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Ani, che voleva volare via

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

20
GEN
2020

Non ricordo più perché lo feci o come mi venne in mente. L'avevo forse sentito da altri che ci volevano provare o che raccontavano di qualcuno che ce l'aveva fatta. Storie, come se ne raccontano tante: storie che dovrebbero servire a tenere alla larga, ed invece inducono in tentazione. Forse saranno stati quei film americani che ogni tanto intravedevo al cinema, a casa o sugli schermi dietro le vetrine. Quelli dove tutto è possibile. E se non lo è, basta un taglio al momento giusto ed è la credulità dello spettatore a fare il resto. Non so davvero, mi sembra solo di trattenere il respiro da un'eternità: ed è con il respiro che se ne vanno anche i ricordi.

Forse una televisione nemmeno ce l'ho mai avuta. So solo che volevo vedere l'Europa, ma non tutta. Parigi, mi bastava Parigi: capitale di una lingua Madre che mi ha reso orfano sin dalla nascita. «Il ricongiungimento familiare» pensavo «non è forse mio diritto?». Ma forse sono solo io che mi confondo. Forse l'ho solo sentito dire. Non mi biasimate, c'è questo fragore lancinante, queste vibrazioni che spezzano i timpani: sono uno di quei primi cosmonauti sparati nello spazio.

Eppure ricordo la mia terra, i giochi con gli amici, le speranze, le lotte. Quelle perse soprattutto. Io non ero di certo il più forte. E per intraprendere quel viaggio che porta a Parigi devi essere più forte di tutto. Un mio amico, per scoraggiarmi, mi disse: «il giorno che vedrai Parigi sarà quello in cui l'inferno si ghiaccerà». Ecco, appunto: una cosa così, un modo di dire, pensavo. Ma avevo sentito la madre di uno che ce l'aveva fatta dire che suo figlio stava bene, sembrava triste quando lo diceva; infatti aggiunse: «Alla fine, c’è più dolore per chi resta che per chi parte». Così, al mio amico risposi: «vedremo».

Ed ora sono qui, solo, con i miei vestiti ed il mio nome, e credo di stare scordando pure quello. Ma non importa, tempo due giorni e cominceranno a chiamarlo in tanti - troppi o troppo pochi. Non mi chiedo neppure come so queste cose, ma ormai ne sono certo.

I buonisti, da una parte, lo pronunceranno con quelle voci impomatate, con quel tono “paterno-alista” di chi ti sta vicino: ma dall'alto e sempre a favor di camera. I “cattivisti”, invece, quelli si contenteranno di un distaccato comunicato stampa in cui è chiara la tentazione di ridurmi a semplice immigrato irregolare.

E ci sarà perfino chi inveirà contro chi mi strumentalizza: strumentalizzandomi altrettanto.

Non prevedo sommosse, questo no. Il mondo si è già detto turbato per casi simili al mio, ed il mondo detesta le ripetizioni - tranne per le guerre e le telenovelas, certo. Ma per un giorno, o forse per un ora, il mio nome sarà sulla bocca di tutti - forse sarà quello di tutti - ma spero almeno nel cuore di qualcuno, visto che arrivare al cervello, quello, è chiedere troppo.

Ma ora fa troppo freddo per continuare: un freddo che non si respira: o è perchè non si respira che fa freddo... no, questo non ha senso. Perdo lucidità, ammesso di averla mai avuta. L'ingenuità, invece, quella mi accompagna da sempre. E sarà stato per questa, o per il fatto che fra poco avrò quindici anni, solo – dirà qualcuno, che mi andava di festeggiare a Parigi. Con chi poi? Non so, non ricordo se non volessi festeggiarli con chi lasciavo indietro o era troppa la voglia e la curiosità di farlo con chi avrei trovato davanti.

