Anna e Daniela Cassano
In nome del padre
A otto anni dalla morte, le figlie ricordano l’imprenditore Lino Cassano. Dagli inizi come ambulante all’affermazione dell’azienda, dalla Gandalf al Martina calcio, l’avventura professionale e umana di uno dei martinesi più amati (e chiacchierati) degli ultimi anni
Il 16 agosto di otto anni fa la tranquilla serata ferragostana martinese veniva turbata da una notizia che in molti sperarono fino alla fine essere una voce malevola messa in giro sul suo conto: è morto Lino Cassano. Fondatore e timoniere, con i fratelli Giovanni e Angelo, dell’azienda leader nelle importazioni di casalinghi e giocattoli, la General Trade, venne stroncato da un infarto, proprio mentre parlava del Martina, una delle sue passioni, insieme a quella per la musica classica e l’arte in genere.
E dell’uomo Lino Cassano, della sua storia e delle sue passioni abbiamo voluto parlare con le figlie Anna e Daniela, ora a capo della Golden Hill, azienda creata da Lino, Giovanni e Angelo Cassano a mo’ di palestra per i propri figli che hanno così potuto misurarsi con il mercato svolgendo in tempi diversi, mansioni diverse.
I primissimi passi, fatti sotto gli occhi attenti e premurosi dei genitori, furono mossi da Daniela e Mino Cassano mentre ora, a seguito di una serie di vicissitudini, motore e anima dell’azienda sono appunto solo Anna e Daniela. La scelta di creare una nuova azienda - in fondo la Golden Hill si può considerare una costola della General Trade - fu dovuta anche al fatto di preservare quest’ultima da eventuali errori che i “ragazzi” avrebbero potuto commettere nei rapporti con il “pacchetto clienti” creato in tanti anni di duro lavoro. Allora, come racconta Daniela: «i nostri genitori ci “sfidarono” a iniziare tutto da capo, decisione non solo condivisa da subito, ma che nel tempo si è rivelata più che azzeccata. “fosse state uomini” – diceva papà – “vi avrei fatto cominciare con lo scaricare i camion!” Questa scelta nasceva dall’esperienza di chi fin da piccolissimo si misurava con il mercato reale del commercio ambulante».
Chi era Lino Cassano?
Daniela: «Un uomo che ha sempre voluto camminare a testa alta con grande dignità, così come i fratelli, insieme ai quali ha lottato fin da piccolo partendo da situazioni non certo di privilegio. Orfano di madre da piccolissimo, ha sempre dovuto lavorare condividendo con il papà Giuseppe ed i fratelli le problematiche del quotidiano. Era una persona attentissima che aveva una propensione naturale per i rapporti sociali. Era in grado di entrare in empatia con gli altri subito dopo aver scambiato poche battute. In molti casi, prima che un cliente o un fornitore, era un amico, un confidente. In tanti chiamavano anche a tarda sera per sentirsi con lui e chiedere consigli, a volte anche sulla vita privata. E lui era sempre disponibile. Prima che di affari, i loro rapporti erano diventati di amicizia. Lui non dava per ricevere, dava a prescindere. Sapeva distinguere bene gli amici veri dalle persone che in qualche modo tentavano di usarlo prendendo da quest’ultime le distanze ma sempre con il suo solito garbo. Io non ricordo che mio padre abbia mai litigato con qualcuno. Con noi era severo in modo “particolare” infatti bastava un solo sguardo e la nostra punizione era comprendere di averlo deluso. Mi piace ricordare mio padre come una persona allegra, solare, che amava i colori e a volte lo mostrava anche nel modo di vestire… motivo per il quale mia sorella Anna a volte lo prendeva in giro!».
Anna: «Un padre a casa presente pochissimo fisicamente, ma sempre attento a tutto. Ti leggeva nel pensiero, era una persona molto premurosa. Sempre impegnato tra lavoro e tante altre attività che riusciva a gestire al contempo in maniera egregia. Spesso mi chiedo come facesse, vorrei tanto esserne capace anch’io! È stato un imprenditore lungimirante e con lui si confrontavano anche politici di vari schieramenti. Aveva la capacità di andare oltre, di non fermarsi al presente. Aveva in mente sempre nuove idee da realizzare dopo un anno, due o nel momento più favorevole. Eppure aveva una ricca vita sociale, tante conoscenze. La sua giornata doveva iniziare sempre con un caffè con gli amici sullo stradone; “devo farmi due risate” diceva, e poi era una continua full immersion nel lavoro e negli impegni».
Una personalità forte…
Daniela: «Nostro padre ha sempre creduto in quello che faceva anche se a volte, purtroppo, il progetto non si concretizzava o per diversi motivi non dava il risultato sperato. Aveva un grande obiettivo: lo sviluppo del nostro territorio. Per esempio il caso Gandalf, la compagnia aerea nella quale volle investire. Lui sosteneva che Taranto e l’intera provincia, penalizzati in ogni tipo di collegamento, avevano bisogno di uno scalo aereo efficiente (Grottaglie, n.d.r.) che avrebbe dato una forte mano allo sviluppo del territorio e delle imprese. Purtroppo poi le cose non andarono per il verso giusto ma l’esigenza avvertita allora è stata in seguito condivisa da molti altri e questa è cronaca dei giorni nostri. Il territorio era presente in ogni argomento di conversazione e ogni occasione era buona per parlarne. Anche nel momento di scegliere il nome alla nuova azienda, chiese a me e ai miei cugini Mino e Arianna di trovare un richiamo al territorio. Così venne fuori Golden Hill (collina dorata, n.d.r.) un nome di buon auspicio per la nostra città collinare».
