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LA TERZA ETÀ

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

7
MAG
2018

C’è una parola che mi ha sempre dato fastidio sentir pronunciare o vederla scritta sui giornali: anziano.
A quale età si definisce anziana una persona? Come ci si regola nella suddivisione delle stagioni della vita? Se l’adolescenza si può circoscrivere in pochi anni, ben definiti, come ci si deve regolare con l’anzianità? Indicativamente quando inizia? Tra i sessanta e i settant’anni?
E non posso fare a meno di pensare a tutte quelle persone famose, attori, attrici, cantanti, politici e via dicendo che hanno raggiunto questa età ma che nessuno si azzarderebbe a chiamarle anziane. Nessuna testata giornalistica o televisiva lo farebbe, non si permetterebbero mai. Queste persone rimangono sempre nell’immaginario collettivo il signore e la signora tal dei tali. Invece un povero diavolo settantenne, che magari per sua disgrazia è stato investito da un pirata della strada, li stessi mezzi d’informazione danno la notizia così: Stamane un “anziano” è stato investito da un auto mentre attraversava la strada sulle strisce pedonali…
Personalmente il problema non mi tocca, perché io da un pezzo ho superato gli ottanta e sono nel pieno di quella che viene definita la terza età: una definizione che non mi dispiace e che trovo anche appropriata, se attribuita a questa fase della vita.
E mi ritengo fortunato perché godo ancora di tutte le mie facoltà fisiche e mentali. La testa, e la memoria, in particolare, non hanno dato ancora nessun cenno di cedimento; ho qualche acciacco, questi sì, ma pazienza e ho perso anche il conto di quante pillole prendo durante il giorno: la prima al mattino appena alzato per tenere sotto controllo la pressione arteriosa, poi una per i dolori reumatici, dopo i pasti un’altra per agevolare la digestione e ancora un’altra prima di andare a letto, e questa per poter dormire almeno quattro ore di fila. Ma non posso lamentarmi, se non conto i fastidiosi acciacchi dell’età: ad esempio la vista che non è più quella di una volta e i calcoli alla cistifellea che rallentano la mia digestione, ma per il resto sto bene e vado ancora tutti i giorni in bicicletta, anzi, è il mio unico mezzo di locomozione sia d’inverno sia d’estate, perché pedalare mi fa sentire bene. E sono anche socio di un circolo ricreativo che organizza ciclopasseggiate e spesso, quando usciamo in comitiva, mi capita di dover rallentare per aspettare gli altri. Poi, per tenermi in forma mi dedico all’orto e alla vigna e sto anche attento all’alimentazione, ma a questa pensa mia moglie che mi tiene a stecchetto.
Viviamo da soli qui in paese, nella casa dove sono nato, mentre i nostri tre figli, che sono sposati e hanno le loro famiglie, vivono in città. Sarebbe stato bello continuare a vivere tutti assieme, la casa è grande ma come si fa, hanno i loro impegni e i nipoti le loro esigenze.
Io e mia moglie ci siamo dunque rassegnati ad andare avanti da soli: lei cucina e cura la casa e io mi dedico all’orticello, alla piccola vigna e alla casetta in campagna. Solo un paio di volte l’anno mia moglie fa venire qualcuno per farsi aiutare e solo per le grandi pulizie, e anch’io, in particolare nel periodo della vendemmia, chiamo a raccolta figli e nipoti, ma per il resto dell’anno ce la siamo sempre cavata bene noi due da soli.
Fino a qualche tempo fa, dunque, non avevo bisogno dell’aiuto di nessuno, ero del tutto autonomo e mia moglie, che con l’età mi segue da vicino e ha qualche acciacco più di me, mi è sempre stata vicino e mi ha sempre aiutato a seguire scrupolosamente le cure che il nostro medico mi prescrive. Ma ecco che un giorno il diavolo si è divertito a metterci la coda: mentre stavo nell’orto e mi accingevo a salire sulla scala per raccogliere le prime albicocche, il ramo ha prima scricchiolato e poi ha ceduto. Io ho cercato di aggrapparmi al tronco ma non c’è stato niente da fare, sono caduto e mi sono fratturato il femore. Credevo di essere stato fortunato perché non avevo battuto la testa, ma il dolore alla gamba mi ha quasi tolto il respiro.
Per fortuna mia moglie era alla finestra ed è venuta ad aiutarmi, ha chiamato subito i soccorsi che con l’ambulanza mi hanno portato all’ospedale. Un mese immobile nel letto ed è stata la fine delle mie pedalate e anche della mia indipendenza.
I primi giorni, dopo essere stato dimesso, i miei figli venivano spesso a trovarmi e si prendevano cura di me, ma quando videro che le cose stavano andando per le lunghe, cominciarono a pensare a soluzioni diverse. Iniziarono col dire che da solo non potevo più stare; che la mamma non ce la faceva più ad assistermi; che avevo bisogno di assistenza e cominciarono a far circolare per casa quella parola che non avrei mai voluto sentir nominare: badante.
