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UN REGALO SPECIALE

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

5
GEN
2017
Da tempo ormai vivevo da sola. In quella tipica solitudine che colpisce la vecchiaia quando non si ha più il marito e i propri figli sono lontani. Ma quella domenica ero felice perché doveva venirmi a trovare mia figlia Aurora con suo marito Giorgio e la loro figlioletta Daniela. Non risiedevano in città, per lavoro si erano dovuti trasferire e così, quando Aurora me lo anticipò per telefono, cominciai a darmi da fare. 
Arrivarono che ero ancora alle prese con pentole e tegami sul fuoco e mentre mio genero, con i suoi giornali sportivi,se ne era andatonella stanza che era stata di mia figlia e Aurora aveva portato la bambina in salotto per farle vedere i cartoni animati,sentii chiedermi che cosa fossero quegli obbrobri.
«A cosa ti riferisci Aurora?» Domandai.
«A queste due brutture qui, scolorite, scheggiate e impresentabili».
Risposemi a figlia, presentandosi in cucina con le due statuette di terra cotta che avevo appoggiato sul tavolinetto d’angolo, dove prima tenevo il telefono.
«Rimettile al loro posto, per favore. Sono brutte ma per me hanno un valore particolare. Sono un regalo». Le risposi, forse anche in modo brusco. Mia figlia le soppesò tra le mani, mi guardò stupita e facendo spalluccia tornòin salotto.
«Dopo pranzo, con calma se vuoi, ti spiegherò. Intanto per favore rimettile dov’erano». Le ripetei, mentre scolavo la pasta.
Finito di pranzare, mentre mio genero e la bambina erano andati a riposare, Aurora ed io, finito di lavare i piatti,ci trasferimmo in salotto e,invece di accendere la televisione, le indicai le due statuette di terracotta e le spiegai del perché fossero così importanti per me.
Le dissi che me le aveva mandate dalla Nigeria la mamma di un ragazzino che avevo conosciuto un giorno che ero andata a fare la spesa al supermercato. Davanti all’ingresso, prima delle porte scorrevoli, c’era questo ragazzo di colore che poteva avere tra i quindici e i sedici anni. Salutava tutti quelli che entravano e uscivano con un buongiorno signora o buongiorno signore. 
Povera gente, pensai, fanno davvero pena. Però ci creano anche un sacco di problemi, sono diventati troppi ormai e si dovrebbe fare qualcosa di concreto per fermare questo flusso incontrollato e infinito di extracomunitari. Ormai ce li troviamo davanti ad ogni passo che facciamo: davanti ai supermercati, ai panifici, ai bar, ai tabaccai, ovunque ci sia del movimento loro sono sempre presenti, lì,a chiedere l’elemosina e a dare a tuttiil loro buongiornosignora, buongiorno signore, e quando arrivai a pochi passi dall’ingresso delsupermarket, dove ero andata per fare la spesa settimanale, quel ragazzo lo disse anche a me:
«Buon giorno signora». 
Era sedutosu una pedana di legno, di quelle che usano per il trasporto delle merci, con il suo berretto in manoche allungava quando qualcuno gli passava accanto. Gli buttaidistrattamente un’occhiata e risposi al suo saluto con un semplice sorriso e proseguii.
Quel giorno esagerai nel fare la spesa. Arrivata alla cassa, non sapevo più dove mettere la roba che avevo acquistato. Buste e bustoni, sembrava non dovessero bastare mai.
«Signora, se vuole, può farsi aiutare dal ragazzo di colore che sta davanti all’ingresso».
Mi dissi la commessa, quando notò che mi stavo trovando in difficoltà.
La guardai perplessa e poi le chiesi se lo conosceva, se mi potevo fidare.
«Si signora, può stare tranquilla, aiuta spesso le signore e gli anziani. Lo fa per qualche spicciolo e se glielo chiede, sicuramentesi presterà volentieri anche per lei». Mi rispose la cassiera.
Uscii all’esterno per cercarloe lui era lì, con il berretto in mano cheripeteva il suo ritornello:
«Buongiorno signora». 
«Senti, mi faresti un favore? MI aiuteresti a prendere la spesa a casa, che da sola non ce la faccio?» Gli chiesi.
«Subito signora».
Mi rispose, scattando come una molla ed entrando nel locale per prendere la spesa e, senza darmi il tempo di rendermene conto,era già tornato con i miei bustoni.
«Sono pronto, signora».Mi disse sorridendo.
Nonostante tutto l’ingombro che reggeva, camminandomi a fianco sembrava contento, allegro. Come se finalmente avesse trovato qualcosa da fare.
«Come ti chiami?» Gli chiesi, tanto per rompere il ghiaccio e anche per rendermi conto con chi avevo a che fare.
«Yabo. Signora». Rispose.
«E da che parte dell’Africa arrivi?» 
«Dalla Nigeria signora. Da un piccolo sobborgo vicino ad Abuja».
