Le novità dell’Unione Europea post Fondi Strutturali Europei. Strategie di rete e cultura progettuale per il Terzo settore, anima di una nazione depressa
«L’Italia nel 2030 sarà un paese con 15 milioni di senza reddito o di lavoratori poveri, precari ma ugualmente bisognosi di servizi, assistenza, cultura. Saranno il frutto di questa depressione lunga che mangia il lavoro e le vite da ormai quattro anni. Il settore pubblico, la politica, probabilmente non avrà mezzi per sostenerli. Il Terzo Settore dovrà prenderne il posto inventando soluzioni low cost.» Così nel suo primo intervento il professore Salvatore D’Alesio, esperto di finanza comunitaria con doppio incarico tra le università di Bari e Camerino. L’occasione, una serata voluta dal Centro Servizi per il volontariato (CSV in sigla) ‘San Nicola’ della provincia di Bari per spiegare cosa avverrà dall’1 gennaio 2014, momento finale della lunga stagione dei Fondi strutturali europei (FSE).
Lunga e parzialmente onorata la storia dei FSE, pensati dopo la Seconda Guerra Mondiale per la coesione sociale. Erano il simbolo di un patto di solidarietà tra i popoli europei in risposta agli abomini delle guerre. Quelle provvidenze economiche ‘a fondo perduto’ avrebbero dovuto avvicinare nel benessere diffuso i vari coinquilini del Vecchio Continente: i Fondi rappresentarono la parte centrale di una strategia politica che prese le mosse con il Patto di Roma del 1958 e furono attuati dal 1962. Epilogo per l’Italia. I famosi o famigerati FSE si dividevano in fondi FESR (Fondo Europeo per lo Sviluppo regionale), FEOGA (Fondo europeo agricolo di Orientamento e Garanzia) e SFO (Strumento finanziario di Orientamento per la Pesca): l’ultimo settennato di fondi, iniziato a Capodanno del 2007, ha ora i mesi contati.
Negli ultimi dieci anni l’Italia ha attinto soltanto al 7% di quanto poteva ottenere dai FSE. Perché? Errori, miopia e inettitudine delle istituzioni, mancata informazione verso i poteri locali e tra questi e i mondi dell’imprenditoria e dei soggetti sociali. Tanto per citare qualcuna delle concause, il professor D’Alesio parla di “poche partnership con le università e con soggetti di altre nazioni europee”. Tra breve il carrozzone degli aiuti comunitari si sposterà verso le ultime entrate tra le ventotto nazioni dell’area Unione Europea. Al suo posto per l’Italia la novità si chiamerà ‘Horizon 2020’: a essa spetterà “scaricare, impegnare 87 miliardi di euro sul fronte dell’innovazione e della ricerca”. Orizzonte 2020 erogherà finanziamenti su tre macro aree: “Per garantire il primato dell'Europa nel settore scientifico, per l'innovazione dell'industria europea, specie a favore delle piccole imprese, infine per affrontare le sfide globali in ambito sociale e ambientale”. Perderemo anche questi nuovi fondi?
No se riusciremo finalmente a “creare una ‘cultura del progetto’, dando maggiore centralità al Terzo settore”, spiega D’Alesio alla platea accaldata in un pomeriggio barese. In questo scenario il mondo del volontariato dovrebbe riuscire a creare posti di lavoro, dando risposte occupazionali ai soggetti in libera uscita dai settori dei servizi, del commercio, dell’industria e dell’agricoltura. Sarà un nuovo mercato, quello italiano, a forte impronta sociale, anche se fatto di persone con un reddito modesto. “Aumenterà la fiducia tra persone, la solidarietà, sarà attuato forse per davvero il principio di sussidiarietà”, tanto caro al mondo cattolico. Chi pagherà questi servizi creati dal settore del no profit? Difficile prevederlo da subito, ma già ora solo il 36% delle organizzazione non commerciali vive di sussidi elargiti da pubbliche amministrazioni.
Al lungo incontro di qualche sera fa gli organizzatori del locale CSV – organismo decentrato previsto in ogni provincia dalla legge 266 che dettò le regole in materia di volontariato nel 1991 – hanno dato la parola anche a Fabrizio Melorio dell’Istituto Don Sturzo di Roma. E con lui si è continuato a parlare di smart community, di progetti da scrivere e da attuare. “Serve fare sistema, alleanze, partenariati, reti. Il Terzo settore dovrà dialogare con le aziende e l’università”. L’invito di Melorio è di formare giovani progettisti e di imparare a scriverli questi benedetti progetti, mettere sulla carta le idee che pur ci sono.
Infine, è stata la volta degli interventi del posto, delle chiome argentate che hanno popolato la sala del noto albergo in Via Capruzzi per questa conferenza di approfondimento. Tutti i nodi vengono al pettine: tra le difficoltà evocate da dirigenti di associazioni e cooperative presenti emergono l’età avanzata del popolo dei volontari, in linea con il resto d’Italia, che vede maggiormente attivi gli ultra-quarantenni, non fosse altro perché forse hanno avuto già modo di imboccare una precisa strada di vita. Degni di nota gli sfoghi sulla mancanza di conoscenza e di informazione, sulla farraginosità dei formulari burocratici per attingere ai fondi, sulla difficoltà di fare rete, a causa dei personalismi di cui sono malate certi enti ‘senza fine di lucro’, e infatti già oggi sono 795 le organizzazioni di volontariato a Bari e provincia.
La prospettiva auspicata nelle conclusioni è quella dei project financing, dell’intervento imprenditoriale per gestire servizi che il settore pubblico non potrà più garantire. Le unioni di comuni potranno limitare i danni, spalmando su aree vaste i servizi impossibili da sostenere per i piccoli municipi indebitati. Un caso di successo su tutti merita il finale: si tratta di un raggruppamento di associazioni di Santeramo in Colle, che ha messo su una rete antiviolenza chiamata ‘Linea Azzurra’, vincitrice di un finanziamento della ‘Fondazione con il Sud’: qualcuno nel pubblico storce il naso, perché questa fondazione è foraggiata da banche, le bestie nere apparentemente in un consesso di questo tipo. Almeno fino ad ora.