Cisternino, una delle punte di diamante della Valle d’Itria, ha ospitato nei giorni scorsi il giornalista Rai. L’ex inviato di guerra ha fatto da padrino all’apertura del Presidio del Libro, presentando la sua ultima creatura edita Rizzoli: Il caffè dei Miracoli
Affrontare tematiche serie con un sorriso? Riuscire a denunciare un malcostume, appendendo al chiodo i sassi della lapidazione e indossando i guantoni dell’ironia? Tutto questo è possibile, ma frutto dell’evoluzione umana e culturale di una persona, in particolare di un essere umano che decide di fare informazione. Cisternino , ”uno dei 500 borghi più belli al mondo”, come l’ha definita il sindaco Donato Baccaro, ha ospitato tra i suoi vicoli bianchi intrisi di memoria, il giornalista Rai Franco Di Mare. Padrino del Presidio del Libro e introdotto dalla Presidente Roberta Leporati, Di Mare ci porta a gustare un espresso di verità e umanità, nel suo Il Caffè dei Miracoli, romanzo edito Rizzoli. «Scrivere un romanzo, significa partorire e lasciare andare i personaggi che ritornano all’autore, nella forma delle impressioni e sentimenti del lettore. Scrivere è come mettere al mondo un figlio e quindi vederlo, una volta cresciuto, intraprendere la sua strada e andare via», afferma Di Mare all’inizio del suo intervento. Una vera e propria matrioska al contrario, Il Caffè dei Miracoli, capace attraverso l’arguta semplicità del plot, di far riflettere il lettore su temi molto più grandi contenuti in esso come la reale disponibilità della società al nuovo, al cambiamento. In una società infatti, che ha la presunzione di definirsi moderna, assistiamo ancora a eventi che dimostrano mentalità demodè. Lo stesso Franco Di Mare ci parla di come a Ravello, diamante grezzo della costiera salernitana, l’illuminato sociologo di fama internazionale Domenico De Masi abbia tentato di destagionalizzare il turismo del comune campano. Si sa, graziose cittadine di mare, vero e proprio polo cosmopolita nei mesi estivi, subiscono l’inevitabile spopolamento nel periodo invernale ed ecco perché De Masi pensò di creare un auditorium che potesse ospitare un Festival della Musica attivo tutto l’anno. L’arretrata tendenza al complottismo di alcune menti del comune salernitano, ha boicottato il progetto e l’auditorium viene attualmente utilizzato per la proiezione di qualche film e per la celebrazione dei matrimoni civili. Come raccontare tutto questo? «Per farlo», racconta Di Mare «avevo due strade: riferire di questo episodio da giornalista alla maniera dell’ottimo best seller La casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, o scegliere la strada della finzione. Mi interessava capire perché la gente sia così tanto restia al nuovo e ho deciso di arrivare al cuore delle persone, per la strada secondaria ma non meno importante dell’ironia». Un evento infatti a dir poco esilarante, accade nella città di Bauci descritta nel libro; liberamente ispirata alla Bauci delle Città invisibili di Italo Calvino, sospesa sulle nuvole e ben lontana dal mescolarsi con la popolazione sottostante, la città inventata da Di Mare ha proprio questa caratteristica. Una statua in stile botero, completamente nuda e venuta da chissà dove, giganteggia nella piazza del paese immerso ancora nel torpore dell’alba. Ad accorgersene, il povero e ignaro netturbino che terrorizzato, non sa come riferire al parroco di Bauci che l’enorme sedere della statua, è rivolto proprio alla chiesa della cittadina. Un vero sacrilegio! E tra mille peripezie e paesani che si dividono tra il voler salvare una novità artistica piovuta dal cielo, e l’allarmismo di chi vuole preservare la decenza di Bauci, sfila l’umanità immaginata da Di Mare. Dalla giovane sedicenne tatuata, appassionata di rap e in panico per aver saputo della propria gravidanza, all’intraprendente sindaco che vuole strumentalizzare l’accaduto al fine della captatio benevolentiae della sua cittadinanza. Tutti sono Franco Di Mare. Tutti e nessuno naturalmente, ma la grandezza di un autore sta proprio nel diventare carne della carne dei propri personaggi, parlando come loro, sentendo come loro. Il pubblico in sala, ha dimostrato grande interesse nei confronti della serata e delle parole di Franco Di Mare, sapientemente a metà strada fra l’intensità dei suoi racconti di guerra e la sagacità di alcune battute, proprie della simpatia e del calore del sangue campano. Evitando inutili e odiosi provincialismi e timori reverenziali nei riguardi di una “celebrità”, affermo con sicurezza di aver ascoltato un uomo, prima di un giornalista e uno scrittore, e soprattutto un uomo onesto. Lascio infatti a voi giudicare, cari lettori,donandovi la lettura del commento che gentilmente Franco Di Mare ha rilasciato in sala, alla redazione di Extra Magazine:
Lei ha descritto nel Suo ultimo libro lo sciacallaggio dei giornalisti in cerca sempre di uno scoop. Da ex inviato di guerra e firma autorevole di quello che era forse il vero giornalismo, cosa pensa di questo mondo oggi? Ritiene che l’involuzione del giornalista a predone di gossip e like, sia ormai irrimediabile conseguenza dello stare al passo coi tempi?
