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LE PREOCCUPAZIONI DI UNA MADRE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

31
AGO
2017

Ore 22,35
«Non vieni a dormire, Anna?» Mi chiede mio marito, sbadigliando.
«Vai pure, io aspetto Daniela. Ormai non dovrebbe tardare».
«D’accordo… Buona notte».
Mi risponde Mauro, poi mi sfiora la guancia con un bacio e si avvia verso la scala che porta alle stanze da letto. Ha sulle spalle la stanchezza di tutta la settimana lavorativa e sente il bisogno di riposare. Stasera sono stanca anch’io e mi si chiudono gli occhi ma sono sicura che se andassi a letto non riuscirei a dormire, perché come ogni sabato sera mia figlia è uscita con i suoi amici e finché non la sento rientrare non sono tranquilla.
Daniela ha solo sedici anni e ha il permesso di stare fuori sino alle undici. È una ragazza giudiziosa e fino a questo momento non mi ha mai dato grandi preoccupazioni. Frequenta la quinta ginnasio con profitto e il sabato sera le concediamo di fare tardi con gli amici. Fino a qualche tempo fa eravamo noi genitori, a turno, ad accompagnare i nostri figli a questa o a quella festa che era stata organizzata per il compleanno, onomastico o anniversario di qualcuno, ma da un po’ di tempo abbiamo smesso perché Daniela, come tutte le sue amiche, ha detto di sentirsi a disagio arrivando alle feste accompagnata da noi. Io e mio marito l’abbiamo accontentata perché conosciamo le sue amiche e le loro famiglie, e così adesso ce ne restiamo tranquilli a casa ad aspettarla. Oddio, io proprio tranquilla non lo sono mai quando lei esce, ma cerco di stare calma, e anche se mi viene il desiderio di chiamarla, chiederle dove si trova e come sta, non lo faccio mai, proprio per evitare di metterla in imbarazzo e sentirmi rispondere a tono.
Daniela si arrabbia anche quando mi trova ancora alzata ad aspettarla, e a nulla serve che io cerchi delle scuse o che le dica la verità, e cioè che temo che possa avere un incidente o che incontri qualcuno che la possa infastidire.
«Con tutto quello che si sente in giro…» Le ripeto sempre.
«Mamma, sei sempre la solita paranoica. Ma se ti ho detto dove andavo e con chi stavo, perché ti agiti sempre così tanto?» Mi risponde lei, scuotendo la testa.
Ore 23, 25
Guardando la televisione mi sono appisolata un attimo sul divano, e… ma guarda un po’, senza accorgermene mi sono coperta con il plaid, non ricordo nemmeno di averlo fatto. Ultimamente mi capitano delle cose strane, di fare cose di cui poi non ho memoria. Forse dovrei cominciare a preoccuparmi. Mah…
Guardo l’orologio. Sono passate da un pezzo le undici e Daniela non è ancora tornata. È tardi. Come mai non è ancora rientrata? Di solito è sempre puntuale. Controllo il cellulare, magari mi ha inviato un messaggio. Niente. Provo a chiamarla, ma una voce femminile mi dice che l’utente non è raggiungibile. Quasi quasi chiamo Giuliana, la mamma della sua migliore amica. Prendo il cellulare, ma poi desisto. È tardi e potrebbero già essere andati tutti a letto e poi lo so come la pensa. Mi direbbe di stare calma, che sono solo pochi minuti di ritardo. Già ieri, quando ci siamo incontrate al centro commerciale e le ho parlato delle mie paure e preoccupazioni, lei mi ha risposto che io sono troppo ansiosa e che sto stressando mia figlia.
«Non puoi starle sempre col fiato sul collo, santo cielo. Lasciala respirare, non è più una bambina».
Io e Giuliana siamo amiche da vecchia data e anche se abbiamo caratteri e idee spesso diverse, andiamo molto d’accordo.
