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Le nostre molte archeologie

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

29
GEN
2016
L’archeologia italiana, dopo la fase di profondo radicamento sociale, cui è seguita una fase di acuta depressione anche socio-economica, sta vivendo adesso una fase di nuovo e profondo rinnovamento teorico e metodologico. E questo non soltanto dal punto di vista dei metodi e dei protocolli di ricerca quanto, soprattutto, per le nuove relazioni intraprese con le comunità locali
 
 
In merito alla polemica che sta infuriando sul tema della riforma del Mibact-fase 2, condivido pienamente quello che pacatamente scrivono e affermano gli amici e colleghi Enrico Zanini e Marco Valenti: le legittime perplessità e le eventuali critiche hanno assunto un carattere di personalistica ostilità nei confronti di Giuliano Volpe, quasi che l’esigenza della riforma del ministero fosse una sua personale ossessione (e così non è) prima che una impellente necessità, spero sentita da tutti. Spiace, cari Colleghi delle Soprintendenze e degli Atenei, che alla fine non siano stati manifestati né perplessità né, tanto meno, critiche, possibilmente anche costruttive, così come spiace anche vedere un subitaneo e repentino scadimento in atteggiamenti livorosi e offensivi. Ma tant’è, io esprimo a Giulio la mia personale solidarietà, certo che si difenderà con la progettualità prima ancora che con le parole. 
Dietro la forma, che non mi piace (ma questo può essere un mio problema), c’è, comunque, il metodo. A domanda “come vedete l’abbattimento delle barriere all’interno dei meccanismi della tutela?”, come rispondete? Forse sarò un po’ “passatista” ma non posso non ricordare che la coerenza spaziale e contestuale dei paesaggi non la abbiamo inventata noi ma era concetto già ben chiaro all’illuminista Antoine Quatremère de Quincy. Per paradossale che possa sembrare, la riunificazione delle soprintendenze è una riforma settecentesca… Certo, all’interno dello schema “olistico” (attributo che sembra suscitare irritazioni insanabili) vanno mantenute (e consolidate) le articolazioni delle competenze e le molte professionalità già esistenti. Ci dovranno, pertanto, essere, accanto agli archeologi, anche geoarcheologi e bioarcheologi e così via. L’approccio è, e deve essere, olistico perché la sfida da raccogliere è quella della tutela e della valorizzazione non più di una sommatoria di beni culturali di diversa tipologia e di diversa afferenza accademica ma anche, e soprattutto, di patrimoni territoriali e paesaggistici che comprendono al loro interno molte cose diverse ma interrelate.
Leggo di Spadolini che si rivolterebbe nella tomba per lo strazio che verrebbe fatto del suo ministero fondato nel 1975. A parte il fatto che, secondo molti storici della tutela del patrimonio culturale italiano, il ministero sarebbe nato già vecchio e subito appesantito da una ingovernabile burocrazia, vi rendete conto che stiamo parlando di 41 anni fa? 
Leggo che si starebbe rivoltando nella tomba anche Ranuccio Bianchi Bandinelli, autore della memorabile lettera di dimissioni nel 1960… Strano, questo, perché i veri innovatori sono quelli che aspirano ad essere superati, non epitomati all’infinito. 
Leggo, sempre più incredulo, che si vuole deliberatamente assassinare l'archeologia italiana. A me pare che la nostra archeologia viva una fase di grande difficoltà ma anche di grande effervescenza. Sarebbe inutile negare che abbiamo pochi soldi (tutti, Università, Soprintendenze, Imprese del settore, Associazioni). Però è altrettanto vero che l’archeologia italiana, dopo la fase di profondo radicamento sociale degli anni belli in cui si realizzavano parchi, musei e percorsi, cui è seguita una fase di acuta depressione anche socio-economica, sta vivendo adesso una fase di nuovo e profondo rinnovamento teorico e metodologico. E questo non soltanto dal punto di vista dei metodi e dei protocolli di ricerca quanto, soprattutto, dal punto di vista delle nuove relazioni intraprese con le comunità locali. Le ricadute pubbliche virtuose delle nostre molte archeologie (così povere di mezzi) sono in questo momento straordinariamente visibili e tangibili. E’, dunque, dal confronto con la società e con comunità al tempo stesso sempre più soggette a stress culturali e curiose di archeologia, che dobbiamo trarre nuova linfa e nuovi stimoli. O raccontiamo in modo globale e convincente i paesaggi che ci circondano, con tutti i loro antropofatti (materiali e immateriali) e con tutti i loro ecofatti, oppure sarà difficile porre in essere una vera tutela e una vera valorizzazione.
Infine: come possiamo immaginare una valorizzazione solo “normativa” e non anche scaturente dal confronto fra pubblico e privato? E’ pensabile, oggi, che si possa fare valorizzazione (ma anche tutela) prescindendo dal mondo delle associazioni grandi e piccole, spesso capaci di partecipare alla progettualità culturale, spesso molto presenti e vigili in territori anche molto difficili?
Mai come in questo momento, da laico, avverto come un problema gli atteggiamenti confessionali. Nel mondo stanno creando sconquassi sanguinosi. Per questo, prima delle chiese e delle fedi, deve esserci lo stato. Lo stato laico, ordinatore e comprensivo, però, non lo stato dottrinalmente inteso come normatore assoluto e infallibile di tutti i rapporti sociali.
 


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