Cos'hanno in comune il libro del poeta-operaio Vincenzo De Marco e un accorato appello dell’Arcivescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro? Di certo amore e rabbia
L’8 maggio nella Cattedrale di San Cataldo l’Arcivescovo mons. Filippo Santoro aveva invitato i tarantini ad essere solidali con la categoria che più di ogni altra soffre per gli attacchi incrociati di chi ne mette a repentaglio i posti di lavoro e aveva aggiunto di essere preoccupato per le notizie che gli giungevano in merito agli eventuali esuberi all’Ilva e alla riduzione delle tutele dei posti di lavoro. Aveva concluso invitando i cittadini a non lasciare soli gli operai e le loro famiglie. Il presule, riprendendo tale tematica, aveva ripetuto gli stessi concetti il 10 maggio dal balcone della Chiesa del Carmine sottolineando che gli operai e le loro famiglie hanno subito i danni della ricerca del profitto che non considera la persona umana e la terra che è la nostra casa comune.
Sono state parole che certamente lasceranno il segno e, in questo senso, la recensione che ci accingiamo a fare trova tutta la freschezza e l’urgenza, al tempo stesso, dell’attualità.
Si intitola “Il mostro” (versi di rabbia e di amore) la raccolta di poesie del tarantino Vincenzo De Marco. La sua prefazione al libro è preceduta da questi pensieri: “Sono un folle che scrive di sentimenti, amore e vissuto, del bene e del male. Sono un pazzo che su carta sputa fuori amore e rabbia”.
Nella prefazione l’autore fa capire che all’interno dello stabilimento siderurgico tarantino era combattuto fra l’inganno e il ricatto. Unica sua amica era la penna. E così decide di scrivere versi di protesta per i suoi colleghi vivi e per quelli morti, ma anche per lui, per la figlia e per chi voleva che le cose cambiassero.
Fa sapere che nello stabilimento i lavoratori sono numeri e basta e che ai proprietari dell’azienda interessa solo il profitto, la produzione e i soldi sporchi di sangue dei poveri operai. A loro non interessano le lacrime dei parenti e, nonostante ciò, lui continua a lavorare armato solo della sua rabbia e della sua fidata amica penna.
Sono ben 66 le poesie che danno vita a questo vero grido di protesta verso un lavoro che per l’autore è altamente disumano.
Si tratta di componimenti semplici scritti con un linguaggio altrettanto semplice e immediato.
L’autore apre la galleria delle sue poesie ricordando quando Taranto e la provincia profumavano di ulivi e il cielo era azzurro e le pecore pascolavano erba fresca e non inquinata. Un tempo in cui i bambini giocavano all’aperto senza paura e al cielo cadevano gocce di acqua pulita e non pulviscolo nero-carbone. Anche i delfini intrecciavano i loro voli infondendo amore e serenità. Era una realtà e non un'utopia.
Parlando del mostro in una sua composizione dice che ai cittadini comuni sembra muto e silenzioso, invece parla con fumi, polveri e odori, luci e bagliori. Il mostro è, al tempo stesso, maestoso e spaventoso, ma è anche onnipotente, costante e presente. Per chi lavora all’interno dello Stabilimento il mostro è assordante, chiassoso e arrogante. All’interno dell’opificio il mostro parla, erutta e minaccia. E’ odioso, è veleno, è sudore, è sacrificio e lavoro soltanto per gli operai.
Al mattino si presenta come lavoro, ma poi si trasforma in veleno al vicino, nel pane, e nel vino.
In altra composizione l’autore aggiunge che anche se la casa è d’acciaio (il riferimento allo Stabilimento siderurgico) dentro si muore.
De Marco trova spazio e modo per parlare di vita come fatto naturale e per scrivere della nostra regione pugliese. A lui piace il sole che lo riscalda, la luna che lo illumina, il vento che lo accarezza e l’erba che lo rinfresca e si rammarica con un senso di nostalgia di non poter godere dei benefici della natura incontaminata che conobbe da ragazzo.
La terza parte della raccolta che contiene 42 liriche è dedicata alla vita e alla sua storia e così si rivolge alla figlia con accorati accenti paterni e aggiunge che per lui sono cambiati anche i ritmi della vita perché, mentre c’è chi si desta, lui, invece, si appresta a dormire.
Nella postfazione Valerio Tambone inizia scrivendo che il poeta si riprende il cielo e così conclude ricordando quanto scrive lo stesso autore: “Quando con la nostra ragazza andavamo a fare l’amore in auto non vedevamo chissà quante stelle o il mare o città illuminate, ma una luna abbarbicata su un altoforno che ci diceva ‘non guardatemi, non sono bella e dondolante in un panorama notturno. Mi vergogno di essere luna. Guarda! Sotto mi hanno messo dei fucili spianato contro: è il mio plotone d’esecuzione da sempre, che fuma e mi ruba il colore. Non guardarmi, poeta! Sii tu il cielo. Una luna più bella ce l’hai tra le braccia’”.
Tambone, che non soltanto ha apprezzato e approfondito i versi di De Marco così conclude: “Ci hanno tolto il cielo, ci hanno sporcato la luna; le stelle si sono dimezzate. Le nuvole bianche, di sera, diventano carotiche: per questo motivo, qui al sud abbiamo il diritto e il dovere di gridare più forte: i nostri diritti e i nostri versi”.
Ed è così che il monito dell’Arcivescovo si ritrova in sintonia con la richiesta del poeta di salvaguardare i diritti di ogni uomo. I versi di De Marco sono la cornice e le tessere di un mosaico a tinte scure che fotografano una realtà che è così vera perché è fatta da chi in quello stabilimento continua a vivere per necessità, continua a vedere morire persone che si ammalano di tumore e si attende che all’orizzonte di questa nostra amata città di Taranto possano scorgersi gli albori di un lavoro certo e non precario, di un lavoro per tutti e non per pochi, e di un lavoro che non mini più la salute e la vita di ogni cittadino.