«Per te è più facile, hai altre due figlie più grandi e quindi esperienza.  Daniela è figlia unica. Lo sai, è arrivata dopo anni di attesa, proprio quando pensavamo che non avremmo più potuto provare la gioia di avere un figlio. E da quel giorno, per me, lei è diventata tutto il mio mondo. Tutto gira intorno a lei».
«Ecco, brava, l’hai detto. E non va bene. Nel tuo mondo ci deve essere spazio anche per la sua libertà, posto per tuo marito, per altre persone, per altri interessi e, soprattutto, per te stessa».
Mi ha risposto, mentre sedute al tavolino di un bar ci stavamo prendendo un caffè.
«Non capisco cosa tu voglia dire. Perché, tu non vivi in funzione delle tue figlie?» Le ho chiesto, seccata per essere sempre contraddetta da lei.
«Voglio dire che tu esageri, che vivi solo in funzione di tua figlia. Ogni suo gesto, azione, pensiero vorresti che fosse condiviso prima con te, ma questo non è possibile. Ormai si è fatta grande e non puoi pretendere che ti dica tutto, che ogni momento ti chiami per dirti dove si trova e con chi sta. Le nostre figlie sono entrate nell’età più difficile, ma per loro è anche la più entusiasmante. Devono esplorare, fare nuove conoscenze, capire da sole, confrontarsi con i loro coetanei e con tutto ciò che le circonda. Lasciala crescere in pace. A scuola dici che va bene, non ti ha mai creato problemi di nessun genere… e allora lasciale vivere questo periodo di spensieratezza serenamente. Del resto ci siamo passate anche noi e con la scusa che erano altri tempi, abbiamo sempre dovuto chinare la testa e fare quello che volevano gli altri».
«Guarda che io non le ho mai negato nulla». Le ho risposto piccata.
«Forse questo sembra a te, ma quando torna a casa l’assilli con un sacco di domande, e questo non va bene. La stressi».
«E tu come fai a saperlo?» Le ho chiesto sorpresa.
«Ieri pomeriggio Daniela è stata a casa mia, lo sai, e parlando con mia figlia ho sentito che si lamentava proprio di questo, che tu sei troppo apprensiva, che la tempesti di domande su dove è stata e cosa ha fatto, con chi è stata, eccetera eccetera. E che ti agiti troppo anche per il più piccolo suo ritardo».
Le ho detto che per me è normale preoccuparmi se mia figlia sedicenne fa tardi, se non torna a casa all’ora stabilita. Ma lei mi ha risposto che quando le ragazze si trovano insieme per chiacchierare tra loro, è naturale che si distraggano e perdano la cognizione del tempo.
«Tu com’eri alla sua età. Te lo ricordi?» Mi ha chiesto all’improvviso.
Non le ho risposto e con la scusa che si era fatto tardi ci siamo alzate e salutate.
Ma adesso, mentre aspetto Daniela, questa domanda mi torna in mente: com’ero io alla sua età? Senza volerlo chiudo gli occhi e torno indietro nel tempo.
Ero l’ultima di quattro sorelle. Nata quando mia madre ormai credeva di aver chiuso con le gravidanze e sperava che almeno sarei stata il bastone della sua vecchiaia. Invece, per un certo periodo fui la sua disperazione. Le mie sorelle sono state delle brave ragazze, giudiziose, studiose, obbedienti e si sono sposate con dei ragazzi modello. Invece io ero esattamente il loro l’opposto: a scuola venivo promossa sempre per il rotto della cuffia. Non mi andava di starmene chiusa in casa a studiare e detestavo aiutare mia madre nei lavori domestici. Ero una ribelle. Ma soprattutto ricordo la fatica che facevo la sera per convincerla a lasciarmi uscire, che mi concedesse un po’ di libertà. Mia madre però rimaneva irremovibile. Salda nei suoi propositi.
«Anna, non insistere. Ho detto no ed è no. Potrai fare quello che vuoi quando sarai maggiorenne. Adesso no». Mi rispondeva.
«Ma mamma, perché le mie amiche hanno il permesso di uscire la sera?» Insistevo.