«Parli bene l’italiano. È da molto che sei qui?»
«Quasi due anni, signora».
Durante il breve tragitto gli feci altre domande e così seppi che era arrivato in Italia su un barcone,assieme ad altri centinaia di profughi e sfollati. Gente che scappava dalla guerra, dalla miseriae dalle epidemie.Era arrivato in Italia da solo, e adesso viveva alla giornata, racimolando qualche moneta davanti ai supermercati, facendo piccoli lavoretti o, quando era il periodo del raccolto, andando nelle campagne e cercare lavoro. Aggiunse che era il maggiore di quattro fratelli e di due sorelle, che il padre era morto mentre lavorava in una miniera e che da allora la madre non era più riuscita a mantenere i sei figli.
Così si era deciso e, attraversata tutta l’Africa a piedi o con mezzi di fortuna, era arrivato sulle coste del Mediterraneo e lì si era imbarcato su un barcone di fortuna. Era solo, molto giovane, piccolo e gracile, ed era riuscito a confondersi tra quelle migliaia di disperati e a salire a bordo di una carretta del mare. Tutta la traversata la fece stipato, assieme ad altri disgraziati, nella stiva di quel peschereccio e quando arrivò sulle coste italiane,per la paura di essere ripreso e rimandato in Nigeria, si dette subito alla fuga.
«E di tua madre, della tua famiglia, ne hai saputo più nulla?» Chiesi.
Mi rispose che dopo un anno di tribolazioni era riuscito a mettersi in contatto con loro e che era anche riuscito a mandare qualche soldo a casa.
«E quanto hai potuto mandare? Quanto sei riuscito a racimolare?» Gli chiesi stupita.
Mi rispose che era riuscito a mettere da parte una piccola somma, ma che nel suo Paese, con quella cifra, la sua famiglia avrebbe tirato avanti un mese.
«Ma forse un giorno riuscirò a tornare a casa, a rivedere mia madre e i miei fratelli». Concluse, con gli occhi che gli brillavano.
Gli stavo per chiedere se avesse un posto dove stare in Italia, dei parenticon cui vivere, se aveva il permesso di soggiorno. Ma dalla reticenza con cui rispondeva, intuii che non aveva piacere a raccontare molto di più di ciò che aveva già detto e allora, per non metterlo in imbarazzo o creargli delle ansie inutili, non insistetti oltre.
Arrivati davanti al portone, lo aprii e lui mi seguì con il suo carico. 
«Se vuoi signora, porto tutto io sino a casa». Mi disse, mentre stavo per entrare in ascensore.
«Va bene,dai. Sali con me. Ma mi raccomando, niente scherzi. Capito?»
Gli dissi, non sapendo nemmeno io perché lo avessi detto.
Entrammo in casa assieme e quando lasciò le buste della spesa sul tavolo, mi chiese se potevodargli un po’ di pane, di quelloche aveva visto in un sacchetto.
«Hai fame?» Gli chiesi sospettosa, e attenta a non perdere di vista la mia borsa.
«Si signora. Ho sempre fame. Mangio quando trovo qualcuno che mi da qualcosa. I soldi che ricevo cerco sempre di metterli da parte,così da poterli mandare a mia madre».
Feci un po’ di posto sul tavolo e lo invitai a sedere.
«Che cosa preferisci?» Chiesi, aprendo il frigorifero.
Lui mi guardò stupito, non rispose, ed io mi sentii una stupida per aver fatto quella domanda sciocca. Allora tirai fuori tutto quello che avevo e glielo misi davanti.Più che con appetito mangiò con avidità e alla fine mi ringraziò con un sorriso disarmante, che aveva tutte le caratteristiche di un ex voto per una grazia ricevuta, che per quello che gli avevo dato. Prima di andare viagli detti anche delle monetine e gli dissi che segli capitavaancora di avere fame, e non trovava di meglio, poteva tornare da me.
«Non dargli niente e soprattutto non farlo entrare in casa. Non hai pensato che in questo modo può osservare bene la situazione e poi venire a svaligiarti casa con i suoi compari?»
Mi disse un’amica, un giorno che ci incontrammo per strada, mentre stavo dando delle monetine aYabo. Non risposi nemmeno.
Da quel giorno, lo rividi spesso davanti a quel supermercato e ogni volta che mi salutava,aprivo il borsellino e gli davo degli spiccioli e a volte, anche se non ne avevo bisogno, mi facevo aiutare a portare la spesa a casa e poi, dopo avergli chiesto: fame? Gli aprivo il frigorifero.
Mi faceva una tenerezza infinita quel ragazzo educato, ma sempre triste. Nei lineamenti era uguale a tanti suoi coetanei, ma anche così diverso e lontano dalla vita quotidiana dei nostri figli. Così, quando lo vedevo davanti al supermercato, compravo qualcosa anche per lui e gliela davo, e quando mi chiedeva se poteva venire con me, a casa mia per fare colazione, io sorridevo egli rispondevo sempre di sì.
