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(IN)COSTITUZIONE Parte seconda

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

23
AGO
2013
Art. 4 – “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere , secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Impietosa la distanza tra la dichiarazione di principio e la realtà vissuta. Le parole, che dovrebbero avere la forza di spostare le montagne, si sgretolano come argilla: “riconosce e promuove” il diritto al lavoro appaiono oggi parole vuote di ogni significato. In relazione ai doveri del cittadino per questo articolo, è palese l’incongruenza tra possibilità e scelta e le reali opportunità di scegliere una attività o una funzione adeguate alle proprie capacità. Lo testimoniano le centinaia di migliaia di laureati che ingrossano le fila dei disoccupati.
Art. 5 – La Repubblica, unica e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. 
Sessantacinque anni fa i padri costituenti, seppure reduci da una lacerante guerra civile ed ideologica che aveva precipitato il Paese sull’orlo di una nuova e definitiva polverizzazione della sua integrità sociale e geografica, avevano avuto la lungimiranza di disegnare un futuro federale che era certificato di fatto dalla storia italiana nei mille e settecento anni trascorsi dalla caduta dell’impero romano sino alla fine della seconda guerra mondiale. Di quanto stabilito dall’articolo quinto nulla è stato attuato, non il decentramento amministrativo, non il decentramento fiscale, non le autonomie locali e nulla della legislazione è stato adeguato alle esigenze di autonomia. L’afflizione del centralismo burocratico è prepotentemente il cancro che affligge la vita del Paese e dei cittadini.
Art. 9 – “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La mia personale opinione è che la totale inadempienza di questo articolo rappresenti il più grave insulto rivolto alla nostra Carta costituzionale da tutti i governi che si sono succeduti dal ’48 ad oggi, con responsabilità sempre più crescenti in particolare negli ultimi venti anni. Il nostro patrimonio culturale, storico, artistico e paesaggistico viene umiliato e distrutto, giorno dopo giorno, dall’indigenza spirituale di una classe politica e dirigente inadeguata, incapace di onorare la propria storia e di garantire il futuro alle nuove generazioni. Impressionante lo scempio perpetrato nei confronti del nostro patrimonio ambientale e territoriale; inqualificabile l’oltraggio portato allo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica che costringe le migliori risorse giovani a coltivare le proprie superiori qualità oltre i confini nazionali.
Per concludere non posso tacere di un ulteriore strappo alla Carta voluta dai costituenti. Il problema riguarda la più alta carica dello Stato: il Presidente della Repubblica! Per la nostra Costituzione il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale, svincolandolo dalle responsabilità che sono esclusivamente del potere esecutivo. Nel corso degli ultimi venti anni, a partire da Oscar Luigi Scalfaro, passando per Carlo Azeglio Ciampi e accentuatosi oltre misura nei due mandati di Giorgio Napolitano, il secondo in corso, la nostra Repubblica da parlamentare è diventata di fatto Presidenziale. Tutto questo accade senza che alcuna voce dei rappresentanti delle istituzioni, a partire da quella Corte Costituzionale che negli ultimi anni non ha dato certo buona prova di se in molte circostanze, abbia avuto senso dello Stato così alto da denunciare questo enorme vulnus costituzionale.
La nostra bella Costituzione è rimasta tale sulla carta per ben sessantacinque anni e allora, interpretando forse il sentimento di molti miei connazionali, da comune cittadino di questa vituperata Repubblica accuso le nostre istituzioni di tradimento del suo dettato e del suo spirito. Se avessi mai potuto vestire i panni di Roberto Benigni avrei concluso le mie lezioni costituzionali così: “Questa è la Costituzione più bella del mondo! Che peccato che venga vilipesa da una classe dirigente che troppo spesso non ne è stata degna”.
 
 
 


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