«Ho molta fiducia nel giornalismo, non tantissima nel giornalismo del nostro Paese, devo dire la verità. Ma ho molta più fiducia nel giornalismo in generale, perché vede, la democrazia è un tavolo con quattro gambe: una gamba è il potere legislativo, un’altra è il potere giudiziario, un’altra ancora è il potere del controllo politico e la quarta gamba è il potere del controllo della stampa. Tutti questi poteri si controllano l’un l’altro, ma se la stampa più che fare il cane da guardia, fa il cane da salotto del potere, è allora che il tavolo traballa perché c’è una gamba più corta. Perché il tavolo rimanga ben saldo e in equilibrio, tutti questi quattro poteri devono avere capacità uguali di controllo l’uno dell’altro, invece noi purtroppo e troppo spesso, infiliamo il microfono sotto il naso del politico di turno e poi facciamo sì con la testa, ed è sbagliato. È vero questo, ma è vero anche che esiste un giornalismo che si dà da fare, un giornalismo combattivo, un giornalismo che denuncia le cose. Del resto per fortuna i giornali in Italia sono così tanti, che per il nostro Paese è un grande segno di civiltà. Lei sa il primo segno di civiltà e di modernità dell’Afghanistan qual è stato? Passare dal buio del medioevo culturale dei Talebani, che non permettevano nemmeno a due persone per strada di ridere, a novantaquattro giornali in un mese, appena i Talebani sono stati cacciati. Novantaquattro! C’era una tale sete di conoscenza, che sono nati novantaquattro giornali in un attimo, quindi quello è il segno che una civiltà civile e attrezzata, funziona. Certo non sempre funziona come dovrebbe o fa ciò che vorremmo noi, però c’è da dire un’altra cosa, una sorta di mea culpa: quando avevo ventisei o ventisette anni… tre anni fa… Scusate che ridete? (scherzosamente al pubblico in sala, ndr) arrestarono Enzo Tortora e lo sbatterono in galera con le manette ai polsi facendolo passare davanti alle telecamere ai fotografi. Enzo Tortora era un galantuomo, ma noi non lo sapevamo e i due magistrati che condussero l’inchiesta ce lo indicarono come un pericoloso criminale, come la mente, il grande vecchio che governava le relazioni della camorra a Napoli, perché c’era un uomo che lo accusava. Noi tutti scrivemmo così, tutti quanti, e per mesi e mesi, Enzo Tortora venne etichettato come il criminale. Poi venne fuori che non era vero, non era vero niente e che era una montatura, ma noi a seguito di quei mesi, abbiamo provocato un tumore a quell’uomo. Ora non so quale relazione ci sia tra i malati di cancro e un forte periodo traumatico, fatto sta che all’epoca quello che successe fu una nostra responsabilità, una mia responsabilità. Io chiesi scusa non privatamente, ma pubblicamente durante una puntata di Uno Mattina, alla figlia di Enzo Tortora che venne da noi a parlare di un libro del padre e della fiction che sarebbe stata realizzata sulla vita del padre. Me la sarei potuta cavare diversamente, cioè avrei potuto tacere, tanto la figlia di Enzo Tortora all’epoca era una bambina e non avrebbe potuto ricordarsi che proprio io ero uno di quelli che aveva bollato suo padre. Lo avevano fatto tutti i giornalisti italiani, tranne Enzo Biagi. Enzo Biagi due mesi dopo scrisse:
