Lo spunto nasce dall’aver letto che nel XVII secolo un certo Vincenzo Tanara, esperto di cose rustiche, consigliava – riportando fantasie contadine che speriamo nessuno abbia mai messo in pratica – di ungere con il grasso di gatto i formaggi in conservazione per tenere lontani i topi. Ebbene, sia io che i miei gatti abbiamo tremato per attimo e ringraziato di vivere hic et nunc.
Perché a noi di casa ce piace il formaggio, tanto, almeno in maniera inversamente proporzionale all’odio e al ribrezzo che ispira invece a un’altra consistente fetta d’umanità. “Case, latte, gioncata, fiorita, ricotta, capi di latte, butirro: oh, che dolce e soave proviggione […]. Chi lo vuole stantivo, vecchio, marcio e ancho con i vermi, […] alcuni veramente l’abboriscono e l’odiano affatto, sì che fa lor nausea il vederlo, il coltello che l’ha tocco o il bicchiero con che altri destrattori s’abbino bevuto”. Giovan Battista Barpo, già nel 1634, aveva capito tutto. E in effetti questo alimento, rivalutato ai nostri giorni, non ha sempre goduto di buona fama, generato com’è da processi di digestione e putredine che partono dal bolo dei ruminanti e portatore indubbio di un olezzo che in tempi preindustriali doveva essere anche più forte. E sì che allora non si doveva essere sensibili più di tanto all’impatto olfattivo. Ma tant’è. “Faccio argomento – scriveva Tommaso Campanella – che tutto le cose che puzzano sian perverse… Dove il colore e l’odore è fetido e tristo genera peste, putrefazione nel sangue, gravezza nelli spiriti”. Addirittura. Forse un poco di gravezza nel valore dei trigliceridi, ma nello spirito giammai. In realtà provo grande simpatia per il formaggio, frutto di trasformazione e di lavoro paziente, prerogativa (almeno un tempo) tutta femminile: il formaggio veniva preparato dalle donne, le cui mani dovevano essere assolutamente pulite per maneggiare il liquido latteo, instabile e facilmente deperibile. Come in tutti i riti di iniziazione che si rispettino, anche il formaggio, prima della piena maturazione, attraversa il buio e – come in certe forme “di fossa” romagnole – l’interramento. E proprio il 25 novembre, il giorno di santa Caterina (di notevole importanza nel calendario agrario), queste forme, le migliori, selezionate e seppellite a settembre, vengono riportate alla luce, rinascendo a nuova vita con un sapore migliore. D’altronde anche il vino, chiuso nella tomba-cantina, si fa attendere prima di rivelare un’identità più virtuosa e preziosa del mosto fermentante.
Attendiamo quindi che rispuntino da sotterranee metamorfosi formaggi, vini e perché no, anche quella parte di noi che non mangia ma che invecchiando, ringiovanisce.