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Marcinelle/ Mio padre, sepolto vivo

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

10
APR
2015
Suo padre Vito era uno dei 262 minatori morti nel 1956 nella miniera di carbone in Belgio. A distanza di quasi sessant’anni, il ricordo e il racconto di una grande tragedia europea nelle parole di Donata Larizza
 
Casualmente, in una clinica cittadina, ho conosciuto la signora Donata Larizza. Tutti e due attendevamo i responsi medici riguardanti un nostro familiare e nell’attesa, lunga come tempi biblici, la signora Donata, per ingannare il tempo, ha iniziato a parlare di sé e della sua famiglia. Diceva che aveva 9 anni quando, per la prima volta, ha cominciato a preoccuparsi: prima per le sorti del padre, poi del marito e ora, a 68 anni, di quelle della figlia. Il padre, Vito Larizza, mi spiegava, era uno dei 262 minatori morti nel 1956 nella miniera di carbone di Marcinelle, in Belgio. 
Teso e spossato per il lento scorrere del tempo, annuivo ma seguivo distrattamente il racconto della signora Donata. Dopo qualche giorno, quando le analisi cliniche risultarono negative e gli interventi chirurgici, di entrambi i nostri cari, erano stati effettuati e andati a buon fine, mi tornò alla mente il racconto frastagliato ma interessante della mamma della paziente che condivideva con mia moglie la stanza della clinica e mi chiesi se non fosse il caso di approfondire l’argomento. Così, un pomeriggio, ho chiesto alla signora se poteva raccontarmi qualcosa in più della sciagura che aveva coinvolto il padre e lei, prima sorpresa per la mia richiesta, è stata ben presto lieta di accontentarmi. 
All’epoca Donata aveva 9 anni ma dopo esserne passati 59, la sua memoria risulta ancora lucida e limpida, sin nei minimi particolari di quelle tremende giornate dell’agosto 1956.
Vito Larizza, classe 1924 era nato a Laterza, in provincia di Taranto, ed era sposato con la signora Maria Giannico e aveva 4 figli. Nel 1950 emigrò in Belgio in cerca di lavoro. Lo trovò nella miniera di carbone Bois do Cazier a Marcinelle. Dopo quattro anni Vito chiamò in Belgio anche la moglie e i loro 4 figli. 
La famiglia, riunitasi nel 1954, si stabilì nel distretto di Marcinelle, a pochi chilometri da Charleroi e la signora Donata, che all’epoca aveva 7 anni, incominciò a frequentare la scuola elementare belga integrandosi nella nuova comunità, formata soprattutto da emigrati italiani e a Marcinelle ricevette anche la prima comunione. 
La miniera di carbone, dove aveva trovato lavoro Vito, era in funzione già dal 1830 ed anche durante le due guerre mondiali continuò ad operare a pieno regime. I minatori impiegati erano 142.000, di cui 63.000 stranieri e fra questi 44.000 italiani. Nell’agosto del 1956 la tragedia. 
L’incendio, nella miniera di carbone Bois du Cazier, scoppiò attorno alle ore 8:10 dell’8 agosto. L’origine del disastro sembra sia stato provocato dall’incomprensione tra i minatori che a quota meno 975 metri stavano caricando sul montacarichi i vagoncini pieni di carbone e i manovratori in superficie. Il montacarichi, con a bordo due carrelli pieni di carbone, avviato al momento sbagliato, incominciò la risalita per portare il carico in superficie ma i due vagoncini, non correttamente bloccati, si sganciarono e andarono a sbattere contro una trave d’acciaio. A sua volta questa putrella tranciò una condotta d'olio, i fili telefonici e due cavi elettrici in tensione, oltre alle condotte dell'aria compressa che servivano ai minatori per respirare e per gli strumenti di lavoro usati in fondo alla miniera. Tutta questa concomitanza di eventi: le scintille del corto circuito, la fuoriuscita di olio dalle condutture tranciate, le strutture di sostegno delle gallerie, tutte completamente in legno, provocarono un imponente incendio. Il fumo e il fuoco raggiunsero ben presto ogni angolo della miniera, tagliando così ogni via d’uscita agli uomini che operavano sotto terra. L'allarme venne dato alle 8:25 da un minatore riuscito a risalire in superficie tramite un secondo pozzo, che confermò quello che in superficie avevano già capito, poiché il motore del montacarichi si era fermato e le comunicazioni telefoniche con le gallerie sotterranee si erano interrotte 
Il 22 agosto, 15 giorni dopo il disastro, mentre dalle gallerie e dai pozzi della miniera continuava ad uscire un denso fumo i soccorritori riuscirono a raggiungere i primi minatori intrappolati e la tragedia si rivelò in tutta la sua gravità: Alla fine i morti risultarono 262, di cui 136 italiani. Dei 275 uomini che quel giorno lavoravano in miniera solo 13 si salvarono. La più grave tragedia avvenuta in una miniera europea.
 
Signora Donata, lei ricorda dove si trovava, o cosa stava facendo, quel giorno?
«Era l’8 agosto del 1956 e accompagnata da mia madre, verso le otto, otto e venti, stavo andando alla colonia estiva. Vedemmo gente correre e capimmo che qualche cosa di molto grave doveva essere successo perché sopra la miniera si stava formando una densa nube di fumo nero, sempre più grande e sempre più alta. Cambiammo strada e ci incamminammo verso i cancelli della miniera, dove mio padre stava lavorando».
 
