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UNA TERAPIA INNOVATIVA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

8
GIU
2017

Era davvero molto difficile far ragionare mio padre, alto ufficiale dell’esercito in pensione che a ottant’anni fumava un pacchetto di sigarette al giorno, digeriva anche i sassi e rifiutava categoricamente qualsiasi mio consiglio di trasferirsi da me. Abituato a comandare, non aveva mai demandato a nessuno le decisioni che riguardavano se stesso eil suo modo di vivere.
«Sono tranquillamente capace di cavarmela da solo, non ho bisogno di nessun aiuto…»
Sosteneva con testardaggine, ed era impossibile fargli cambiare idea. Gli stava bene così, voleva vivere da solo, nella casa che aveva condiviso con mia madre.
«All’appartamento bada Rachele, per il resto non ho bisogno di nulla». Rachele era la signora che avevo assunto dopo la morte di mia madre, ma l’appartamento non era l’unico problema. Non capiva che io ero preoccupato per la sua salute, per come trascorreva il tempo e per tutte quelle cose che prima faceva nostra madre e di cui lui non si era mai interessato: aveva pensato solo e sempre al suo lavoro. Di tutto il resto, dalle faccende domestiche alla mia educazione e alle spese in genere, si era sempre occupata mia madre e per questo, da quando era morta, mi stavo preoccupando perché papà si ostinava a voler continuare a vivere a modo suo.
«Non ho bisogno di niente. Non sono rincretinito. Io e Axel ce la caviamo benissimo da soli». Ripeteva, ogni volta che tornavo sull’argomento.
Axel era il suo cane, un Labrador che gli aveva portato un suo caro amico dopo la morte di mia madre. All’epoca papà era andato in depressione. La perdita della moglie gli aveva creatouna lacerazione al cuore,che non riusciva più a rimarginare.
Mia madre era una donna paziente, dolcissima e si interessava di tutto. Non è mai capitato di sentirli litigare o discutere. Quando nostro padre tornava a casa,le parlava dei problemi che nascevano in caserma, dei suoi malumori e delle sue preoccupazioni e lei lo stava ad ascoltare per ore. Vivevano in simbiosi, una era il sostegno dell’altro.
Avevo sempre pensato che senza mio padrelei sarebbe sopravvissuta solo un mese, mentre lui, più temperato e forte, avrebbe resistito meglio e saputo sopportare meglio la solitudine.Quanto sbagliavo!
Era risultato evidente che le cose non stavano in quei termini. Mio padre era caduto subito in depressione. Con la moglie aveva perso anche la voglia di vivere. Non voleva vedere nessuno, non voleva più uscire, e teneva le persiane abbassate perché voleva che la casa rimanessesempre in penombra. Si era chiuso in se stesso e aveva completamente perso interesse per la vita.
«Mi manca troppo». Midiceva, trattenendo le lacrime, quando cercavo di spronarlo per farlo mangiare, per farlo uscire, per farlo venire da me a passare almeno qualche giorno.
«Mi manca la sua voce, il suo sorriso, la sua pazienza, la sua allegria. Dovevo essere io ad andarmene, non lei…»Mi ripetevacontinuamente.
Si stava lasciando andare e non lo nascondeva, ed io nonriuscivo a consolarlo, a spronarlo. Non gli interessava più vivere. Vivere da solo gli pesava troppo.
Pensavo a delle soluzioni, cercavo nuovi stimoli, che però mio padre puntualmente si rifiutava di condividere.
L’idea giusta,però, era venuta a un suo collega, unsuo amico di vecchia data, quando una sera lo incontrai per strada e gli parlai del malessere di mio padre. Lui mi propose una cosa ed io la condivisi, ma gli chiesi di aiutarmi perché se la cosa fosse partita da me mio padre si sarebbe insospettito e non mi avrebbe assecondato.
Così, una sera, il suo amico si presentò a casa suacon un cucciolo di Labrador. Papà aveva sempre amato i cani, ma di tenerne uno in casa non ci aveva mai pensato.
«Guarda che bestiolina… che meraviglia di cane. Quando l’ho trovato legato a un cartello stradale, nel parcheggio del supermercato, non volevo crederci. Mi chiedo chi possa avere avuto il coraggio di abbandonarlo lì da solo». Gli aveva detto l’amico, posando a terra il cagnolino. Il cucciolo era saltato fuori dal cartone, subito si era messo a scodinzolare e poi si era arrampicato sulle gambe di mio padre.
Naturalmente non era vero, ero andato io in un negozio di animali e mi ero fatto consigliare un cane di taglia non troppo grande, non aggressivo, docile e facile ad affezionarsi al suo padrone.
«Dopo tanto tempo il volto di tuo padre si è illuminato e ha sorriso. Ha preso il cane in braccio e quando si è sentito leccare la faccia è scattato l’amore a prima vista. Vedrai che sarà una buona medicina. Credo che abbiamo fatto la cosa giusta». Mi sentii dire al telefono, quando lo chiamai per chiedergli come erano andate le cose con il labrador e mio padre.
