Stalking, violenze verbali e fisiche, stupri, femminicidi. La sindrome femminofobica colpisce un numero crescente di maschi. Il nostro Paese scala classifiche vergognose. È tempo di introdurre rimedi di “chirurgia sociale”
Da molti anni cerco una risposta credibile a una domanda non più eludibile: perché la donna è stata ed è considerata oggetto e non soggetto, al pari dell’uomo, nella storia dell’umanità? In verità di risposte ne ho trovate diverse ma cerco di sintetizzarle con un esempio. Se, passeggiando in un parco, vedessimo due bambini, due maschietti che si azzuffano tra loro, intervenendo per separarli ci sentiremmo esortarli così: “Fermi! Non picchiatevi! Giocate senza litigare, gli amici non si prendono a pugni tra loro”, e altre banalità, più o meno stupide, che però hanno come comune denominatore una visione paritaria dei contendenti. Se nello stesso parco vedessimo invece azzuffarsi sempre due bambini ma uno maschio e l’altra femmina, le argomentazioni che useremmo per separarli suonerebbero all’incirca così “Fermi! Tu (rivolto al maschio) non lo sai che non si devono picchiare le bambine? Loro sono più delicate (eufemismo per deboli) dei maschietti e bisogna essere gentili con loro. E tu (rivolto alla femmina) non puoi comportarti come un maschiaccio!” e via dicendo con altre amenità simili. La discriminazione di genere ha sedimentato nei secoli la subcultura femminofobica anche quando, come nell’esempio suddetto, apparentemente riveste i panni rassicuranti del paternalismo protettivo nei confronti del presunto soggetto più debole. Le vicende livornesi e ostiensi degli ultimi giorni sono anelli di una catena che, anno dopo anno, diventa intollerabilmente più lunga. Nel solo 2012, in Italia, 180 donne sono state private del diritto alla vita con un atto di violenza (una vita spezzata ogni 2 giorni!), a rappresentare la punta visibile di un iceberg, sconfinato e nascosto, fatto di violenze fisiche e psicologiche, di abusi, di soprusi, di prevaricazioni, di discriminazioni, di umiliazioni che la dicono lunga sul grado di involuzione antropologica toccato, soprattutto, dal genere maschile della nostra specie. Ne parlo in modo così estensivo affinché nessuno pensi di essere esente da colpe, nessuno pensi di lavarsi la coscienza puntando il dito su presunti comportamenti deviati, su personalità psichiche disturbate o distorte, sul pazzo di turno o, se proprio non ne possiamo fare a meno, sull’extracomunitario di turno preferibilmente, ma non necessariamente, nero. La violenza, fisica e psicologica, nei confronti delle donne e la subordinazione delle stesse all’uomo è stata “codificata ed istituzionalizzata” da diverse migliaia di anni a partire dalle antiche civiltà mediorientali, quelle cullate dalle acque del Tigri e dell’Eufrate, passando per le civiltà classiche greca e romana e mettendo d’accordo ogni forma di architettura dello spirito, sia essa politeista che monoteista. L’acrimonia nei confronti dell’universo femminile è la conseguenza del palese stato di inferiorità che il maschio vive nei confronti della femmina sin dalla comparsa della specie umana sul pianeta. Questa inferiorità è incentrata sulla coscienza della capacità di “generare la vita” che è incontrovertibilmente della femmina. Non a caso dall’alba dell’Uomo, e per alcuni milioni di anni, l’organizzazione sociale indiscussa è stata il Matriarcato ed il culto della Grande Madre, fino a quando il maschio non ha preso coscienza del concetto di “paternità”. Da quel momento i rapporti di forza si capovolgono ed il potere fisico e materiale prende il sopravvento sul potere spirituale; ciò non di meno rimane, più o meno latente, il complesso di inferiorità che può essere esorcizzato con l’esercizio continuo della violenza e della prevaricazione. Il quesito angosciante che ci stiamo ponendo è perché sembra che oggi ci sia una recrudescenza del sentimento femminofobico e delle sue manifestazioni più tragiche. Potrà sembrare paradossale ma è stato proprio il crescente peso specifico dell’emancipazione femminile ed il conseguente smantellamento dell’istituto della “patria potestas” che ha sgretolato quel poco che rimaneva dell’autostima maschile, facendo emergere gli aspetti più deteriori della “mascolinità” che sono gli inconfutabili testimoni dell’inferiorità del genere maschile rispetto a quello femminile.
