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Giancarlo Liviano D´Arcangelo: Come la carta moschicida

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

2
MAR
2012

 

C’è troppa letteratura in giro. Anzi, ce n’è pochissima. Ciò che abbonda è la scrittura come decorazione, come status symbol, come occasione e ossessione di pubblicare il proprio romanzo, quasi fosse l’unico mezzo per nobilitare se stessi e placare l’ansia di esserci, di esistere. In anni come i nostri, nei quali la realtà è fagocitata da reality e talk show, centri commerciali e chat, ovvero dalla post realtà liquida, né vera né falsa, in anni in cui l’identità è sostituita dall’immaginario, il romanzo si è svuotato del proprio “incandescente nucleo critico-utopico, della propria immensa potenzialità conoscitiva” – come scrive Filippo La Porta, critico militante – per diventare puro pretesto estetico. Sembra che cultura e impegno civico siano diventati inconciliabili e, aspetto ancor più preoccupante, che la cultura si sia ridotta a consumo. Sono poche le voci italiane che si levano contro tutto ciò,  una di queste è quella di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, autore tra l’altro del reportage narrativo “Le ceneri di Mike” (Fandango), un giovane martinese che ha compiuto la scelta difficile della letteratura dell’impegno, agli antipodi rispetto all’inerzia e all’intrattenimento, una letteratura che, nascendo dall’attrito con ciò che sfugge al controllo nella nostra società, genera nel lettore attrito, disturbo, fastidio. La sua scrittura ripudia la spettacolarizzazione del tragico e denuncia la crisi dell’immaginazione narrativa, incapace di creare personaggi che si stagliano corposi e definiti.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo ha lasciato Martina nel 1995 per motivi di studio, e lo ha fatto serenamente. Non è stato un trauma. “Non ho fatto altro che aspettare il mio turno” – ci dice.
A Martina non sei più tornato, però.
«I ritorni stabili sono difficili. In genere si torna cambiati, e come sempre quando si cambia, insofferenti a ricordare come si era prima del cambiamento. Poi indubbiamente esiste una componente che definirei “romanzesca”. Un ragazzo che parte da un paese come Martina, grande ma pur sempre periferico, compie il classico viaggio dell’eroe archetipico di ogni romanzo di formazione. Affronta peripezie e avventure, e apertosi all’ampiezza massima di un mondo che prima gli sembrava limitato, reagisce in due modi possibili. Sfidando quell’ampiezza, e provando a ritagliarsi lì il proprio spazio, o rinculando come il calcio di un fucile dopo lo sparo, cioè rifiutando il “nuovo” troppo grande e spaventevole, per rifugiarsi in ciò che conosce da sempre. Comunque con  Martina continuo ad avere un legame molto forte: rappresenta la mia infanzia e la mia adolescenza, periodo nel quale le illusioni costituiscono il terreno dei progetti futuri. A Martina, inoltre, ho gran parte della famiglia e moltissimi amici, e d’estate appena posso mi fiondo in campagna. Il clima della collina, la qualità della luce, la purezza cristallina del cielo e l’intensità di alcuni tramonti che si evolvono bruciando ogni tonalità di rosso, sono momenti di salvezza, abluzione e riconciliazione.» 
Il tuo percorso, caratterizzato da scritture con le quali denunci la pervasività dei media  e dei reality show (si pensi al tuo primo romanzo “Andai, nella notte illuminata”) si connota come “impegnato”. Cosa significa oggi “scrittura dell’impegno”?
