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Istinto materno/Dove abbiamo sbagliato

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

27
MAR
2015
Il figlicidio   spesso è  il risultato di un grido silenzioso rimasto inascoltato. È quindi utile indagare e comprendere il delicato ruolo della  madre nella complessa società attuale. Ecco il parere dello psicologo Nicola Ghezzani 
 
 
 Nel coro diffuso sulla retorica della maternità, Simone De Beauvoir, già nel 1980 cominciò a demitizzare la maternità e soprattutto l’innato istinto materno, sostenendo che non si nasce madre ma si diventa attraverso un lungo percorso interiore fatto di inadeguatezze, sentimenti contrastanti, periodi di difficoltà. Essere madre non è un’attitudine innata, anzi si impara ad allevare un figlio, a conoscerlo e ad amarlo. Lo studio del comportamento delle donne attraverso i secoli, ci fa capire che non esiste una legge universale. Anzi osserviamo un'estrema variabilità degli atteggiamenti a seconda della cultura, delle ambizioni personali, del contesto sociale, psicologico e familiare. Può sembrare difficile da accettare, ma l'amore materno è un sentimento, e dunque come tale  è incerto, fragile, imperfetto. Non va dato per scontato, perché la gravidanza avviene nel ventre e nel pensiero, proprio per questo occorre una cultura della maternità, dell'empatia, una società che valorizzi la donna e accompagni le maternità. L'excursus storico ci dice che è Jean-Jacques Rousseau, pubblicando l'Emilio nel 1762, a dare un  forte  avvio all'idea dell'amore materno, costruendo  un'ideale femminile di felicità e buona madre,  atto a convincere le donne che occupandosi solo dei figli, con dedizione e sacrificio, avrebbero assunto un ruolo fondamentale e degno nella società, condannando  tutte le donne  non "perfette" e quindi non  atte ad assolverlo  in modo esemplare. In definitiva Rousseau inventò il modello della buona e della cattiva madre che consapevolmente o meno, ci  trasciniamo ancora oggi. La prima a rimettere in discussione questo paradigma culturale e l'innato istinto materno  fu Simone de Beauvoir, svelando  la complessità e le contraddizioni del desiderio di maternità. Partendo da questa premessa si comprende quanto sia complessa la sfera della maternità, quante falsi miti e credenze ci portiamo ancora dietro  e quanto possa essere dannosa quando essa non è desiderata, accettata e vissuta in maniera positiva sia psichicamente, moralmente che fisicamente. A tal proposito, il fenomeno del figlicidio rimane uno dei temi più complessi, dolorosi, umanamente incomprensibili  e moralmente e culturalmente destabilizzanti. Diverse sono le motivazioni che possono spingere una madre a commettere un gesto tanto lontano dalla pietà umana e totalmente contro natura, a partire da  un disagio latente, irrisolto, non ascoltato e compreso dal microcosmo familiare che troppo spesso  è caratterizzato da   isolamento emotivo e comunicativo. Il figlicidio   spesso è  il risultato di un grido silenzioso rimasto inascoltato, sarebbe quindi utile indagare e comprendere il delicato ruolo della  madre nella complessa società attuale. Per tentare di comprendere meglio tale fenomeno, chiediamo il parere del Dott. Nicola Ghezzani, psicologo, psicoterapeuta, scrittore. 
 
Gentile Dott. Ghezzani, chiedo il suo parere circa uno dei temi più difficili e  moralmente/culturalmente destabilizzante, ossia il figlicidio. Cosa può spingere un genitore ad un gesto così lontano dalla pietà umana e contro natura?
 
