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Racconto/20 marzo, il giorno dopo

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

20
MAR
2015
Un male improvviso che sconvolge la quotidianità e il rimpianto di aver detto troppo tardi: «Tanti auguri, papà!»
 
Ieri era il 19 marzo, San Giuseppe.
Sul momento non ci ho pensato, ma ieri è stata anche la festa dedicata a te, papà. 
Sì, hai ragione, me ne sarei dovuto ricordare. Anche perché tutti ne parlavano, dalle TV ai giornali e anche ai semafori sentivo qualcuno al cellulare che diceva: “Tanti auguri papà, ci vediamo”. Sì, ieri avrei dovuto farteli anch’io gli auguri. Ma non sapevo come fare. Tu non c’eri. Questa mattina, però, appena sveglio, il pensiero mi è tornato alla mente. Che stupido, mi sono detto, ora gli scrivo una bella lettera e lui, dovunque si trovi, la riceverà assieme ai miei auguri più sinceri.
«Carissimo papà, ieri è stata la tua festa, sì, la festa del papà. Il 19 marzo, San Giuseppe, è anche la festa di tutti i papà. 
Ricordo ancora quel giorno che venni a trovarvi a casa, e tu non c’eri. La mamma mi disse che eri andato dal medico per un fastidioso dolore che ti faceva penare da tempo. Ti aspettai. Quando tornasti portavi una cartella gonfia di ricette e richieste di visite specialistiche. Ti ricoverasti, fosti operato e quando uscisti dall’ospedale ci rendemmo tutti conto che niente sarebbe stato più come prima. Me lo dicesti proprio tu, ricordi? Mi prendesti da parte e mi pregasti di stare attento alla mamma. “Perché, che ha la mamma?”- chiesi preoccupato - “La mamma niente, per fortuna, sono io che non sto bene e devo partire”. 
E partisti, una domenica mattina. Stavamo soli, io e te, ricordi?, in quella corsia vuota del vecchio ospedale. I medici avevano scosso la testa alle mie richieste, alle mie domande. Ero stato tutta la notte accanto a te, e tu non parlavi quasi più. Chiedevi, di tanto in tanto, solo un sorso d’acqua; ma ti piaceva, così mi sembrava, avermi vicino e sentire la mia voce. Non eravamo mai stati così a lungo, insieme, da soli.
Seduto accanto al letto ti parlavo sottovoce. Ti raccontavo ciò che mi passava per la mente: della mia famiglia, di mia figlia, del lavoro, della mamma. Parlando, ti accarezzavo i capelli e ti asciugavo quel sudore freddo che si formava sulla fronte e, a tratti, asciugavo le lacrime che ti stavano inumidendo le ciglia. Continuavo a parlarti, ma da un po’ non ero più sicuro che tu sentissi la mia voce. Verso le sei del mattino, di quella domenica di luglio, il tuo viso cominciò a sbiadire e il respiro a diventare sempre più debole e flebile. Smisi di parlare e rimasi fermo, immobile, a guardarti, poi suonai il campanello. Venne prima un infermiere e poi un medico. Quando rientrai nella stanza tu eri partito. Così, come si prende un treno, un aereo. Eri partito. Andato via, lontano.
Ora che vorrei dirti tante cose, non c’è più tempo per nulla. Non posso dirti più niente. 
Quando avrei potuto e dovuto farlo, non trovavo mai un momento da dedicarti, un minuto per ascoltarti. Solo ora capisco che non eri tu ad avere bisogno di me, ma ero io quello che aveva bisogno di te. Allora vivevo nella convinzione che ci potessero essere altri domani, che la vita ci riservasse il tempo necessario per un altro domani. Non è stato così. Non comprendevo che ciò che la vita ci dona, allo stesso modo te lo può togliere quando vuole. Tutte quelle cose che mi chiedevi di fare, e io invece rinviavo sempre, ti lasciavano indifferente, perché alle mie scuse tu annuivi e tacevi, ma forse non era così. Quante volte ho mancato alle promesse fatte? Tante, troppe volte, ed ora non posso più rimediare. C’era il lavoro. Il lavoro veniva sempre prima di tutto. C’era sempre qualcosa di più importante da fare, qualcosa di più urgente. A volte temevo il giudizio degli altri e allora non mancavo mai un loro appuntamento. Ma con te ne ho mancati tanti, troppi, e adesso me ne rendo conto. 
Rimandavo perché credevo che ci sarebbe stato altro tempo, ancora tempo, e non capivo che era il tuo di tempo che mancava. Ora sono qui a chiederti scusa. Sì, ti chiedo scusa, papà, per le volte in cui ho rimandato quello che mi chiedevi, mentre tu ti limitavi ad annuire e a sorridere. Quante volte ti ho promesso: “questa sera passo” e poi, preso da altri impegni, magari meno importanti o addirittura futili, rimandavo. A volte non mi scusavo nemmeno con una telefonata. Capirà, mi dicevo, facendo spalluccia e concentrandomi su quello che ritenevo più importante, improrogabile. 
Ora penso a quei vuoti non colmati, a quelle frasi che ti ho lasciato morire dentro; alle delusioni che ti ho procurato. Ai tanti momenti persi e sprecati lontano da te, mentre tu invece sentivi il bisogno di avermi vicino. Ora che non ci sei più, ora che sei partito senza che io potessi rivolgerti un ultimo saluto, stringerti un’ultima volta, sento il peso di queste mancanze. Quanti rimpianti, quanti rimorsi. 
Quante domande mi sono rimaste strozzate in gola da quando non ci sei più. Solo tu avresti potuto colmare le mie curiosità, ma le risposte le hai portate via con te, assieme al tuo bagaglio d’anni, di amarezze ed esperienze, vissute in un tempo lontano e non ripetibile. 
Ti voglio bene e mi manchi. Mi manchi tanto. E’ triste svegliarsi un mattino con la nostalgia dei propri cari e pensare a quello che non può tornare. Non te lo avevo mai detto, forse perché lo ritenevo frivolo e pudico, dirlo da adulto, ma è così: ti ho sempre voluto bene, e te ne voglio anche ora che sei partito in quella domenica di luglio senza che io potessi stringerti un’ultima volta. 
Ieri è stato il 19 marzo, la festa del papà ed io, in ritardo come sempre, ti mando, solo oggi, i miei più sentiti auguri, papà. Scusami». 
 


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