I latini in generale ed i romani in particolare erano saggi, oltre che pragmatici, e sapevano perfettamente che se le questioni di genere fossero state lasciate al libero arbitrio degli individui, il regno prima, la repubblica poi e l’impero infine non avrebbero avuto la vita ed il successo che conosciamo. Così attraverso il pragmatismo e la straordinaria capacità di legiferare, codificarono l’istituto della patria potestà, pur con tutte le inaccettabili limitazioni all’autodeterminazione, con il lungimirante obiettivo di tutelare l’integrità fisica e morale delle donne non con l’arma della giurisprudenza, spesso fallace, ma con la forza dei legami familiari. Questo espediente, tra molte scelleratezze e qualche intento virtuoso, ha retto nei secoli fino ai nostri giorni. Oggi sulla questione del rispetto delle “pari opportunità”, così come le chiamiamo, siamo in presenza di tre deficit enormi come macigni: un deficit culturale, un deficit familiare ed un deficit giudiziario.
Estendendo il pensiero del Mahatma Gandhi, secondo cui il grado di civiltà di un popolo e di una nazione si misura sul modo in cui tratta i bambini e gli animali, anche al modo in cui tratta le donne e la loro immagine, abbiamo la foto di ciò che chiamo deficit culturale. Colpe gravi in tal senso sono da addebitare alla spregiudicatezza con cui si utilizza il mass media più invasivo del nostro tempo: la televisione. L’aspetto più odioso di molti degli odierni programmi televisivi cosiddetti di svago non è tanto, o non solo, la volgarizzazione del linguaggio a cui contribuisce in modo sostanziale lo stuolo infinito di presunti VIP che imperversano sui nostri schermi, i quali tra i loro innegabili pregi non hanno certo quello di maneggiare in modo corretto la nostra sintassi, bensì l’uso spregiudicato che autori e registi fanno del corpo femminile, strizzando l’occhio e solleticando gli aspetti più deprecabili del voyeurismo maschile. Non sono uomo da disprezzare la visione di un bel corpo di donna, né di per se la nudità femminile è disdicevole, al contrario è sinonimo di bellezza, grazia, armonia; sconveniente semmai è “l’utilizzo” che se ne fa, l’allusione reiterata, l’ammiccamento provocatorio che diventano una squallida caricatura del fascino e della femminilità. Ed è proprio il continuo esondare la linea di confine che separa la seduzione dalla volgarità a caratterizzare molti programmi della nostra televisione, generando un serio problema di tutela dei minori. E quando parlo di minori penso non tanto e non solo ai più piccoli ma soprattutto agli adolescenti siano essi femmine che maschi. Nel periodo adolescenziale ci troviamo in presenza di una fase più avanzata di elaborazione e decodificazione delle parole e delle immagini da parte dei ragazzi, merito anche dell’azione educativa della scuola, ed il linguaggio del corpo assume una grande rilevanza formativa nella crescita psicosomatica dei giovani. Siccome nei programmi televisivi di intrattenimento leggero, a mio avviso, viene comunicato un linguaggio del corpo deviato, i guasti sono sotto gli occhi di tutti. Le ragazze nella fascia d’età che va dai 13 ai 17 anni attivano i processi di identificazione con le discinte signorine grandi forme, così che le indagini sociologiche ci rivelano con finto stupore che una percentuale bulgara delle future donne di questa nazione ha la massima aspirazione di diventare una velina piuttosto che una Dacia Maraini se non proprio una Rita Levi Montalcini. Per i ragazzi della stessa fascia d’età si prefigura uno scenario se possibile ancora più fosco perché nelle strade, nelle metropolitane,nei parchi, nelle periferie delle nostre città si aggirerà un esercito di potenziali stupratori. Mi chiedo a quali modelli culturali ed antropologici possono ispirarsi gli adolescenti maschi di oggi, là dove l’esplicita e quotidiana offerta sessuale non lascia molto spazio per la fantasia, per l’immaginazione, per il sogno. Ma soprattutto quale rispetto potranno avere per se stessi e quindi per le donne, compagne occasionali o di una vita, se a guidarli sarà il semplice soddisfacimento dei propri impulsi sessuali, certi che per farlo basti allungare una mano come per cogliere un frutto messo lì unicamente per saziare i loro appetiti. Al deficit culturale fa da moltiplicatore sia il deficit familiare che quello giudiziario, in quanto questi ultimi due sono le facce della stessa medaglia che dovrebbe rappresentare la certezza delle regole sociali e civili. La famiglia si sta svuotando del ruolo di sorveglianza, sostegno e tutela; la giustizia cade miseramente sulla totale mancanza della certezza della pena, anche perché, in modo strabico, guarda con maggiore indulgenza alla tutela dei “diritti” dei carnefici piuttosto che all’affermazione senza distinguo dei diritti delle vittime. Allora che fare?