«Così non possiamo andare avanti, papà. Hai sempre fatto di testa tua ma adesso devi rassegnarti a lasciarti aiutare». Mi dissero i miei figli, e aggiunsero che avevo bisogno di una persona che mi assistesse giorno e notte; che sapesse fare le iniezioni e che mi aiutasse nella riabilitazione. Parole più che giuste le loro, legittime e che non facevano una piega, e così, seppure a malincuore, dovetti rassegnarmi che un’estranea iniziasse ad occuparsi di me: Alina, una ragazza ungherese, diplomata infermiera che appena entrò in casa si tolse il cappotto e depose la valigia con gesto consumato.
Alina era una ragazza capace e volonterosa, tuttavia mi dava fastidio sentire la sua voce straniera rimbalzare per casa, e mi dava anche fastidio che mi desse del tu e mi chiamasse nonno.
«Appena mi sarò rimesso e tornerò a badare a me stesso, questa se ne va».
Dicevo a mia moglie, e anche ai miei figli quando venivano a trovarmi. Naturalmente loro non erano assolutamente d’accordo, e nemmeno mia moglie lo era, ma io insistevo che l’ungherese se ne doveva andare al più presto.
Intanto le settimane si succedevano e Alina continuava a farmi da badante e, se non si occupava di me, dava una mano a mia moglie nelle faccende domestiche. E non potevo fare a meno di pensare che la vita è una ruota che gira: si è bambini e si ha bisogno di qualcuno che ci accudisca, che ci aiuti a crescere, poi si diventa autonomi ma a un certo punto ci si ritrova nella situazione di partenza. Sia all’inizio sia alla fine della vita, ci si ritrova con gli stessi bisogni, ma lo stato d’animo è decisamente diverso.
Con l’avanzare degli anni, mi ero augurato una vecchiaia tranquilla, serena, indipendente e soprattutto senza preoccupazioni. Meno male che, se non fosse per questo femore che tarda a voler guarire, la salute non mi manca e nello stesso tempo, con l’aiuto di Alina, riesco a risparmiare preoccupazioni ai miei figli. Ma più tempo passa più mi rendo conto che a causa dell’età e della fragilità delle mie ossa, difficilmente potrò tornare quello che ero una volta.
Alina è una ragazza molto riservata, parla pochissimo e di se non dice nulla, e io sono rispettoso nei suoi confronti, ma intuisco che la sua vita non è stata facile. La mattina si mette d’accordo con mia moglie ed esce molto presto per fare la spesa. A volte ritarda a tornare a casa e allora penso che vada per i fatti suoi, ma è così giovane che mezz’ora di ritardo si può anche accettare e perdonare.
Dopo un mese, sono ancora costretto a farmi aiutare da lei, e se ho voglia di camminare mi devo aiutare con le stampelle. Sono stato costretto a trascurare l’orto e la vigna, né posso andare al circolo o la domenica a messa, ma soprattutto mi pesa non poter andare in bicicletta.
Un pomeriggio è venuto a trovarmi don Romano, il parroco della mia parrocchia. Mi ha chiesto come stessi, mi ha portato l’eucarestia e quando siamo rimasti soli mi ha detto di Alina.
«Antonio, ti devo mettere al corrente di una cosa importante, ti devo parlare della tua badante che viene ogni mattina in chiesa, si inginocchia in un banco, prega con la testa appoggiata alle mani giunte e prima di andare via accende un cero alla Madonna. È molto religiosa sai, così un giorno mi sono avvicinato e lei mi ha parlato dei suoi problemi. Mi ha detto che è molto preoccupata per il figlioletto che ha lasciato nel suo Paese. È affetto da una grave malattia e ha bisogno di costose e costanti cure, ma lei purtroppo è costretta qui per mandare i soldi a casa».
Quelle parole mi toccarono molto e don Romano se ne accorse e mi chiese se aveva fatto male a parlarmene.
«No, no, don Romano, hai fatto bene a dirmelo. Solo che da quando Alina è qui io non ho fatto altro che aspettare il momento per potermi liberare di lei. E questo perché non ho mai accettato di dover essere accudito da nessuno, figurarsi da un’estranea, poi».
«Be’, questo da parte tua è anche legittimo, Antonio. Ma te ne ho parlato perché Alina è proprio questo che teme. Ormai sei in via di guarigione e sa che tra poco non avrai più bisogno di lei e allora si sta preoccupando, ha paura di perdere il lavoro e così di non riuscire più a mandare i soldi a casa per il figlio».
«Questo io non lo sapevo, ma quello che mi stai dicendo è un grosso problema».
«Io le ho detto di non disperare, che l’avrei aiutata a trovare un altro lavoro, che avrei messo in giro la voce, che avrei cercato qualche altra famiglia con una persona bisognosa d’assistenza. Le ho detto di stare tranquilla, di pregare, di affidarsi alla carità cristiana, e di stare calma che sicuramente qualcuno sarebbe venuto in suo aiuto». Mi rispose don Romano.