Che cosa è successo alla morte di vostro padre?
Daniela: «I primi tempi abbiamo sofferto tantissimo perché perdere un padre così all’improvviso è un dolore incommensurabile. La sua presenza poi era molto “forte” e noi ci siamo sentiti completamente vuoti. Ma dopo quindici giorni ci siamo imposti di far finta che non fosse accaduto niente, perché ci aspettava un’importante fiera a Milano e non esserci sarebbe sembrato un abbandono. Invece papà ci aveva sempre mostrato anche nei momenti di lutto che la vita andava avanti. Fortunatamente aveva avuto la capacità di delegare e di creare una squadra capace di andare avanti senza di lui. Così siamo andati ugualmente a Milano con mio zio Giovanni, che era sconvolto di dolore. Lì abbiamo avuto tantissimi attestati di stima, nonostante qualcuno iniziasse già a sollevare dubbi sulla sorte della General Trade. Sempre sorridenti, sembravamo forti, mentre in realtà volevamo essere da tutt’altra parte. Ed è stato allora che ho capito il comportamento di mio padre, quando in occasione della morte della nonna era sorridente e gioviale con tutti. Io mi chiedevo: ma non soffre? Non riuscivo a spiegarmi il suo comportamento. Invece lui soffriva quanto noi, ma ci faceva forza e non voleva farci pesare anche il suo dolore».
E’ difficile portare il vostro cognome?
Anna: «Certo, non è facile, soprattutto quando si è vittime della cattiveria gratuita della gente che dice e fa cose pazzesche. Per esempio, vorrei raccontare un episodio emblematico. Il fratello di mia madre aveva un ristorante, che in occasione del Natale chiudeva al pubblico perché lì ci riunivamo fino a sera con la nostra numerosa famiglia, per pranzare, scambiarci i regali e giocare a tombola. Un anno, papà, da qualche giorno a letto con la febbre, ci raggiunse solo per il pranzo di Natale. Mai avrebbe rinunciato a condividere con la sua famiglia un giorno così importante, eppure tornò a casa subito, perché davvero non si reggeva in piedi. Nonostante non stesse affatto bene, quella sera andò a fare la sua solita passeggiata sullo “Stradone”. Solo alcuni giorni dopo abbiamo saputo il perché di quel gesto: qualcuno aveva messo in giro la voce che Lino Cassano era stato arrestato per via di traffici illeciti. Una delle tante voci malevoli messe in giro per danneggiare il nostro nome. Mio padre soffriva solo al pensiero che qualcuno, con tanta cattiveria, potesse mettere in giro certe voci. Quando eravamo piccole le frasi che sentivamo più di frequente erano: “Chissà cosa fanno quelli”; “chissà cosa c’è sotto”. E sotto c’era e c’è solo tanto lavoro».
Daniela: «Io ho brutti ricordi della mia adolescenza perché in molti casi il nostro non era un cognome, ma un’etichetta. Così in più di un’occasione, ingiustamente ma pentendomene subito, gridavo a mio padre che avrei preferito non essere sua figlia. Venivamo considerati in maniera diversa, come persone prive di sensibilità e incapaci di comprendere i problemi degli altri. Eppure noi eravamo e siamo come tutti gli altri. Mio padre ha sofferto tanto per questo, perché lui ha sempre lavorato così, tutto quello che abbiamo è solo frutto di anni e anni di lavoro. E se nel tempo la nostra famiglia ha raggiunto determinati risultati, questo non può essere visto come una colpa».
In Perù un asilo porta il nome di vostra nonna.
Anna: «Sì, è l’asilo “Mamma Anna”, la mamma che loro hanno perso quando erano bambini. Mio padre, come del resto i fratelli, è sempre stato vicino alle istituzioni religiose, per questo ha accolto con grande entusiasmo l’invito di un parroco a realizzare qualcosa per i bambini del Perù. Pur non essendo un cattolico molto praticante papà aveva una fede profonda, la stessa che aiutò lui e i miei zii nei momenti di difficoltà. Perdere la mamma da bambini è una cosa terribile e difficile da superare, e se in quei casi non ti sorregge la fede diventa ancora più problematico».
Parliamo ora della Fondazione Lino Cassano e dei suoi scopi.
