Luca Telese
Dopo un lungo Travaglio
Giornalista, scrittore e autore televisivo, dal “Giornale” al “Fatto Quotidiano”, da Rai2 a LA7; si prepara ora con il suo nuovo quotidiano, “Pubblico”, in edicola dal 18 settembre prossimo. Un giornale fatto da giovani, di sinistra ma pure critico, che si propone di raccontare ciò che i giornali e la televisione non raccontano
Ce lo ricordiamo ultimamente nella conduzione di “In Onda”, talk show di approfondimento serale di LA7, ma soprattutto perché esattamente un mese fa ha lasciato il “Fatto Quotidiano”, di cui Marco Travaglio è vicedirettore. Luca Telese, sposato con Laura Berlinguer, figlia di Enrico, dopo la rottura con il vecchio quotidiano, annuncia che si prepara a fondare un nuovo quotidiano nazionale, “Pubblico”, in edicola dal 18 settembre; un giornale “generazionale”, che in un Paese di vecchi, dà voce ai giovani, ma è anche un giornale che si appresta a diventare un laboratorio di idee «per cambiare l’agenda della Sinistra» come specifica lo stesso direttore. Insieme ai suoi redattori Francesca Ferrario, che si occupa di satira, e Tommaso Labate, sezione politica, Luca Telese è stato invitato dalla “Sinistra InMovimento”, l’associazione politico-culturale, «nata nel modo più semplice e puro possibile, dalla condivisione di un'idea, dalla lettura di saggi di economisti e politologi, e dalla convinzione sempre più pressante che il senso del nostro agire debba essere rivolto ai bisogni delle persone, e non alle oscillazioni dei mercati finanziari. La nostra è stata una scelta di campo radicale ma non dogmatica, che prevede anche mediazioni, se necessarie come strumento di azione politica, ma mai compromessi», spiega Domenico Cinquegrana, presidente del circolo ARCI Palacool, dove si è svolto l’incontro, e a sua volta membro fondatore di SiM. L’incontro-aperitivo è stato organizzato per celebrare l’inaugurazione di “Pubblico”, ma anche della Sinistra inMovimento, che apre i battenti sposando i principi del prossimo quotidiano. Prima del dibattito, Luca Telese è stato accolto dai giovani militanti della sinistra, tra i quali qualche giornalista incuriosito, me compresa, pronto a intervistarlo.
Come sarà strutturato il giornale?
«Sarà totalmente diverso dagli altri, colorato, solare, vivace, metterà in primo piano cento interviste di persone normali che fanno cose importanti, e dieci di meno a Cesa e a quattro stressati del "transatlantico" (il salone posto all'estremo dell'aula dove sostano i parlamentari negli intervalli delle sedute, ndr). Avrà una grande attenzione alla politica, alla cultura agli spettacoli, e si porrà come obiettivo quello di raccontare la speranza, quindi non solo quello che non va, non solo le cose da demolire, ma anche l’Italia del coraggio e di quel gruppo di ragazzi che si ostina a fare cultura, dibattito, attività, in una città che potrebbe diventare una ghost town se viene abbandonata alle sue leggi animali».
Ma Pubblico deriva proprio dalla rottura con il “Fatto” e con Travaglio?
«Ho lasciato il “Fatto” perché non condividevo più con Marco Travaglio, vicedirettore, la linea politica editoriale; quel giornale l’abbiamo fondato insieme, anche in condizioni eroiche, ma personalmente a me l’Italia del “Vaffanculo” non piace, quindi se uno deve fare un’impresa come il “Fatto”, e poi dare credito a un comico che dovrebbe avere risposte importanti per il Paese, a quel punto mollo, pazienza, proviamo a fare un’altra cosa. E’ ridicolo che il “Fatto” paragoni Napolitano ad Al Capone; lui è un potere reale di questo paese ed è un pezzo della classe dirigente, io voglio criticarlo senza farne una caricatura, senza definirlo un gangster perché fa ridere. Sono stato coraggioso, perché lasciare una busta paga a tempo indeterminato è un rischio. La morale media del giornalista in Italia è fare il vestito su misura al politico da intervistare: gli si dice la domanda, la risposta, però passa per un grande professionista. “Pubblico” nasce anche per questo, e perché vogliamo raccontare l’Italia che si vede; tra i volti del sito, a parte Berlinguer, Steve Jobs c’è anche quello di un cuoco. Bisogna rifiutarsi di accettare il baratto, per cui saremo severissimi sicuramente con la destra degli appalti truccati, della casetta regalata e del conflitto di interessi, ma anche con la sinistra cialtrona che si mette all’asta».