«È un bel problema, perché pensavo di dirglielo proprio questo fine mese che non avevo più bisogno di lei, intendevo dargli quanto le spettava e poi mandarla via. Ma adesso, come si fa? Quanto dovrà aspettare per trovare un altro lavoro, e intanto dove andrà?»
«Antonio, mi spiace averti turbato, ma ti dico anche che tu non puoi farti carico dei problemi degli altri. Io te ne ho parlato solo perché so che sei un buon cristiano e per chiederti se magari conoscevi qualche altra famiglia che potrebbe avere bisogno di lei». Detto questo, don Romano mi prese le mani tra le sue e me le strinse forte.
«Non voglio farmi carico di tutti gli altri, questo no, ma di questa povera ragazza. Ormai lei fa quasi parte della famiglia». Gli ho risposto.
«E che vorresti fare Antonio?»
«Ancora non lo so, ma adesso ne parlo con mia moglie, che l’ha accolta molto bene in casa ed è tanto contenta di lei. Ne parleremo assieme e troveremo una soluzione, magari la terremo qui con noi sino a quando non troverà di meglio, così potrà continuare a mandare i soldi a casa e questo non lo faccio solo per lei e suo figlio, ma anche per noi che, diciamoci la verità, non siamo più giovincelli e abbiamo bisogno di continuo aiuto».
«Tu sei una persona molto buona, Antonio, e il Signore te ne renderà merito».
«Non so se sono buono, ma spero che il Signore si ricordi di me, don Romano. Ma quello che è certo è che, anche se sono un vecchio brontolone e non voglio ammetterlo, quando sento che una persona soffre e ha bisogno di aiuto, io non posso fare a meno di preoccuparmi».
Avevo appena finito di parlare che Alina era entrata nella stanza, pronta a farmi l’iniezione sulla pancia e allora don Romano si alzò in piedi.
«Bene, allora caro Antonio ci vediamo, torno la settimana prossima e ti porto l’eucarestia».
«No, don Romano, ho pensato che con l’aiuto di Alina posso farcela e venire io in chiesa. Magari non alla messa delle dieci, quella cantata, ma quella delle sei, così in un’ora al massimo sarei di nuovo a casa. Sai, ancora non me la sento di stare in piedi per molto tempo».
«Ma se vuoi venire in chiesa, ti mando io a prendere con la sedia a rotelle, così potrai stare comodo per tutta la durata della messa e durante il tragitto non ti stancheresti».
«Questo mai. La carrozzella proprio no. Ti ho detto che mi farò aiutare da Alina e verrò per la prima messa».
Andato via don Romano, fermai Alina e mi feci spiegare bene la sua situazione, Le chiesi di quale malattia soffrisse il figlio, dove si trovasse e chi si stesse occupando di lui. Mi spiegò che stava con sua madre e che il bambino spesso doveva essere ricoverato per l’acuirsi della malattia e che i medici le avevano detto che prima dell’adolescenza doveva essere operato per eliminare la malformazione al cuore.
La guardai negli occhi e le dissi di stare tranquilla, che una soluzione l’avremmo trovata di sicuro. Lei sorrise e mi ringraziò con le lacrime agli occhi. Rimasto solo chiamai mia moglie per raccontarle quello che mi aveva detto don Romano e quello che mi aveva detto Alina, ma lei si mise le mani sul petto e ancora prima che cominciassi a parlare mi disse:
«So tutto Antonio, Alina me ne ha parlato e io ho riferito tutto a don Romano, ma a te non sapevo come dirlo e allora l’ho pregato di venire qui a parlartene».
Mi stavo quasi per arrabbiare, perché mi sentivo la vittima di un complotto, ma poi ci mettemmo a ragionare e con calma trovammo la soluzione.
Alla fine chiamammo Alina e le dicemmo che a noi avrebbe fatto piacere se fosse rimasta ancora con noi, non solo, le dicemmo che le avremmo dato i soldi per tornare nel suo Paese a prendere il suo bambino e portarlo qui da noi che lo avremmo fatto visitare nell’ospedale pediatrico nella nostra città. Mia moglie chiamò anche i miei figli, che erano al corrente di tutto, perché provvedessero a richiedere i necessari permessi e per prenotare i voli.
Alina partì per l’Ungheria la settimana successiva e dopo quindici giorni tornò a casa nostra con il figlio Igor che dopo un breve periodo di ambientamento venne ricoverato in ospedale e subito operato per eliminare la deformazione cardiaca.
Ora il piccolo si è ripreso, sta finalmente bene e per me è una gioia vederlo gironzolare per casa e sentirmi chiamare: nagyapa. Ma io lo rimprovero e gli dico di non parlarmi in ungherese, perché è una lingua che non conosco, allora lui mi sorride e mi dice:
«Sì nonno. Va bene nonno Antonio».
Sono trascorsi due anni e Alina e suo figlio stanno ancora con noi e sono diventati parte della nostra famiglia, mentre io, finalmente, ho ripreso ad andare in bicicletta e anche a coltivare l’orto, ma per raccogliere le primizie non salgo più sulla scala, chiamo Igor, che riesce a salire sugli alberi senza bisogno della scala.



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