«Se dal dopoguerra in poi queste definizione annetteva tutti gli scrittori che in qualche modo applicavano alla realtà una chiave di lettura marxista, e quindi trovavano una certa collocazione in area del Partito Comunista e potevano integrarsi e avere un pubblico di riferimento, oggi credo che uno scrittore impegnato sia colui che non si limita a creare opere di pura evasione, di puro intrattenimento, ma colui che attraverso il proprio lavoro restituisce in modo problematico il grado di difficoltà a cui è giunta oggi la realtà. In pratica, nient’altro che quello che hanno fatto sempre gli scrittori da quando esiste la letteratura. Se fino a qualche decennio fa esistevano pochissimi scrittori d’intrattenimento, oggi la proporzione è cambiata. Gli scrittori complessi, che hanno una visione e realmente qualcosa da dire sono pochissimi, e migliaia sono invece gli autori di romanzi in serie, puri prodotti commerciali come scatole di cereali, in cui la visione del mondo è sempre convenzionale. Quelli che Nabokov chiamava“gli ornatori del luogo comune”.»
Quali sono a tuo avviso le"urgenze" necessarie per Martina Franca? Quale percezione hai dei giovani che a Martina Franca si muovono e agiscono?
«Io credo che Martina, come grandissima parte del Sud Italia, abbia in primo luogo bisogno di una classe politica completamente rinnovata, nell’anima e nel cuore. Purtroppo, e non può che essere così, anche a Martina si registra una tendenza tipica ormai di tutta la nazione. L’amministrazione della “cosa pubblica” è il luogo che riunisce, come la carta moschicida per gli insetti, tutte le peggiori personalità di un territorio, le più avide, le più truffaldine e le più affamate di potere, per il semplice motivo che in quell’aria è più semplice avvicinarsi a grosse quantità di denaro senza che gli sprechi, i furti, o gli illeciti siano facilmente bloccati. Ci sono purtroppo pochissime eccezioni, che tuttavia si smorzano o perdono il proprio entusiasmo appena si avvicinano alla realtà della politica, perché si accorgono che il prezzo di non conformarsi a certe prassi, a certe gerarchie, è il rimanere esclusi. Anche per questo i giovani tendono ad andar via da Martina. La cattiva amministrazione, le poche occasioni di dedicarsi alla vita culturale vera, fungono da meritocrazia al contrario. E in qualche modo, le personalità più pure, le meno votate al compromesso, o quelle che non riescono ad abituarsi al vuoto, devono emigrare.»
Cosa rappresenta per te la scrittura?
«Ho 35 anni, l’età cioè del massimo splendore per un essere umano, quella in cui se si ha avuto la fortuna di conservarsi ancora interiormente integri, e non corrotti, è possibile raggiungere la massima purezza nella dialettica tra se stessi e il mondo,  con  coraggio e ironia, fungendo da agente di novità e freschezza. La scrittura è forse uno dei pochi lavori in cui il bagaglio personale, se ben amministrato, può effettivamente rappresentare un vero valore aggiunto, sempre se il lavoro da scrittore è percepito come un percorso in cui la propria ricerca funge da filtro del mondo esterno, materiale che in qualche modo viene ingerito così com’è, grezzo e complesso, pieno di materia inorganica e organica al tempo stesso, e restituito in nuove forme.  In questo senso a 35 anni ci sono ancora centinaia di esperienze da fare, anche intime, personali. Ciò che è davvero difficile fronteggiare, è sentire che un certo modo di essere scrittori non è più richiesto. A uno scrittore è richiesto, come ho accennato prima, di essere soprattutto un intrattenitore, un ruolo che un tempo era riservato ai giullari. È proprio il modo di produzione che impone questo. Il potere, che si appoggia al modo di produzione, è una specie di spirale che gira all’infinito su se stessa. Io, grosso gruppo multinazionale dell’industria o della finanza, occupo la “cosa pubblica” attraverso le collusioni con la politica e con il possesso dei mass media, e da questa posizione privilegiata costruisco la realtà a piacimento, offrendo il racconto quotidiano e simulato della democrazia e scolpendone i principi basici nell’immaginario collettivo; mentre le scelte che contano, quelle determinanti per il futuro di tutti, si compiono in stanze private, secondo interessi privati. L’Italia è un caso limite, un caso da laboratorio per un intellettuale che voglia fare da Cassandra. Solo che il ruolo per lui ritagliato dal meccanismo che ho illustrato è quello dell’intrattenitore. Racconta storie che non parlano della realtà così com’è, ma thriller fantasiosi o storie rassicuranti in cui l’amore alla fine, mette tutti d’accordo. E sarai premiato. Questo è quello che il meccanismo chiede agli intellettuali.»