Questa sinistra come la vedi?
«Ai materassi! Un conglomerato di spettri, residui archeologici e nuovi opportunismi. In mezzo a questo scenario però ci sono delle cose belle, nuove, coraggiose, e la scommessa non è denunciare quello che non va, ma mettere una lente di ingrandimento a quello che va. Non mi piacciono i discorsi semplificatori: tutti i politici sono corrotti, sono tutti ladri, non esistono incantate società civili. Questo è un Paese che deve cambiare, deve smuovere l’ascensore sociale e quello generazionale, che è sepolto sottoterra: siamo governati da novantenni».
E sui giovani cosa ha da dire?
«I giovani sono il petrolio di questo Paese; sto ricevendo 400 curricula al giorno, quindi se avessi tanti lettori come tanti aspiranti giornalisti, il punto di pareggio del giornale sarebbe stato già raggiunto. C’è chi è andato in Spagna, in Francia, in Grecia, abbiamo una regione straniera di bollenti spiriti che son dovuti fuggire, ma bisogna richiamarli, bisogna dare loro una speranza, bisogna raccontare quello che di buono hanno fatto; è la radiografia di una generazione che si è data da fare. Sono figlio di nessuno, sono cresciuto in una periferia, ho avuto una grande fortuna, e mi piacerebbe cambiare la regola che prevede al piccolo posto di potere un ottantenne che vuole decidere la sorte. Basta adesso, gli anziani di questo Paese devono fare i maestri come in tutti i Paesi del mondo, non possono fare i fratelli maggiori competitivi, a 60 anni, con benefici previdenziali migliori dei nostri, e nonostante ciò, vogliono pure correre i cento metri e batterci. Il mio giornale è un bisogno; giovinezza non è necessariamente una condizione anagrafica, io considero giovane il regista Risi che diceva: «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando». Questa è la frase più bella sulla creatività che lancia una scommessa ai i giovani, bisogna sbarazzarsi dei sessantenni».
E come si fa a mandarli a casa?
«Con le cannonate. E’ inconcepibile che impiegati nell’Università più importante d’Italia, La Sapienza, il rettore abbia la figlia, il figlio e la moglie, e quando gliel’hanno fatto notare lui ha esclamato: «Beh ma il mio cognome è un marchio di garanzia!»; infatti per quanto mi riguarda è la garanzia di uno che se ne deve andare. In un Paese così, in cui in ogni concorso c’è un barone che vuole metterci la mano, un Paese in cui si tagliano i fondi per la scuola, in cui sono cancellati i fondi per i corsi di recupero, in cui come a Torino chiudono gli asili, perché mandano via i precari che hanno tenuto aperti gli asili per anni, un Paese in cui chiude la fabbrica più grande d’Europa che produce autobus, a Valle Ufita tra Avellino e la Puglia. E’ un Paese in cui il sud è stato avvelenato in nome dei patti, del ricatto occupazionale, come a Porto Torres, a Taranto, a Gela, dove si permettono di dire: scusate è finito il lavoro, però i veleni ve li lasciamo e non possiamo fare le bonifiche».
Che ruolo ha avuto per te Berlinguer?
«Berlinguer è stato un simbolo dell’Italia pulita; ai politici la gente non chiede miracoli, ma chiede di potersi fidare. Lui era un uomo che se riceveva lo stipendio del metalmeccanico, di 1.400.000 lire, lo portava in banca; non ha mai tradito la parola data, magari ha fatto qualche scelta sbagliata e quando ha fatto forse l’ultima intervista importante, quella con Minoli, con un gran sorriso rispose alla domanda su cosa andava più fiero, e cioè di non aver tradito gli ideali della sua giovinezza. Io credo che quando dai alle persone una speranza e la possibilità di fidarsi, non ti abbandonano; il funerale di Berlinguer sembrava una gran manifestazione di massa, persino Bruno Vespa ha fatto la cronaca, lui è ancora amato da tutti. Enrico fece la profetica intervista sulla questione morale, in cui diceva che i partiti erano diventati macchine di potere, avevano occupato lo Stato, le municipalizzate, le società finanziarie, raccontava Tangentopoli 10 anni prima che accadesse, e ha raccontato i tempi che stiamo vivendo, gli attuali Lusi e Scajola. Bisogna soffermarsi e ragionare sulle cose, perché siamo noi che facciamo la storia e che possiamo cambiare le cose».