La trasformazione di bravi coltivatori ed eccellenti artigiani in operai durante il boom economico del secondo dopoguerra ha determinato un percorso irreversibile di impoverimento delle piccole e medie imprese e un ulteriore distacco tra nord e sud. E ancora oggi ne paghiamo le conseguenze
La rivoluzione industriale è stata un fenomeno che, dall’Inghilterra del tardo XVIII secolo, ha investito progressivamente molti altri paesi come la Francia, la Germania, gli Stati Uniti d’America, il Giappone per poi divenire molto più espanso dagli inizi del XX secolo. L’assetto economico mutava le sue logiche passando da società basate prevalentemente sull’agricoltura, il commercio e l’artigianato, esistenti solo in funzione del prevalente impiego di forza umana e animale, a sistemi meccanici sempre più evoluti che iniziarono a sostituirli sviluppandosi in rapida progressione. A questo si deve un corrispondente sviluppo sociale che è cresciuto parallelamente all’innovazione sino a quando non sono mutati i rapporti sociali e le logiche d’impiego dei proventi. Al crescere dell’evoluzione industriale, migliorava anche la condizione delle popolazioni sino a quando non divenne eccessiva la differenza economica fra le classi cui seguì l’eccesso di prevaricazioni individuali sugli interessi collettivi, causa la rincorsa al rapido guadagno indiscriminato. È proprio dalle rivoluzioni industriali che nacque il bisogno di mutare anche le condizioni abitative per assecondarle all’industria che era divenuta cardine dell’economia. Nacquero le città industriali e con esse l’aumento di demarcazione sociale fra chi produceva e chi sfruttava la produzione. Il centro delle città, pregno di ogni tipo di servizi divenne il territorio esclusivo per la ricca borghesia e le periferie, eccessivamente prossime alle industrie, furono realizzate con schemi seriali, prive di molti dei beni primari, tanto da divenire il ghetto per gli operai. Con lo scopo di razionalizzare le città, nacque dall’architettura una nuova disciplina, l’urbanistica. L’impostazione delle città funzionali alle industrie è ancora molto presente tutt’oggi in molti centri urbani d’Europa. La rivoluzione industriale, è stata un processo inevitabile legato allo sviluppo delle conoscenze, che è cresciuto iperbolicamente e con enorme rapidità ma con l’unico fine di mirare esclusivamente alla crescita economica. Ciò che sembrava essere uno dei più veloci fenomeni evolutivi, in realtà, era privo di programmazione e si basava sul massimo sfruttamento di qualsiasi risorsa nel minor tempo possibile senza alcuna considerazione per l’irreversibile incidenza che questo avrebbe avuto sull’economia futura, sul territorio, sull’ambiente e, sostanzialmente, sull’uomo. Anche gli stati maggiormente favoriti dalla rivoluzione industriale, infatti, si sono imbattuti in una successiva condizione di stallo e una difficile risalita economica che dura tuttora. L’era postindustriale ha risentito notevolmente dei profondi condizionamenti dovuti all’imponente industrializzazione. L’errore maggiore commesso nell’era industriale è stato l’eccesso di produzione contro qualsiasi altra forma di economia, tanto che l’entusiasmo per l’innovazione riuscì a sopprimere anche le risorse economiche basate sulle peculiarità dei luoghi. Come le altre nazioni europee, l’Italia riuscì a ritagliarsi il suo spazio, anche se tardivamente, durante la rivoluzione industriale e altrettanto tardivamente ha dato inizio alla fase postindustriale. L’Italia, per la sua stessa costituzione, è una nazione le cui caratteristiche derivano dalla singolare conformazione e la sua strategica ubicazione fra il Mediterraneo e i Paesi del Nord. Questo ha permesso la presenza sul territorio di popolazioni millenarie provenienti da parti del mondo anche molto distanti che hanno trasformato il Paese in un crogiolo di culture che hanno lasciato un immenso patrimonio culturale, artistico e architettonico. Fosse solo per questo, l’industriale in Italia sarebbe dovuta essere relegata ai bisogni, facendo prevalere le fonti naturali di ricchezza derivanti da un territorio incredibilmente variegato e dalla presenza di estesi affacci sul mare. Ma l’industrializzazione degli inizi dell’Ottocento, non è stata definita casualmente rivoluzione e come tale ha travolto anche l’Italia come un fiume in piena e con lei qualsiasi legame con il passato. La trasformazione di bravi coltivatori ed eccellenti artigiani in operai ha determinato un percorso irreversibile. Evitando di percorrere cause e responsabilità, l’Italia della rivoluzione industriale ha favorito la divisione delle regioni del