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Qui e ora /La paura e la speranza dopo Berlino

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

29
DIC
2016
Non è possibile pensare che negare aiuto a chi lo chiede, chiudere gli stati in rigidi confini, dividere gli uomini e promuovere guerre sante a sfondo mondiale possa essere la soluzione alla morte di dodici persone che si preparavano al Natale
 
 
Ne abbiamo parlato altre volte su Extra. Lo faremo ancora e continueremo ad affermare sempre la stessa tesi: non c’è relazione tra terrorismo internazionale, rifugiati politici e profughi.
Lo facciamo a pochi giorni da un attentato avvenuto a Berlino dove, il 19 dicembre, Anis Amri, un giovane tunisino, ha causato la morte di 12 persone e il ferimento di 40, dirottando un camion a forte velocità contro un affollato mercatino di Natale.
Anis Amri, 24 anni, alto 178 centimetri, peso circa 75 chili, armato e pericoloso. E’ questa la sua ultima descrizione diramata nel tentativo di fermarlo prima che potesse compiere altri atti criminosi.
Ora è stato fermato. Nella notte del 23 dicembre, a Sesto S. Giovanni, hinterland milanese, durante un normale controllo di routine delle forze dell’ordine, l’attentatore ha estratto una pistola per poi rivolgerla agli agenti, esplodendo un colpo e ferendone uno. A questo è seguita l’azione dei poliziotti che ne hanno causata la morte.
Anis Amri ha posto fine alla sua vita disseminata di atti criminosi e tentativi di sfuggire alla giustizia. Molteplici identità per confondere la sua vera, violenta e instabile.
Lo Stato Islamico ha rivendicato l’attentato terroristico attraverso l’agenzia di stampa Amaq. Ancora una volta l’ISIS dimostra la sua volontà di servirsi di attentatori, kamikaze e milizie scelte fra individui privi di una vita reale, ricercandoli fra le periferie della società. Questa lobby criminale, persegue i suoi interessi economici, ricercando adepti fra le popolazioni più arretrate e fra giovani privi di prospettive, allettandoli con tesi religiose deviate dall’Islam.  
Il dato degno di reale considerazione è che 13 esseri umani hanno perso la vita. Come se non fossero sufficienti i bollettini provenienti dai diversi fronti di guerra, le notizie di cronaca costellate di omicidi per camorra, morti sul lavoro, stragi familiari e infanticidi, molti dei quali fra gente vicina, a volte della stessa comunità. Non si può che provare un profondo sconforto nel sapere che la vita termina per mano dell’uomo con eccessiva ricorrenza e non per il naturale evolversi. E’ difficile accettare che oltre le dodici morti, ci sia un tredicesimo uomo di 24 anni che l’ha causate, così come, ai feriti nell’attentato di Berlino, si è aggiunto un giovane agente di polizia durante lo svolgimento delle sue funzioni. 
Il tragico carosello dei pensieri corre velocemente alla nazionalità dell’attentatore, alle motivazioni del suo gesto, alla sua capacità di spostarsi in Europa con un’arma e compiere un attentato, ai suoi molteplici arresti e rilasci, all’impossibilità di individuare la sua vera identità.
Ancora una volta, la società cosiddetta civile, cercherà l’origine del suo male, rincorrendo iperboliche soluzioni. La prima, la più immediata, la più semplice, è accomunare l’azione criminosa commessa, alla nazionalità e alla religione dell’attentatore. Purtroppo gesti folli come quello di Berlino rinvigoriscono i nazionalismi mitteleuropei pronti a negare l’accoglienza dei profughi provenienti dai luoghi più svantaggiati del mondo, considerandoli vettore del terrorismo internazionale. Se fra i richiedenti asilo ci dovessero essere infiltrati che vertono a scopi differenti, non si può impedire ai profughi di chiedere aiuto imputando loro la colpa di questi rischi. E’ come se si pretendesse la reclusione di chiunque si suppone possa commettere un crimine.
Continua, inesorabile, la paura di vivere.
Noi continueremo ad affermare che l’umanità non è divisa per nazionalità, sesso, razze e religione ma solo per le scelte di vita che si decide d’intraprendere. L’unica distinzione possibile è quella del bene dal male, senza vasti ambiti d’interpretazione. Le convenzioni ideologiche, religiose, politiche ne hanno, ulteriormente, confuso la definizione.   
Sino a quando la vita non verrà considerata il maggiore dei valori sociali, sarà impossibile determinarne le scelte. 
L’attentato di Berlino, tutti i precedenti del recente passato, la guerra in Siria e tante altre, sono un grave insuccesso dell’umanità più che l’azione omicida di fanatici che in un nome di un dio o del denaro sopprimono la vita.
Non è possibile pensare che negare aiuto a chi lo chiede, chiudere gli stati in rigidi confini, dividere gli uomini e promuovere guerre sante a sfondo mondiale, possa essere la soluzione alla morte di dodici persone che si preparavano al Natale. Quel giovane tunisino è stato un bambino come tanti e a noi tocca il compito di comprendere le cause che lo abbiano trasformato in un feroce assassino piuttosto che in un sereno e felice membro della nostra comunità. E come lui le migliaia d’individui che si trasformano in nemici della civiltà. Nello stesso tempo, corre il pensiero a quel giovane agente che, all’esordio della sua carriera, si è imbattuto in un evento che lo segnerà per il resto della vita. Ufficializzare il suo nome definendolo un eroe, non lo aiuterà, così come non servirà a noi celebrare un successo contro il terrorismo.
La morte non è mai un successo. Uccidere per salvare altre vite è comprensibile ma, se è inevitabile, deve assumere un preciso significato e una profonda presa di coscienza.
La fragilità umana e il ricorrente senso d’impotenza verso l’ingiustizia, inducono facilmente l’uomo alla ricerca di vendetta spicciola e massiva ma, la logica, l’etica e le religioni convergono tutte al ragionamento che scaccia la violenza quale soluzione.
L’umanità è affetta da un male profondo che riesce a generare piccole e grandi guerre finalizzate al successo di pochi uomini che hanno imparato a servirsi di molti altri per raggiungere i propri scopi.
La conoscenza, la bellezza, l’amore sono le uniche armi per salvare l’umanità da ignoranza, orrore e odio. Solo quando saranno davvero diffuse, un uomo, per sopravvivere, non sarà costretto a ucciderne un altro.
 


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