«A me non interessa quello che fanno le tue amiche e ciò che permettono le loro madri. Di notte è tutto un pericolo e non ci vuole niente perché ti possa succedere qualcosa di brutto». E così si chiudeva il discorso. Lei tornava a guardare la televisione ed io andavo a chiudermi in camera mia.
Qualche volta le chiedevo cosa lei intendesse per brutto, ma lei mi rispondeva di smetterla di farle domande cretine e di pensare invece a studiare. Non c’era verso di farle cambiare idea ed ero costretta a fare come diceva lei. Almeno sino al giorno che conobbi un ragazzo, Valerio. Aveva un anno più di me e frequentava un’altra classe. Tra noi nacque una simpatia e per incontrarlo, oltre l’orario delle lezioni e l’estate, escogitammo uno stratagemma. Subito dopo cena aiutavo mia madre a sparecchiare, poi, con la scusa che avevo sonno, andavo in camera mia e lì aspettavo di sentire i miei andare a letto. Per fortuna la mattina si dovevano alzare di buon ora per andare al lavoro e così si coricavano presto. Quando ero certa che si fossero addormentati, aprivo piano la finestra della mia camera, al piano terra della villetta e con un salto sgattaiolavo fuori. Arrivata al cancello trovavo Valerio che mi stava aspettando in sella al suo motorino. A volte raggiungevamo gli amici, a volte preferivamo starcene per conto nostro e fu sulla spiaggia, al riparo di una barca capovolta che feci l’amore per la prima volta…
Rivedo ancora Valerio stendere il telo sulla sabbia. Con dolcezza avvicinarsi a me e baciarmi, e da quel momento entrai nel mondo magico dell’amore. Dopo, restammo sdraiati e abbracciati in silenzio, ascoltando il rumore del mare e il profumo della lavanda selvatica, mentre in lontananza le luci delle lampare si riflettevano sulle nere e lente onde del mare.
Ore 23, 48
Ho freddo e mi tiro su il plaid. Per un attimo mi crogiolo ancora in quelle immagini che avevo relegato in un angolo remoto della mia mente e che l’attesa ha riportato a galla.
Quelle sensazioni provate più di venticinque anni fa sono tornate più vivide e chiare che mai, come se da allora fossero trascorsi solo pochi mesi. Quella fu davvero una magnifica estate, forse la più bella di tutta la mia vita, perché, in seguito, quella spensieratezza, quella fragile incoscienza, non sarebbero più tornate.
Fu verso l’inizio dell’autunno che mia madre venne a conoscenza delle mie scappatelle. Era quasi ottobre ormai, e la notte cominciava a rinfrescare. Preoccupata che non prendessi freddo era entrata in camera mia e non trovandomi a letto e vedendo la finestra aperta, aveva capito tutto.
Al ritorno la trovai ad attendermi seduta sul letto e, come le arrivai a tiro, lasciò partire un ceffone. Il primo che mi avesse mai dato. Subito dopo iniziò un lungo ed estenuante interrogatorio, intramezzato da un fiume di rimproveri. Io non cercai neppure di difendermi, non rispondevo, stavo zitta, aspettavo che passasse la sfuriata. Pensavo a Valerio, a quando gli volevo bene. Poi, per qualche minuto la mamma restò a fissarmi in silenzio. Ricordo il suo sguardo triste, il suo volto incredulo, il suo passo lento mentre si avvicinava alla porta, ma soprattutto non dimenticherò mai le parole che mi disse prima di richiudere dietro di se la porta.
«Un giorno anche tu sarai madre, e solo allora capirai il dolore che il tuo comportamento mi sta causando».
Mia madre non c’è più da tempo ormai, ma se potessi, le chiederei scusa per quello che ho fatto da ragazzina e le direi che aveva ragione.