Anna: «Prima di tutto, la Fondazione si propone di ricordarlo lasciando un segno tangibile sul territorio. Nello statuto abbiamo voluto che il raggio d’azione fosse locale, proprio perché a nostro padre la sua terra premeva più di qualunque altra cosa. Cerchiamo di fare qualcosa soprattutto per la città. Una delle nostre prerogative, proprio perché papà ci teneva tantissimo, era quella di creare un centro di rianimazione presso l’ospedale di Martina Franca. Lui era molto attento alla salute, tant’è che a ogni suo o nostro minimo dolore si allarmava. Poi il destino beffardo ha voluto che per lui non fosse possibile fare nulla. Diceva sempre che se un martinese avesse avuto bisogno della rianimazione, a Martina non si sarebbe saputo come fare. Abbiamo conosciuto il dott. Rubino, primario di anestesia del locale nosocomio, con il quale abbiamo collaborato prima di arrenderci di fronte a classici e insormontabili impedimenti burocratici. Ma la cosa che ci ha fatto realmente desistere è stato l’apprendere che fare un’opera del genere sarebbe stato inutile poiché quel reparto non sarebbe mai stato dotato del personale necessario a farlo funzionare. Allora, acquistando delle attrezzature, abbiamo voluto contribuire alla realizzazione di alcuni corsi di primo soccorso, organizzati sempre dal dott. Rubino, per qualificare personale sanitario non sempre preparato a gestire il problema».
Come Fondazione siete vicini anche al Festival della Valle d’Itria.
Anna: «Il festival è un evento al quale papà era molto legato. Ricordo una festa che lui volle dare per festeggiare i trent’anni della manifestazione. Quella sera era molto felice. Oggi continuiamo a sostenere questo evento, fiore all’occhiello della nostra città, nell’ottica di fare una cosa gradita a nostro padre. Vogliamo così ricordare il suo nome e non pubblicizzare il nostro o l’azienda».
Daniela: «Abbiamo continuato a fare quello che sicuramente avrebbe fatto lui, per rispetto e anche per una sorta di venerazione nei confronti di nostro padre. Lui si interessava di tante manifestazioni culturali e non faceva mai mancare il suo contributo. Sono sicura che nel tempo, questo interessamento l’avrebbe portato a organizzare qualcosa di suo perché era un grande estimatore di lirica e musica classica. Questa passione per la musica e per l’arte erano qualcosa di innato. Aveva una spiccata sensibilità artistica, sapeva riconoscere immediatamente un quadro di valore da una crosta, pur avendo solo la licenza media. Papà avrebbe tanto voluto continuare gli studi, questo è rimasto sempre il suo grande rimpianto, ma la morte prematura di sua madre, quando aveva solo undici anni ed era il maggiore di quattro figli, l’aveva costretto a lavorare per dare una mano a nostro nonno».
Un ricordo d’infanzia?
Anna: «Ricordo ancora che io ero alle scuole elementari, mio padre veniva a darci il bacio della buonanotte che per lui sarebbe stata molto breve perché prima ancora dell’alba doveva già partire per un mercato o per una fiera. E’ capitato a volte che questo accadesse anche con la neve ed io lo pregavo di restare perché avevo paura per lui. Solo una volta mi ha dato ascolto ed io ne sono stata davvero felice. All’epoca erano commercianti ambulanti. Poi col tempo hanno iniziato prima con l’ingrosso, poi con l’importazione. E’ stata davvero una strada lunga e faticosa quella che hanno percorso. E di lì la convinzione che bisogna sempre partire da zero, come hanno voluto che facessimo noi figli. Sono stati insegnamenti importanti».
C’è qualcosa di particolare, un episodio legato a vostro padre che proprio non riuscite a mandare giù?
Daniela: «Io l’unica amarezza che ho è collegata al mondo del calcio o forse solo al termine “calcio”. Quando papà fu colto da malore e subito dopo morì, parlava di calcio. Sapere che è stato l’ultimo argomento che ha trattato prima di morire mi dà fastidio, soprattutto perché il mancato ripescaggio in serie B a favore della Fiorentina fu un furto e a mio padre proprio non andava giù. Mi sarebbe piaciuto difendere con il coltello tra i denti quello che spettava a Martina Franca, al Martina calcio e a mio padre. Mi sarebbe piaciuto che venisse fatta giustizia e fosse riparato il danno che il Martina aveva subito».
Qual è la cosa più importante che vi ha lasciato vostro padre?
Anna: «I valori... Ci ha insegnato che la famiglia viene prima di tutto, che serve umiltà anche nel lavoro e che bisogna saper dare il giusto valore alle cose. Era il padre che tutti avrebbero voluto, l’amico, il maestro. Tutti sanno che era un uomo molto generoso. Però a Natale, mentre tutti pensavano che la nostra sarebbe stata una festa ricca di giocattoli visto che papà li vendeva, la nostra lunga lista di doni si materializzava in un unico gioco. Era un modo per dirci che le cose non dovevano essere sprecate, andavano guadagnate. Insegnamento che abbiamo capito nel tempo e fatto nostro».
Daniela: «L’eredità più grande di mio padre è la conoscenza di tante persone che gli hanno voluto bene e ancora adesso lo ricordano. Quando mi parlano di lui e mi dicono “tu sei come lui” oppure “siete delle brave persone”, ti si riempie il cuore di gioia perché rivivi lui e tutto quello che ti ha insegnato. E’ una sensazione bellissima».