«Un figlio rappresenta per ogni genitore due cose contemporaneamente, fuse fra loro in modo inestricabile: il figlio come essere umano concreto e il figlio come simbolo di appartenenza sociale. Il figlio è sia un essere umano che dipende da noi, sia un simbolo di relazione con i parenti e la società cui apparteniamo. Quindi, da un lato, il bambino costituisce un test della nostra capacità di stare in una relazione profonda e accuditiva con un essere umano inerme, che ha bisogno di noi e ci ama; dall'altro rappresenta la nostra capacità e volontà di essere tutt'uno con il partner con cui condividiamo la genitorialità, con la famiglia nella quale siamo inseriti e col mondo nel quale viviamo. Nei casi di figlicidio, tutto questo sistema di patti di interdipendenza risulta intollerabile, impossibile da sopportare, persino odioso. E il genitore allora, uccidendo il figlio, distrugge sia la propria disponibilità ad amare e a sacrificarsi, sia il sistema sociale nel quale vive. Uccidere il figlio può essere, quindi, sia una terribile manifestazione di impotenza e di disperazione, sia una ancor più terribile espressione di odio».   
 
Per quanto riguarda questo crimine commesso da mano materna, cosa può dirci? Quali sono  le cause che possono spingere una madre ad un gesto così umanamente  inaccettabile? 
Sappiamo ormai che non si tratta solo di madri folli o senza cuore, ma possono esserci cause di vario tipo, a cominciare dall'abuso di sostanze stupefacenti e/o alcoliche, la presenza di situazioni stressanti o veri e propri disturbi mentali; come la Maternity blues, le depressioni post partum, le psicosi puerperali, la Sindrome di Munchausen per procura, la sindrome di Medea. Qual è la sua opinione in merito?
 
«Innanzitutto farei la distinzione fra omicidio neonatale e omicidio infantile. L'omicidio neonatale riguarda neonati fino a un anno. In molti casi si tratta – se posso coniare una definizione paradossale e sgradevole – di “aborti posticipati”, o, per essere più corretti, di “infanticidi come mezzo di controllo della natalità”. In che senso? Nel senso che se le madri avessero avuto un sereno accesso all'aborto questi delitti non si sarebbero mai consumati. Naturalmente si può ipotizzare anche la possibilità reciproca: se queste donne fossero state accompagnate ed accudite già in fase di prima gravidanza, forse non solo avrebbero evitato il delitto, ma avrebbero scelto di tenersi il bambino. 
Di fatto, le indagini criminologiche concordano nell’affermare che in Italia, con la legge sull’interruzione di gravidanza del 1978 e dopo la riforma del 1981 con la quale è stata modificata la figura criminis dell’infanticidio, i casi sono molto diminuiti. Oggi questo tipo di delitto – l'infanticidio come mezzo di controllo delle nascite – riguarda soprattutto giovani donne straniere, in alcuni casi prostitute, in situazioni di grave degrado. 
Per contro, l'infanticidio adulto (di bambini di un'età superiore a un anno) non ha  mai cause economiche o sociali. Per cominciare a penetrare il mistero di una donna che commette un delitto nei confronti del figlio, occorre riflettere su un dato evidente a tutti, ma idealizzato, quindi non chiarito nelle sue immense potenzialità drammatiche: la vita del figlio dipende interamente dalla madre, quindi la madre ha su di lui potere di vita e di morte. Questo dato di fatto viene descritto dalla psicoanalisi come “sentimento materno di onnipotenza”, ma è uno sbaglio: la madre non ha un sentimento di onnipotenza: è onnipotente. La donna che ha in utero il minuscolo embrione, poi il feto appena formato, poi nelle sue mani il bambino appena nato e poi in casa il figlio adulto che dipende da lei, ha sempre la possibilità di danneggiarlo, ferirlo o sopprimerlo. Dispone di fatto di un potere assoluto. 
Se la maternità è stata vissuta male, nella mente della madre possono scattare due tipi di ideazioni, diverse nei contenuti, ma identiche nella soluzione. Poiché il figlio non è ancora un'entità separata, egli è anche parte del problema che la madre ha con se stessa e col mondo. La prima ideazione è depressiva e nasce da una forma molto paradossale di amore. Nei casi in cui la madre è una donna gravemente depressa, ella può vedere il mondo alla luce di una interpretazione tragica: poiché il mondo è orribile e può solo riservare infelicità, è meglio sopprimere il piccolo per risparmiargli il dolore futuro. Alcune volte la donna si suicida col bambino, e allora parliamo di suicidio allargato, in altri casi prima sopprime il bambino, poi cerca di sopprimere se stessa, ma cade in uno stato stuporoso che le impedisce di farlo. Alcuni di questi casi sono depressioni reattive, dovute a cause oggettive, come per le madri che hanno subito gravi violenze o hanno vissuto in ambienti degradati; altri sono depressioni psicotiche, nelle quali la psicosi irrisolta si proietta e si drammatizza con la nascita del figlio, cioè con l'aumento del senso di responsabilità e di colpa.    
Il secondo tipo di ideazione omicida nasce invece dall'odio. Poiché il bambino è il simbolo dell'appartenenza della madre a un certo contesto, le regole sociali vincolano la donna a una “servitù d'amore” permanente nei confronti del piccolo e, per estensione, nei confronti dell'ambiente odiato. La risposta della madre è di odiare anche il bambino, sin dalla prima fase di gravidanza, perché lui la lega a quel mondo.  Può farlo in modo lucido e consapevole oppure in modo delirante. Faccio un paio di esempi. Medea è lucida e consapevole. A questa donna la legge greca toglierà i figli per darli a Giasone, il marito, il quale si accompagna ormai con con un'altra donna. Medea sta per subire una doppia ingiustizia: è tradita, quindi è disonorata, e in più sta per essere privata dei figli, che le saranno tolti per essere cresciuti dalla sua rivale. A questo punto odia i figli perché sono l'espressione del marito e del potere maschile. Li uccide per odio nei confronti della sua appartenenza. 
Non sono poche le donne che odiano i loro figli perché le privano di libertà, perché sono costrette ad una maternità indesiderata, vissuta come odiosa, per esempio a causa del fatto che hanno avuto una pessima madre o una famiglia abusante. Oppure li odiano perché sono i figli del marito, o figli da consegnare alla famiglia di lui. Altre volte, le madri sono esposte a codici di perfezione talmente ossessivi che il figlio diventa la prova della loro inettitudine e quindi odiato. Tutti questi casi, possono dare luogo a figlicidi consapevoli, oppure a deliri nei quali il figlio è immaginato come un mostro sadico e disturbatore o come una personificazione del demonio».            
 