No, non ricordo il perchè, ma forse posso sforzarmi di dire di più sul come. Ho superato una vecchia rete di recizione che circondava le piste dell'aeroporto e mi sono nascosto. Era molto tardi. Un boeing 777 si preparava alla partenza. Questo ce l'ho: quello che mi manca è come facessi ad essere così sicuro che fosse proprio quello giusto. Non era mica una corriera: niente destinazione sul parabrezza. Ma aspetta, ricordo che, mentre quel gigante faceva manovra sulla piazzola, lessi sulla fiancata: "air-france". Forse, avevo perfino controllato che a quell'orario non ci fossero altri aerei della stessa compagnia. Così, quando l'aereo si è messo in posizione, ho cominciato a correre come un matto, mi sono aggrappato ad un carrello e in un attimo mi sono issato nel vano. Poi è successo tutto velocemente: il rullaggio (credo si dica così), l'accelerazione, i motori che sembrano scoppiare, lo sfrigolio delle ruote sulla pista e poi il vuoto... vuoto in tutti i sensi. Paura, quella tanta, ma pure eccitazione, certezza che tutto andrà per il meglio, che il peggio è passato, e che non c'è nulla di definito o, peggio, di definitivo. In fondo, meglio sei ore lì dentro che settimane nel deserto solo per finire in un centro di concentramento, e poi in balia delle onde o delle bizze di quei popoli albini.

Quindi paura, sì, che si fa terrore, quasi subito.

Dolori: a naso ed orecchie. E poi freddo ed ancòra freddo, che scende giù giù per il naso e per la gola. C'è n'è tanto che a Youpougon sarebbe bastato per dieci inverni. E poi il gelo, quello vero - da perderci il fiato - con la mandibola che martella tanto forte da aver paura che qualche passeggero se ne potesse lamentare. Come in quella storia che non dovrei conoscere ma che riporto per inciso. Quella in cui, durante l'epifania, un gruppo di giocattoli scappava da un negozio a bordo di un trenino elettrico - la Freccia Azzura - per andare a consegnarsi a quei bambini che non potevano permetterseli. Ma durante il viaggio c'è un freddo tale che un gruppo di marionette non faceva che sbattere i denti. Gli altri giocattoli non potendo dormire si lamentavano: «Ma non potete lasciarci in pace? non avete un po' di cuore?», «No, non ce l'abbiamo» rispondevano le marionette in coro. «Siamo di legno e di cartapesta; se avessimo il cuore, non avremmo così freddo». Ma ecco che, dalla scatola dei pastelli, il colore rosso li puntava e gli segnava in petto: ecco i tre cuori! «Dopo qualche minuto sentirono caldo anche alle orecchie, anche alle mani e ai piedi» ricordava il narratore parlando delle marionette: «ossia nei punti più lontani dal cuore, ove il freddo si diverte a tormentare la povera gente». Ed ora ripensandoci, mi dico: «io un cuore ce l'ho, anche se adesso fa fatica, il freddo però lo sento comunque. L'epifania poi è passata da poco, non sarà forse che ho deciso di mettermi in viaggio per andare incontro a quei doni che tardavano ad arrivare?».

Niente, il gelo persiste, le ossa tremano e la pelle comincia a bruciare, ci credetereste?

Un freddo, ma un freddo tale da toglierti si il respiro, ma non il sonno. Quello che arriva e passa senza che te ne accorgi. Ed è così che l'oscurità di quella prigione, la fatica, gli scossoni che ti sbattono contro le pareti, il rumore assordante, il dolore, la paura ed il gelo che ti brucia si allontanano, mentre uno strano benessere si avvicina, e con lui, la voce di un amico che un giorno mi disse: «il giorno che vedrai Parigi sarà quello in cui l'inferno si ghiaccerà».

Sono Ani Guibahi Laurent Barthélémy, nato il 5 febbraio 2005 a Youpougon, distretto di Abidjan, atterrato a Parigi che quasi albeggiava. Mi dispiace solo di non averla vista, spero che chi può possa godersela. Mi dispiace anche per quelli che mi hanno trovato. Devo aver messo in difficoltà parecchie persone, ma vi giuro su quanto avevo di più caro che avrei preferito evitare.

Ma non voglio rattristarvi, come ho detto non ricordo bene le premesse, il contesto, i fatti e gli eventi che mi hanno condotto fino al mio ritrovamento: ma l'unica cosa che ricordo con certezza è quella voce che mi ha cullato verso la fine: «Lasciati andare» mi diceva, «Andrà bene. Sai, alla fine c’è più dolore per chi resta che per chi parte». Ed io che rispondo: «vedremo».



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