fece cenno di avvicinarmi al letto e, dopo avermi preso la mano e con un filo di voce, mi fece promettere che non avrei mai lasciato andare in rovina la vecchia casa dove era nato, né che l’avrei mai venduta.
Mi stupii per quello che mi stava chiedendo, ma in quel momento realizzai quanto fosse importante per lui la mia promessa. Voleva essere certo, prima di chiudere gli occhi per sempre, che la sua casa non sarebbe mai stata ceduta o abbandonata all’incuria e alle intemperie.
Mi chinai su di lui, avvicinai il mio volto al suo e gli sussurrai che mi sarei interessato. Lo rassicurai che non l’avrei mai venduta e che mi sarei impegnato per farla ristrutturare.
E per quanto potesse sembrare assurdo, pensai che ormai consapevole del suo stato, e non potendo più farlo lui, mio padre avesse riversato su di me il suo ultimo desiderio: quello di sapere che un giorno, nella sua vecchia casa, sarebbero tornati a risuonare voci e rumori familiari.
Quando accadde, pochi giorni dopo la mia promessa, fu un brutto momento per tutti noi, ma mia madre fu determinata e trovò la forza di reagire e di andare avanti, e quella determinazione la trasferì anche su di noi, su mia sorella e su di me. Non si fece mai vedere piangere, non ci fece mai mancare niente e continuò a lavorare sino a quando noi figli ci laureammo. E per me fu di grande esempio.
Dopo i funerali, per molto tempo la notte stentai ad addormentarmi. Pensavo a quello che mi aveva chiesto in punto di morte mio padre, e a quello che gli avevo promesso.
Nei successivi cinque anni mia madre non volle tornare al paese, nemmeno d’estate. Non se la sentiva di rivedere quei posti da sola, senza mio padre. Ma io, con il pensiero sempre rivolto a quello che mi aveva chiesto, non mi davo pace e un’estate ci tornai da solo. Feci il viaggio in macchina e fu bello, una volta giunto in Puglia, rivedere e percorrere quelle strade delimitate, a perdita d’occhio, da muretti a secco e costeggiate da uliveti e vigneti.
Visitai la casa, e pensai che se non era ancora rovinata al suolo era solo grazie alle abitazioni vicine che la stavano sorreggendo. All’interno c’erano ancora i vecchi mobili e in soffitta trovai anche il letto di ferro battuto, ormai arrugginito e con la rete sfondata. Avrei voluto dare inizio subito ai lavori di ripristino, ma ero ancora troppo giovane. Studiavo e non avevo ancora l’autonomia finanziaria sufficiente per affrontare quella spesa.
Ho percorso quei vicoli a piedi, quelle strade che tanti anni prima mio padre aveva percorso scalzo. Sono entrato anche in chiesa e mi sono avvicinato all’altare maggiore, e subito mi sono ricordato di quando la nonna insisteva per farmi andare con lei a messa. Le statue dei santi erano sempre le stesse e anche i due confessionali di legno scuro, ormai irrimediabilmente tarlati, erano sempre al loro posto, silenziosi e vuoti come la chiesa. La sera, tornato in albergo e steso sul letto, attesi, come in passato, di sentire il campanile della chiesa che battesse le ore e lui, puntuale, ogni mezz’ora dava i suoi rintocchi, ma chissà se qualcuno lo stava ancora a sentire? Le notti non erano più silenziose come un tempo, nemmeno qui.
Ripartii il mattino successivo, con la ferma convinzione che un giorno sarei tornato e avrei dato corso a quei lavori. Ancora non sapevo come avrei fatto, dove avrei trovato i soldi, ma promisi a me stesso e rinnovai la promessa anche a mio padre, che un giorno sarei tornato per mantenere l’impegno assunto con lui.
Ora, dopo tanti anni, dopo essermi laureato, sposato, e aver fatto carriera in una grande multinazionale che si occupa di prodotti industriali, ho deciso di dare corso al progetto di mio padre. Far finalmente rivivere la vecchia e abbandonata casa in cui era nato.
Per questo ora mi trovo qui, nel solito albergo semivuoto. Prima di partire mi ero già messo in contatto con delle imprese edili del posto. Domani incontrerò il titolare di una di queste. Discuteremo dei lavori necessari, parleremo di preventivi, sceglieremo assieme i materiali e le tinte. Non gli darò fretta, ma gli chiederò di mantenere la struttura così com’è tuttora, senza cambiare nulla. Gli chiederò di tirar giù dalla soffitta anche quel vecchio letto di ferro battuto e di farlo rimettere a nuovo. Ci ho dormito io quando ero un bambino e vorrei che ci dormisse anche mio figlio, quando l’estate prossima torneremo tutti assieme. Mia moglie non è del sud, ma a lei la Puglia piace, se n’è innamorata già la prima volta che l’ho portata qui con me.
Naturalmente dovrò valutare tutto con molta calma e attenzione perché, lo so già, saranno dei lavori che mi costeranno parecchio. Ho ancora un figlio che sta frequentando il liceo e poi andrà all’università, e non è detto che in seguito trovi subito lavoro, ma ce la farò. Darò seguito alle ultime volontà di mio padre e di questo, ne sono certo, ne sarà orgoglioso anche lui.
Mancano ancora tanti anni alla mia pensione, ma mi piacerebbe, una volta smesso di lavorare, o almeno nel periodo estivo, lasciare la città e con mia moglie trasferirci qui e andare ad abitare in quella vecchia casa con i tetti a pignon, tra questi odori forti, in mezzo a questa natura contadina, tra i profumi di ulivi, zagare, fichi e mandorli.
Un giorno tornerò in questo paese e andrò ad abitare in quella vecchia casa che ormai da troppi anni vive solo di ricordi. Camminerò con mia moglie e mio figlio su queste stradine e indicherò loro le pietre su cui mio padre ha camminato scalzo.
L’orologio continua a battere le ore, adesso scandisce le più piccole, ma io non riesco ancora a prendere sonno. Penso a domani. Penso a mio padre.
Domani, quando porterò in quella vecchia casa il titolare dell’impresa, non sarò solo, ne sono sicuro, con me ci sarà anche lui, e così potrà constatare che il suo desiderio è stato finalmente esaudito.
 



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