Se analizziamo l’excursus mitologico, storico-antropologico e giuridico, ci rendiamo conto che il fenomeno del figlicidio è sempre esistito ed anche in numero considerevole, a cominciare dal mito greco antico di Medea (che lei citava, la più nota figlicida di tutti i tempi); storia e antropologia contemporanea ci mostrano la sua perenne  esistenza nella storia. Lei cosa ne pensa?
 
«I bambini hanno cominciato ad esistere come persone dotate di qualche diritto solo da pochi decenni. Per millenni sono stati considerati ombre, fantasmi, che solo divenendo adulti acquisivano una personalità e dei diritti. Tra i greci o i romani, i figli degli aristocratici venivano amati dai loro genitori anche da piccoli. Ci sono epigrafi tombali commoventi che genitori romani di classe elevata dedicavano ai loro figli morti prematuramente. Ma perlopiù i bambini erano insignificanti, tutt'al più venivano considerati come schiavi. Quindi il potere adulto è sempre stato assoluto, finché da appena un paio di secoli (pensiamo ai romanzi di Dickens o di Dostoevskij) li si è visti come dotati di dignità. Ma in gran parte del mondo extra-occidentale sono ancora virtualmente degli schiavi. Quindi lasciarli morire quando sono di peso o inutili non solo è stata la prassi comune nei millenni passati, ma in parte lo è ancora.   
A questo dato agghiacciante si deve aggiungere che il potere materno della donna ha costituito per altrettanti millenni il rovescio della sua sistematica schiavitù. La donna era schiava dell'uomo, ma il bambino era il suo schiavo. A Medea il potere maschile voleva sottrarle i figli, quindi si è vendicata sui figli. La nostra cultura ha rimosso la violenza di cui può farsi portatrice una donna, che ha subito violenze non solo personali ma anche storiche e sociali. La cultura cristiana in particolare ha mistificato la psiche femminile idealizzandola come più perfetta dell'uomo, quindi più buona. Nella cultura induista, invece, c'è la dea Kali a ricordare le potenzialità distruttive della donna. In quella greca c'erano le Gorgoni. La donna ha sempre avuto un doppio potere naturale: il potere di riprodurre e trasmettere la linea genealogica e il potere di accudire. E lo ha usato per esprimere sia i suoi lati migliori, che quelli peggiori». 
 