Il tempo di attesa perché si compia una autentica rivoluzione culturale che conduca gli Uomini (in senso lato) a considerarsi una specie animale il cui genere si differenzia tra maschio e femmina per motivi esclusivamente biologici è destinato a contarsi in generazioni, per cui è ormai improrogabile l’assunzione di strumenti alternativi e più drastici per contrastare ed estirpare la sindrome femminofobica e il cancro del femminicidio. La via giudiziaria tradizionale, con le sue pene risibili e mal rispettate, dimostra ampiamente la sua inefficacia ma può esserci uno strumento che definisco di “chirurgia sociale”. Si rifà all’episodio della Bibbia che racconta dell’assassinio di Abele da parte di suo fratello Caino. Il Signore, dopo aver costretto alla confessione del crimine Caino, lo condanna a vagare per il mondo con il marchio dell’infamia sulla fronte, così che chiunque lo incontrasse potesse riconoscere la colpa terribile di cui si era macchiato e lo emarginasse. Abbiamo visto che il carcere non è più un deterrente efficace, per questo penso che tutti coloro i quali si macchiano di crimini efferati contro le donne e contro i bambini dovrebbero essere privati di tutti i diritti civili e sociali, vita natural durante, esclusi dal diritto al lavoro, allo studio, alla sanità, all’assistenza sociale ed ogni altro diritto che fa di un uomo un Uomo. Se proprio vogliamo mantenere un’attitudine umanitaria, potremmo evitare la cruenta marchiatura a fuoco della fronte sostituendola con un più civile tatuaggio. Capite bene che, al di là dei deterrenti che potrebbero essere messi in campo, si tratta di sovvertire un codice culturale apparentemente indelebile così come abbiamo fatto nei secoli con il cannibalismo o con l’incesto. Per cominciare potremmo riflettere tutti insieme su cosa hanno fatto le donne in migliaia di anni di dura ed ingiustificata sopraffazione. Hanno continuato a fare ciò che le caratterizza dall’avvento della nostra specie sulla Terra: hanno generato figli forgiandoli, temprandoli ed educandoli a vivere l’età adulta; si sono prese cura dei loro uomini lenendo le ferite fisiche e morali, spronandoli nelle difficoltà ed esaltandone i successi, scaldando i giacigli e rendendo piacevoli le notti; hanno accudito i loro congiunti malati e gli anziani; hanno lavorato dentro e fuori le mura domestiche, superando le difficoltà con uno spirito di servizio ed una determinazione spesso sconosciuta ai loro partner; hanno lottato per se stesse, per migliorare la loro condizione e per rivendicare pari dignità, pari diritti e pari opportunità, e lo hanno fatto senza dichiarare guerre, che a quanto pare è prerogativa esclusivamente maschile, ma con la forza del lavoro e delle idee, senza far mancare l’adempimento dei doveri quotidiani. Sarebbe un buon inizio dedicare un minuto al giorno a questa semplice constatazione.