Dai tuoi trentacinque anni come vedi l’Italia?
«L’Italia è un paese alla deriva, in esso le coordinate minime della civile convivenza sono ridotte ai minimi termini. Ciò che non fa precipitare la situazione e solo la bontà, e a volte la mancanza di cultura o l’ingenuità dei deboli. In un paese dove il 40% della ricchezza nazionale è in mano del 10% della popolazione, in un paese in cui i comuni si amministrano scientificamente raggiungendo un livello limite di dissesto finanziario in cui è impossibile spendere per il bene collettivo, e tutte le nuove immissioni di denaro sono destinate a commesse o consulenze “chirurgiche”, non ci può essere che un grado di violenza latente e sommessa davvero spaventosa. E questa situazione, lo ripeto, è in continuo peggioramento.»
Quindi?
«L’Italia è un paese dove si può essere solo soggiogati o soggiogatori. Pasolini diceva, negli anni 70, che già allora non c’erano altre divisioni di classe nella società italiana, né altre scelte possibili. Solo soggiogati o soggiogatori. Niente mi sembra più vero di così. Per ovvi motivi, è molto facile che la maggior parte dei soggiogatori siano vecchi, gente che occupa i luoghi strategici del potere e che naturalmente tende a spianare la strada a dei successori cooptati nella propria area familiare. Non so, quindi, se è solo un problema di generazioni, perché in genere i cooptati giovani sono già prontissimi a replicare le dinamiche apprese dai vecchi. Si diventa cinici da giovani, tutto qui. Il vero problema sono i criteri attraverso sui si formano le classi dirigenti. Cioè cooptazione pura, come dicevo, e censo. Tutti sanno che con questa legge elettorale i primi posti nelle liste dei partiti, cioè quelli che alle elezioni fanno scattare i seggi, si comprano. È una sorta di vero e proprio investimento, per cui è evidente che poi, giovane o vecchio, chi ha compiuto l’investimento deve rientrare, ed è qui che la politica diventa a tutti gli effetti non più gestione della collettività, ma un puro settore produttivo di reddito.»
I giovani,  la politica e il potere. Quali relazioni individui?
«Un gruppo di potere funziona a lungo termine se le diverse personalità che ne fanno parte, pur con le debite differenze individuali, condividono un ventaglio di obiettivi e valori, e soprattutto un modus operandi comune. Le personalità “aliene” a un certo cinismo, ai giochi di potere, alle dinamiche di divisione del potere, o si autoescludono, se non sono ingenue, o vengono escluse ai primi passaggi della filiera. È alquanto improbabile che un giovane che vuole fare politica attiva con ideali positivi e poca voglia di compromessi possa fare strada. Può riuscire a diventare consigliere comunale una volta, poi resta isolato se non si conforma alle prassi dominanti. E chi resta isolato o ferma il proprio percorso e molla, o capisce che è meglio conformarsi alla prassi condivisa, a un certo alfabeto.  Chi non è ancora diventato cinico, forse, più che i trentenni, sono gli adolescenti. Che tuttavia versano, a parte pochi casi, in uno stato di abbandono e di vuoto culturale spaventoso. Al punto che c’è da chiedersi: ma la vera salvezza è nel conformarsi? È nel cedere al cinismo più aggressivo e pervasivo? O è nella piena coscienza di sé e del peso delle proprie scelte? Io opterei ancora per la seconda possibilità. Ma è difficile, molto difficile in questo contesto.»
 


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