All’inizio non era stato facile. Axel, così lo aveva chiamato mio padre, come tutti i cuccioli, aveva l’argento vivo addosso e aveva bisogno di mille attenzioni: alimentazione giusta, vaccinazioni, cure continue. Ma come aveva detto l’amico, nel giro di qualche mese mio padre sembrò risorgere dall’apatia in cui era sprofondato e le cose migliorarono a tal punto che cane e padrone erano diventati inseparabili.Bastava che Axel andasse vicino alla porta d’ingresso perché mio padre scattasse in piedi, prendesse il guinzaglio e lo portasse al parco. E quelle passeggiate quotidiane avevano avuto anche il merito di fargli conoscere altre persone, altri proprietari di cani che avevano piacere di parlare con lui e dei loro animali. Insomma, quel cane lo aveva rinvigorito, e anche se la mancanza della moglie sarebbe rimasta incolmabile, Axel, con la sua dolcezza e bontà, era riuscito a colmare almeno in parte il vuoto che si era creato in casa.
Grazie al cane, poco alla volta mi stavo rilassando anch’io. Passavo a trovarlo tutti giorni, gli portavo la spesa, la biancheria pulita e stirata, mi assicuravo che non avesse bisogno di nulla, insistevo per farlo venire a casa mia.Ma papà non voleva sentire ragione su quell’argomento, voleva continuare a vivere da solo.
Tutto questo fino a quel pomeriggio in cui la situazione precipitò. Stavamo cenando quando arrivò la telefonata dell’amico di mio padre, che oltre a essere il suo migliore amico è anche il suo vicino di casa.
«Diego, scusa se ti disturbo, ma sono preoccupato. Axel sta abbaiando come un matto dietro la porta di casa, ho provato a suonare ma tuo padre non risponde. Non vorrei che fosse successo qualcosa…» Non lo lasciai nemmeno finire.
«Per favore, continua a suonare alla porta, io arrivo subito».
Axel in genere era un cane tranquillo, per cui se continuava ad abbaiare doveva esserci un motivo, doveva essere successo qualcosa. Preoccupato e con il cuore in gola salii in macchina e corsi verso casa di mio padre. Più i minuti passavanopiù l’ansia cresceva e si stava facendo stradaanche un brutto presentimento.
Arrivai in pochi minuti, parcheggiai alla meglio e corsi su per le scale facendo i gradini a due a due. Sentivo Axel che continuava ad abbaiare e questo mi metteva ancora più in agitazione. Le mani mi tremavano e arrivato alla porta non riuscii nemmeno a infilare la chiave nella toppa.
«Aspetta, dammi qua. Faccio io». Mi disse l’amico di mio padre, intuendo la mia agitazione e togliendomi dalle mani le chiavi.
Appena entrammo, Axel si zittì, ci guardò e poi corse verso la camera da letto. Ci precipitammo dietro di lui e fu allora che vidi mio padre riverso a terra, privo di sensi ma che respirava ancora. Chiamammo subito i soccorsi che arrivarono in pochi minuti. Il medico intuì che si trattava di un problema cardiaco e intervenne subito con il defibrillatore.
Ero paralizzato. Temevo di perderlo e mi sentivo anche in colpa per averlo lasciato solo, per non aver insistito abbastanza, per non essere riuscito a convincerlo a venire a vivere con me. Guardavo mio padre immobile, pallido, supino sul letto. Guardavo il dottore che cercava di rianimarlo, mentre Axel si era seduto ai piedi del letto e teneva fisso lo sguardo sul suo padrone.
Il medico mi chiese il nome di mio padre.
«Aldo, Aldo». Gli risposi. Lo chiamò e poi gli disse di respirare con calma.
«Respira… bravo, così, respira… bravissimo». Poi, voltandosi verso l’infermiere gli disse che doveva essere spostato sulla barella e trasportato in ospedale.
«Come sta dottore?» Gli chiesi. Il medico mi disse che lo avevano ripreso, ma che non era fuori pericolo e doveva essere ricoverato. Lasciai le chiavi al suo vicino di casa e gli chiesi anche di interessarsi lui di Axel, e prima di andare in ospedale lo assicurai che lo avrei tenuto informato.
Ricoverarono mio padre in rianimazione. Le ore non passavano mai e aspettai allungo prima di avere qualche notizia, poi, dopo un tempo che mi sembrò infinito, comparve un medico che disse che mio padre era stato stabilizzato, ma che non poteva dirci altro. Mi fece entrare per qualche minuto nella stanza, dove si trovava mio padre e vedendolo in quelle condizioni: pallido e con dei tubi che gli uscivano dal naso e dalle braccia, per poi essere collegati a delle macchine, mi fece molto male. Dopo pochi minuti mi fecero uscire.
Era inutile rimanere dietro quella porta chiusa. Passai a casa di papà per prendere Axel e portarlo a casa mia. Il cane mi seguì docilmente, ma arrivato nel mio appartamento, si sdraiò ai piedi della porta d’ingresso e non si mosse più sino al mattino successivo.