“Hanno arrestato un galantuomo”, e questo fu per noi sconvolgente. Iniziammo a pensare che se il decano dei giornalisti italiani scriveva questo, forse c’era qualcosa che non andava, e incominciammo ad avere i primi ripensamenti. Io quindi non chiesi scusa privatamente alla figlia di Tortora, lo feci davanti alle telecamere, perché avevo infangato il nome di suo padre, essendo stato informato male a mia volta, non avendo verificato la veridicità delle informazioni ricevute. Ora, questo non significa che io sono più bravo e gli altri cattivi; significa che evidentemente noi giornalisti non siamo consapevoli delle nostre responsabilità, che non sono poche… Qualche tempo fa, un giornale che a me non piace moltissimo e che si chiama Il Giornale, pubblicò un articolo molto bello di Stefano Zurlo che parlava di un altro galantuomo che si chiama Giuseppe Orsi, che si è fatto svariati mesi di carcere da innocente. Ora, il caso di un pinco pallino qualunque a me o a voi potrebbe non interessare, ma questo signore era l’Amministratore Delegato della più grande azienda a tecnologia avanzata di questo Paese che è Finmeccanica, che per intenderci produce treni al alta velocità venduti in tutto il mondo e perfino gli aerei dei marines americani. Bene, questo signore viene arrestato la mattina all’alba a casa sua, e viene sbattuto in galera per sei mesi. Il titolo del gruppo va giù, ed era un titolo importante. Questo vuol dire di conseguenza che ci sono meno commesse, che vengono meno posti di lavoro. C’è quindi una grande responsabilità dietro tutto questo, cioè una persona ci dovrebbe pensare bene ad arrestare Orsi senza prove verificate, e noi invece scriviamo che Orsi era un delinquente, lo scriviamo tutti. Mesi dopo lui viene assolto da queste accuse e viene messo fuori, ma intanto ha perso il lavoro, Finmeccanica è andata giù, e lui adesso fa il volontario in un’associazione caritatevole milanese. Quando Zurlo scrive questo, io lo racconto in tv, chiedendomi come sia possibile tutto questo e lui mi chiede di incontrarlo. Accetto e mi fa leggere i dati delle intercettazioni telefoniche che riguardavano Orsi e c’era un sunto nelle accuse, in cui c’era scritto, che lui diceva “Quest’olio puzza” e il suo interlocutore fa, “Eh allora bisognerebbe liberarsene”. Le conclusioni del magistrato sono che evidentemente si sta parlando di un meccanismo di corruttela e quando di parla di soldi, di meccanismi da oliare, si parla di corruzione. Bastava girare la pagina dell’intercettazione e si capiva che Orsi era al frantoio e aveva portato le sue olive, per fare il suo olio, l’olio per sé! Ci hanno passato i documenti, e noi peggio dei magistrati, non abbiamo girato la pagina e Orsi è finito in galera, sputtanato, ha perso il lavoro, Finmeccanica ha perso punti nel ranking nazionale che significa quote di mercato, posti di lavoro, per una sciocchezza del genere. Allora, per concludere, non c’è anche una mia responsabilità in questo, non c’è una responsabilità dell’informazione? È giusto quindi per noi giornalisti, fare i cani da guardia, ma dobbiamo anche sapere se quando abbaiamo, stiamo abbaiando al ladro o al prete che è venuto a darci la benedizione!»
Troverete il video originale della serata al seguente link : https://youtu.be/hrlG3HXsc-g .
Tra le immagini, la dedica ai lettori di Extra Magazine, con il sibillino «…quello che mancava» di Franco Di Mare. Non sapremo mai probabilmente cosa avesse voluto dire, ma di certo è chiaro cosa mancava a noi tutti prima della serata del 18 a Cisternino: un nemmeno tanto scontato e pubblico, respiro di sincerità.