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HOMO HOMINI LUPUS?

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

24
NOV
2016
Un lettore solleva la questione morale connessa al proverbiale principio « mors tua, vita mea ». Può la competizione tra concorrenti ispirarsi ad una correttezza tale da non suscitare alcun senso di colpa?
 
 
Quello che non mi piace del mio lavoro è che il mio successo implica l’insuccesso di un altro. Non mi piace che nel corso di una causa io debba sempre andare contro qualcun altro, a suo svantaggio. Questo è per me un problema difficilmente risolvibile.
Domanda anonima
 
La sua domanda solleva una vera e propria questione morale, caratterizzata da significative implicazioni psicologiche. Infatti, lo sconforto che la coglie al solo pensiero di poter nuocere, con la sua azione, ad un altro essere umano, afferisce, con tutta evidenza, a ciò che comunemente chiamiamo senso di colpa. 
L’origine di questo sentimento si perde nella storia stessa della nostra specie. L’uomo, per nulla autosufficiente, ha sempre dovuto instaurare con i propri consimili dei rapporti di mutua collaborazione, vantaggiosi ai fini della sopravvivenza del singolo e della collettività. Tale ineludibile necessità ha indotto la nostra specie a sviluppare, nel corso della propria storia evolutiva, dei meccanismi biologici atti a predisporre la coesione sociale: essi, appunto, rispondono rispettivamente al nome di empatia e di senso di colpa.
Il primo meccanismo (l’empatia) consiste nella capacità di provare, seppur in maniera assai attenuata, gli stati d’animo altrui; quindi, sintonizzarsi con l’altro al fine di portare avanti un discorso comune.
Il secondo meccanismo (il senso di colpa) si articola, invece, in due differenti declinazioni. Esso può presentarsi come senso di inadeguatezza nei confronti del Padre, inteso in maniera allegorica quale incarnazione personificata di quel coacervo di precetti morali che vengono interiorizzati nel corso dell’esistenza. D’altronde, il senso di colpa, a prescindere da questa prima dimensione, può anche presentarsi come malessere soggettivo derivante, appunto, dall’empatia: «sto male perché sento, sebbene in maniera attenuata, il dolore che ho procurato».
Ciò premesso, posso ragionevolmente supporre che, nel suo caso specifico, il senso di colpa risulti attivato da un’interpretazione non perfettamente adeguata del contesto in cui lei si trova a svolgere il suo lavoro: sembra, infatti, che lei, nel porre la questione, conferisca (con molto dispiacere) maggiore rilievo all’eventuale danno che potrebbe arrecare alla controparte. E, di certo, tale sbilanciamento la allontana, mentalmente, da ciò che più le dovrebbe importare: la tutela del suo assistito.
Sappia che chi, nell’esercizio di una professione civile, agisce con correttezza, mai arreca danno alcuno, anzi contribuisce, col suo operato, al buon funzionamento della società. Quindi, nel rispetto delle regole, si attenga al suo mandato e si impegni, al limite, ad evitare che venga perpetrato o subito un sopruso. E ricordi sempre che quando si agisce con correttezza l’eventuale danno esperito dalla controparte corrisponde solo ad una mancanza di chi era preposto a difenderla. Spetta a questi non tradire quel che più importa nel vostro lavoro: il rapporto, umano e professionale, con chi in voi ripone fiducia.
 


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