Suo padre faceva il minatore o aveva qualche altro compito?
«Era minatore e lavorava tutti i giorni dalle 7 alle 16. Aveva 32 anni e quel giorno non sarebbe nemmeno dovuto andare al lavoro. La sua moto non partiva e si stava facendo tardi. Allora uscì di casa e si incamminò sulla strada, dove trovò un passaggio per la miniera».
 
Ricorda qualche particolare dell’incidente che provocò la morte di suo padre?
«Come le ho detto, per colpa della moto quel giorno mio padre arrivò in ritardo e scese nel pozzo assieme ai capi squadra. Lavorava a 1.035 metri sotto terra e si trovava molto più in basso delle gallerie dove scoppiò l’inferno. L’incendio, provocato dalle scintille del corto circuito, determinò una miscela di fumo, gas e acqua contaminata, che si propagò per tutta la miniera. Il gas grisù, che è più pesante dell’aria, scese sino a quota 1.035 dove si trovava mio padre e molti altri minatori, provocandone l’asfissia».
 
La morte dei minatori intrappolati sotto terra, che lei sappia, fu istantanea? 
«I soccorritori, parecchi giorni dopo, mi sembra dopo un mese, quando riuscirono a raggiungere mio padre e gli altri minatori li trovarono morti. Ma sulle pareti della galleria scoprirono delle scritte indicanti, giorno per giorno, le loro preoccupazioni e timori. Le date non erano molte, forse 6 o 7».
 
Quanti giorni dopo la tragedia il corpo di suo padre fu riportato in superficie?
«Il 22 agosto, cominciò il recupero delle salme, ma il corpo di mio padre venne riportato alla luce molto dopo. Era passato più un mese quando mia mamma fu chiamata per il difficile riconoscimento del marito. Molti minatori vennero identificati solo attraverso i loro effetti personali: anelli, accendini, fazzoletti, abbigliamento interno, perché i loro visi e i loro corpi risultarono irriconoscibili».
 
Come vivevate quei giorni tremendi in famiglia?
«Mia madre era incinta di due gemelli che nacquero dopo 40 giorni dalla tragedia, e morirono pochi giorni dopo. I dottori dissero che lo stress accumulato da mia madre era stato trasmesso ai piccoli e i loro corpicini non avevano resistito all’affaticamento. Da questo può immaginare come fossero state tremende quelle giornate per mia madre e per noi figli. Io avevo 9 anni ma ricordo benissimo l’ansia e la paura che regnava in casa. Eravamo supportati da psicologi e sanitari, ma il dolore era così grande che a mia madre provocò delle complicazioni cardiache croniche».
 
Dopo la tragedia, come mi ha raccontato nei giorni scorsi, rientraste in Italia. Tornaste a Laterza?
«Sì. Tornammo con il treno messo a disposizione delle famiglie dei minatori italiani morti nella miniera. Sul treno viaggiavano anche le loro bare. Arrivati a Milano, i dottori e gli assistenti belgi lasciarono il posto ai sanitari italiani e noi proseguimmo il viaggio assistiti dalle autorità italiane. In paese, vennero celebrati solenni funerali a mio padre. A Laterza è stata dedicata anche una via a Vito Larizza, mio padre. Nelle vicinanze, in zona denominata largo Caduti di Marcinelle, è stato posto, in ricordo della tragedia, un piccolo monumento ed un vagoncino originale di quella miniera. Il Presidente della Repubblica Ciampi, ha conferito alla memoria di mio padre e degli altri minatori italiani morti a Marcinelle, la medaglia d’oro al merito civile».
 
Signora Donata, è mai tornata in Belgio a vistare Marcinelle e la miniera di Bois du Cazier, oggi museo e patrimonio dell’Unesco?
«No. Né mia madre, né noi figli ce la siamo più sentita di rivedere quei luoghi. Mia madre ha portato con sè nella tomba il dolore e il ricordo di quella tragedia, da cui non si era più ripresa. Io mi sono trasferita a Taranto, mi sono sposata e ho avuto 5 figli. A volte ho pensato che sarebbe stato giusto tornare, dopo tanti anni, a visitare quei luoghi, ma poi, non me la sono sentita di fare le valige per quel viaggio. Troppi ricordi tristi, brutti, mi riportavano alla memoria il volto sempre sofferente di mia madre e quello sempre sorridente di mio padre».
 
Avrei voluto porle ancora qualche domanda, ma mi accorsi che la signora Donata non raccontava più con naturalezza i ricordi di quei terribili giorni del 1956. In lei si stava facendo strada la malinconia e il dolore per aver perso il padre a soli 9 anni e il ricordo della madre sempre triste e vestita di nero.
 
La ringrazio signora Donata, spero di poter trarre dai suoi ricordi un buon pezzo da pubblicare su Extra Magazine.
«Sono io che ringrazio lei. Sono passati tanti anni da allora, ma come vede il ricordo è sempre vivo e triste. Nel 2003 hanno girato anche un film sulla tragedia di Marcinelle e in una scena si vede una signora incinta, attorniata da altre donne, che aspetta ansiosa notizie dietro i cancelli della miniera. Quella donna era mia madre». 
 


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