All’apertura della scuola, Valerio non c’era più, aveva seguito la sua famiglia in un’altra città. I primi tempi ci telefonavamo più volte al giorno poi, come spesso accade, i contatti si diradarono e poi si esaurirono del tutto. Chissà dove si trova adesso Valerio. Chissà se qualche volta ripensa a me, a quella timida ragazzina che in una notte stellata si dedicò totalmente a lui.
23, 57
All’improvviso il pensiero di Daniela spazza via i ricordi dalla testa e guardo l’orologio. “Ma è tardissimo”. Un ora di ritardo è troppo. Non è mai capitato, deve essere successo qualcosa.
Controllo di nuovo il cellulare: nessuna chiamata, nessun messaggio. Provo a chiamarla io, niente. Il suo cellulare è spento. Compongo il numero della sua amica, ma nemmeno lei risponde. In preda all’angoscia mi alzo di scatto per andare a svegliare Mauro e assieme andarla a cercare.
Temo che le possa essere successo qualcosa.
Mentre il cuore mi batte all’impazzata mi precipito verso la scala ma inciampo in un mobile e faccio traballare un vaso che cadendo fa un gran fracasso.
Mi sono fatta male ma cerco di riprendere fiato, intanto si sono accese le luci e vedo che in cima alle scale fa capolino Daniela.
«Che sta succedendo mamma?» Mi chiede.
«E tu che ci fai qui?» Le domando, guardando in su e tenendomi il fianco dolorante.
«Mi sono svegliata per il fracasso». Poi realizza quello che ho appena detto, spalanca gli occhi e meravigliata chiede:
«Perché, dove dovrei essere?»
«No, no, scusa. Non mi sono fatta nulla. Solo una botta al fianco, ma guarda che disastro».
Rispondo, facendo finta di niente. Lei intanto è scesa ed ha già cominciato a raccogliere i cocci sparsi per tutta la stanza.
«Ma, com’è che non ti ho sentita rientrare? Che ore sono?» Le chiedo.
«Quando sono tornata tu dormivi sul divano e non ho voluto svegliarti: Ho preso il plaid e ti ho coperta». Ah, ecco, allora la mia non è stata amnesia. Mi aveva coperto lei.
Daniela è rientrata senza che io me ne accorgessi e ha pensato di lasciarmi dormire, come del resto mi capita spesso, davanti al televisore.
Ore 00,21
Dopo aver bevuto assieme un bicchiere d’acqua e strofinato con una crema l’anca che mi fa ancora male (forse avrei dovuto metterci su anche del ghiaccio), decidiamo di andare finalmente a dormire.
«Grazie, tesoro». Le sussurro, quando arriviamo davanti alle porte delle nostre stanze.
«Per cosa?» Mi chiede, guardandomi stupita.
«Grazie per l’aiuto, per l’acqua, per la pomata, per … per… per essere così, come sei».
Le rispondo. Lei inarca le sopracciglia, mi guarda pensierosa, come se la botta l’avessi presa in testa e non all’anca. Sembra sul punto di dirmi qualcosa, ma ci ripensa, sorride, mi dice solo buona notte e poi richiude dietro di se la porta della camera sua.
«Tutto a posto? Finalmente possiamo dormire?» Mi chiede Mauro, girandosi nel letto.
«Ma allora sei sveglio». Dico stupita.
«Mi hai svegliato tu con tutto quel baccano che hai fatto». Mi risponde.
«E perché non sei venuto a vedere cos’era successo? Potevo essermi fatta male» Gli dico.
«Veramente mi sono alzato, ma Daniela mi ha preceduto. Poi vi ho viste confabulare in cucina e ridevate. Neanche vi siete accorte di me…Non ti sei fatta male, vero?»
«No. Tutto a posto. Ma adesso dormiamo. Buona notte». Gli rispondo.
La casa è tornata nel buio e nel silenzio, ed io cerco la posizione migliore per alleviare il dolore all’anca.
Il suono della mia voce non si è ancora spento che già sento il respiro di Mauro farsi pesante. Sorrido, e mi abbandono serenamente al sonno, pensando che sono una donna veramente fortunata ad avere una famiglia così come la mia.



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