Le giornate che seguirono trascorsero nell’ansia e nella paura di perdere mio padre, ma anche nella speranza di poterlo convincere di trasferirsi a casa mia.
La mattina passavo dall’ospedale e poi correvo al lavoro e la sera tornavo in ospedale per chiedere notizie. Intanto Axel restava a casa mia e di lui si occupava mia moglie, ma mi diceva che era sempre molto triste e che bisognava insistere, quasi imboccarlo, per farlo mangiare.
Dopo due settimane dal ricovero, la cardiologa che seguiva mio padre chiese di parlarmi. Mi disse che stava migliorando, ma che non reagiva, sembrava senza più interessi e stimoli, aggiunse.Quel pomeriggio lo passai con mio padre. Gli parlai, cercai di fargli capire quanto fosse importante per me e per i suoi nipoti.
«Axel come sta?»
«Bene papà, ma ha bisogno anche lui di te. Devi tornare a casa e prenderti cura di lui. Sta deperendo giorno dopo giorno, non mangia quasi più» Gli dissiper spronarlo.
Ma lui,con un filo di voce mi rispose che era stanco, che ormai aveva fatto il suo tempo e che dovevo rassegnarmi e lasciarlo andare.
«Però, mi devi promettere che ti prenderai cura di Axel, mi raccomando».
Per la prima volta in vita mia vidi mio padre in tutta la sua fragilità, e mi commossi.
Dovevo trovare una soluzione. E sapevo che era stata approvata una legge che consentiva di portare gli animali domestici dai pazienti ricoverati, anche negli ospedali. Dovevo provare quella strada.
L’indomani mi presentai in ospedale all’orario di visite e chiesi di parlare con la cardiologa. Quando arrivò, le spiegai che mio padre era vedovo ma molto legato al suo cane, e le chiesi se sarebbe stato possibile portarlo in ospedale per farglielo vedere. Le dissi che ero a conoscenza di una legge che permetteva di introdurre i cani anche in ospedale, e con mia grande sorpresa scoprii che la dottoressa ne era al corrente e che non sarebbe stata contraria a fargli incontrare Axel.
«Mi faccia solo avere l’autorizzazione ufficiale. Sono decisioni che non posso prendere da sola, ma qui in ospedale ne parliamo spesso tra colleghi».
Qualche giorno dopo ottenni il permesso ufficiale, unitamente alle istruzioni necessarie per portare il cane in ospedale: avrei dovuto fargli il bagno, spazzolarlo, mettergli la museruola e tenerlo sempre al guinzaglio.La dottoressa mi disse che aveva anche fatto trasferire mio padre in una stanza singola e mi raccomandò di attenermi alle prescrizioni ricevute.
«La pet therapy, cioè la terapia con gli animali domestici, in alcuni casi si è rivelata veramente efficace». Concluse la cardiologa, prima di salutarmi.
La mattina seguente, un sabato, feci il bagno ad Axel e attesi con trepidazione di incontrare la dottoressa. Quando venne all’ingresso, mi salutò e subito allungò una mano per farla annusare al cane.Era evidente che aveva domestichezza con gli animali. La seguii sino alla stanza di mio padre.
«Aldo, guardi che bella sorpresa abbiamo per lei». Gli disse, entrando nella sua stanza. Axel appena vide mio padre cominciò a scodinzolare, a guaire e a tirava il guinzaglio per andare verso di lui. Guardai la dottoressa, preoccupato.
«Posso farlo avvicinare?» Chiesi.
«Ma certo!» Mi rispose.
Papà era esterrefatto, incredulo, quasi in lacrime. Si sollevò e prese la testa di Axel tra le mani e cominciò ad accarezzarlo. Il cane voleva salire sul letto, avvicinarsi il più possibile al suo padrone. Mio padre mi guardò e mi disse che si era smagrito e chiese di toglierli la museruola. Guardai la dottoressa e lei mi fece un cenno d’assenso.
«Devi dirgli di mangiare papà. Sta tutto il giorno vicino alla porta d’ingresso e aspetta solo te».
«Axel. Amico mio, non devi fare così. Basto io malato». Sussurrò al cane econtinuando ad accarezzarlo. Poi con gli occhi lucidi di gioia si girò verso la dottoressa e la ringraziò per quella sorpresa inattesa.
«Ero preoccupata per il suo cane, che mi dicono che non sta mangiando più. Lei è qui da troppo tempo, Aldo. Si sbrighi a guarire, mi sembra di capire che a casa ci sia qualcuno che ha bisogno di lei». Gli rispose, facendomi l’occhiolino. Mio padre annuì serio, poi divenne pensieroso e tornò ad accarezzare il suo cane.
Trascorsero altri giorni e poi finalmente mio padre fu dimesso. Andai a prenderlo con Axel e lo portaia casa mia.
Ora mio padre vive con la mia famiglia, attorniato dalle cure di mia moglie, dalle mie attenzioni e dall’affetto dei suoi due nipotini. Enaturalmente dall’immancabile e sempre onnipresente e inseparabile Axel, che è riuscito dove né i medici né io eravamo risusciti: fargli ritornare la voglia di vivere.
 



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