 
 
Auspicare una maggiore attenzione  nei confronti di questo tema da parte di tutta la società, in un’ottica preventiva significa operare per la nascita alla vita e quindi di conseguenza per la nascita dei padri, delle madri, dei bambini e della famiglia, elaborando un “involucro empatico sociale non giudicante”. Si possono auspicare precoci metodi di prevenzione, ponendo più attenzione al delicato ruolo della  madre nella società attuale? Da quale tipo di prevenzione di può partire?
 
«Assolutamente sì. Va innanzitutto sollecitato il rispetto della condizione umana e sociale della donna, sulla quale gravano tuttora i maggiori pesi nella condizione della famiglia, e un'attenzione particolare alla sua psiche. Ma senza ipocrisie. Non si può essere relativisti culturali e giustificare l'infibulazione o il burqa o la poligamia maschile e poi lamentare che la donna nel mondo occidentale non è abbastanza rispettata. Non lo è mai stata in nessuna parte del mondo. L'educazione al rispetto della donna e delle sue funzioni naturali deve essere pensata entro un quadro  di riscatto e valorizzazione universali della donna.   
Qui da noi, in occidente, sarebbe necessario garantire un'assistenza psicologica costante, fruibile con libertà, al di là del paradigma medico e dello stigma sociale della “malattia”. Dovrebbe essere diffusa a partire dalle scuole una cultura della salute della psiche ordinaria quanto quella che ormai viene dedicata alla salute del corpo, con controlli semestrali o annuali, una cultura psicologica diffusa attraverso semplici chiacchierate con personale specializzato». 
 
Molti figli  non vengono uccisi “fisicamente” ma “psichicamente”, infliggendogli delle piccoli o grandi umiliazioni, non riconoscendoli per quello che realmente sono  e facendoli crescere con un “Falso Sé”. Secondo lei è così?
«Non c'è alcun dubbio che sia così. Molti genitori, sia madri che padri, giungono alla genitorialità con conflitti irrisolti e un bagaglio di frustrazioni di cui spesso non hanno coscienza. E immancabilmente li proiettano sui figli. I figli diventano i ricettacoli delle proiezioni dei genitori, che, sentendosi falliti o delusi della loro vita, si aspettano un riscatto da loro. E allora i figli diventano i “feticci”, gli “oggetti narcisistici” dei loro genitori: studenti modello, schiavi della virtù, o esibizionisti della loro bellezza o audacia o sfrontatezza. Diventano attori a loro insaputa di una parte scritta nella fantasia di un altro. Ma accade anche che il genitore frustrato tema che il figlio gli faccia ombra, quindi lo invidia, lo denigra, lo umilia, creando in lui delle forme complesse di autodenigrazione e di autolesionismo. La vita dei figli è resa complicata dal fatto che c'è un'area immensa della psiche dei genitori che è del tutto in ombra e questa ombra è favorita dall'omertà familiare, dall'errato concetto che nessuno debba mettere il dito nella “vita privata” delle famiglie. E' uno sbaglio. La psicologia dovrebbe diventare, ripeto, un servizio comune e di facile accesso. In Italia abbiamo migliaia di psicoterapeuti e forse decine di migliaia di psicologi clinici. Sarebbe il caso che lo Stato ne facesse un uso più ampio e capillare».    
 
 
 


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