Nord da quelle del Sud creando un profondo divario tutt’oggi presente. In generale ha causato una presenza di manodopera soprannumeraria e un enorme fenomeno migratorio fra le due aree del Paese. I conflitti bellici favorirono ulteriormente la condizione già viziata dell’industria italiana dando prevalenza alle grandi realtà contro le medie e piccole. L’artigianato fu definitivamente affossato, anche se gli italiani hanno continuato a rivelarsi eccellenti artigiani nonostante la nuova condizione gli abbia costretti a divenire pessimi industriali, snaturandone le millenarie attitudini. L’intervento americano per la ricostruzione post bellica del 1947-48, meglio conosciuto come “Piano Marshall”, favorì principalmente le grandi industrie come la FIAT e le industrie di stato come Eni, Finmeccanica, Finelettrica, Fincantieri, tutte controllate dall’IRI. L’industria italiana si tradusse in oligopoli che, in parte, continuano a dominare la scena italiana e che fecero la loro fortuna con il sostegno di Mediobanca e la cattiva gestione delle industrie di stato. Fiat, Pirelli, Montedison, Falck, Piaggio, Olivetti, hanno ostacolato la concorrenza mentre, riducendo la manodopera, hanno determinato gravi problemi di ricollocazione della forza lavoro. Anche i tentativi di rendere le industrie di Stato immediatamente vantaggiose per la popolazione, come il Progetto Mattei per L’Eni, furono rapidamente repressi. I prodotti mediocri si sostituirono progressivamente all’eccellenza dei manufatti artigianali conosciuti in tutto il mondo. Allo stato attuale la grande industria italiana rappresenta la zavorra allo sviluppo postindustriale conservando le stesse logiche di mercato nonostante gli impedimenti decretati dalla CEE. In concreto, l’espansione delle grandi industrie nel Paese, oltre al breve periodo del “miracolo economico”, si è rivelata una scelta errata che ha distolto gli italiani dalla reale ripresa, proprio durante l’evoluzione degli altri settori caratterizzati da piccole e medie realtà. Lo stile italiano conosciuto proprio per l’altissimo livello qualitativo, il design ricercato e la continua innovazione, ha ceduto il passo all’omologazione, tant’è che i marchi più prestigiosi del settore automobilistico, della moda, dell’italian style, di fatto non esistono più o sono stati ceduti. Solo da pochi anni c’è una nuova volontà di riscoprire la tradizione non senza un grande lavoro di ricerca ed enormi sacrifici di realtà imprenditoriali fuori dagli schemi. Concretamente, la grande industria italiana è un pesante vincolo per l’evoluzione del paese anche avendo perso la sua utilità ed essendosi dimostrata notevolmente dannosa alla salute, all’ambiente e al territorio. È divenuto quasi impossibile svincolarsi dalle scelte adottate nel periodo post-bellico tanto che, di fatto, la grande industria è la peggiore concorrente della piccola e media industria e continua a condizionare l’espansione dell’artigianato di qualità. In concreto la grande industria è economicamente dannosa anche all’Italia ma è difficile liberarsene per l’enorme numero di persone che impiega. Perché abbia ancora un significato economico, dovrebbero essere adottate le stesse politiche produttive dell’inizio del XX secolo a totale discapito delle condizioni salariali della manodopera, dell’ambiente e della salute, tutte condizioni decisamente impercorribili. La grande industria non ha più motivo di esistere quale maggior provento economico di pubblica utilità italiana ma ciò che rende difficile il suo completo smantellamento è la ricollocazione della manodopera impiegata già perennemente soggetta al rischio di licenziamento. L’industria è stata uno dei più alti costi della nazione e continua a esserlo. Tutte le ipotesi di riconversione, bonifica, ammodernamento delle grandi fabbriche esistenti sono inattuabili e svantaggiose perché gli stabilimenti sono sovradimensionati, obsoleti ed economicamente anacronistici. Un esempio fra i più clamorosi è rappresentato da Ilva ex Italsider che oltre ad aver giovato solo a una ristretta lobby, oggi è soltanto un enorme contenitore di difficoltà cui è difficile trovare una soluzione. La sua permanenza è impensabile così come lo è fingere che non ci siano migliaia di famiglie che dipendono da questa realtà. Come tutti i problemi la cui risoluzione si rinvia per troppo tempo, questo appare uno dei più difficili e qualsiasi scelta sarà sbagliata e incredibilmente onerosa. Ogni anno in più di permanenza della grande industria in Italia corrisponde a un ostacolo temporale di almeno un lustro per le altre attività economiche valide allo sviluppo del Paese.