Un giorno, oltre alla colazione e alle poche monete che di solito gli davo, aggiunsi una banconota, e non potei fare a meno di pensare all’ingiustizia che stavano subendo, lui e tutte le persone come lui,che avevano la sfortuna di nascere in luoghi in mano a sfruttatori o in Paesi in perenne guerra fra di loro.
I mesiscorrevano e lui era sempre lì, davanti al supermarket,con il suo berretto in mano a dire buongiorno signore, buongiorno signora. Era molto silenzioso, quasi si vergognasse della sua condizione. Poi non lo vidi più, e pensai che fosse rientrato definitivamente a casa sua. Che fosse finalmente riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia,oppure si fosse trasferito in qualche altra città. Invece, più o meno un anno dopo, sentii suonare il campanello di casa e me lo trovai dietro la porta. Anche se il viso manteneva ancora un’espressione infantile che mi colpì, in un anno era cambiato tanto, era ancora più magro di come lo ricordavo,ma sembrava un adulto ormai.
«Ciao Yabo, sei tornato!» Esclamai contenta.
«Si sono di nuovo qui, ma sto per partire». Mi rispose sorridendo einfilando una mano nel borsone che teneva ai suoi piedi. Ne tiròfuori un pacchetto avvolto in un foglio di giornale, del quale si notava la stampa in caratteri arabi, e che era legato con due giri di spago.
«Per te signora». Disse porgendomelo.
«Per me?» Chiesi meravigliata.
«Te lo manda mia madre, perché hai dato da mangiare a suo figlio e sei stata molto buona con me».
Ero talmente sorpresa e commossa che non sapevo cosa dire. Presi il pacchetto, lo aprii e tra i fogli di giornale apparvero quelle due statuette di terracotta.
«Sono bellissime. Ma la tua mamma non doveva disturbarsi». Esclamai.
«Come vedi signora, non sono nuove. Ma da noi il dono ha valore solo se regaliamo qualcosa che è nostro, che ci appartiene e che ci è caro, e questo era un ricordo di nostro padre, a cui mia madre teneva tanto». Mi disse, quasi a giustificare la base delle statuine un po’ sbeccatee i colori in certi punti mancanti.
«Allora mi piacciono ancora di più, e le terrò sempre con grande cura». Risposi commossa.
«È l’ultima volta che vengo a trovarti signora. Sono qui per salutarti e per darti quelle. Sto andando in un altro posto, lontano da qui. Un mio amico ha trovato lavoro in una città del nord e dice che c’è posto anche per me, e mi ha detto che lì potrò avere anche una stanza tutta mia. Sono contento, ma mi dispiace non vederti più signora. Sei stata buona con me. Grazie».
Mentre parlava, mi era venuto un groppo alla gola che non andava né su né giù.
«Hai fame? Vuoi fare colazione?» Gli chiesi, ma solo per darmi un contegno e per non mettermi a piangere davanti a lui.
Yobo mi fece cenno di no, che aveva fretta, perchélo stavano aspettando e doveva partire subito. Aveva chiesto al suo amico di passare da me un momento, perché doveva lasciarmi il dono di sua madre e per potermi ringraziare.
«Aspetta un attimo». Gli dissi, e andai in cucina a prendere al volo delle merendine, dei crackers e tutto quello che mi venne in mano in quel momento e lo misi nel suo borsone. Gli detti anche dei soldi, che lui accettò volentieri e poi gli augurai buon viaggio. Buona fortuna.
«Grazie ancora del regalo e di essere venuto a salutarmi» gli dissi,mentre ormai stava scendendo frettolosamente le scale. 
Girai tra le mani le due statuette,le osservai intenerita e, al pensiero che erano di una madre che aveva volutoprivarsene per regalarle a un’altra madre,per ringraziarla delle attenzioni che questa aveva rivolto a suo figlio, mi vennero le lacrime agli occhi…
«E ora, nonostante sia passato tanto tempo, spesso mi trovo a pensare a quel ragazzo dal nome strano e che ormai sarà diventato un uomo. E mi domando se la dove è andato a cercare lavoro si sarà trovato bene o se, invece,a causa della pelle nera e della sua condizione di extracomunitario, gli sarà capitato di sentirsi discriminato. E poi penso anche alla sua mamma e sento che nonostante la distanza e le condizioni tanto diverse che ci separano, c’è una cosa fondamentalee assoluta che ci accomuna».Conclusi. 
«E, cioè?» 
Chiese mia figlia, continuando a soppesare tra le mani le due statuette. 
E allora le spiegai che era quel sentimento universale che anche lei stava provando per Daniela e che unisce tutte le mamme di ogni latitudine, di ogni parte del mondo;che è sempre lo stesso euguale per tutte. Che siano esse nere, bianche o gialle. Che siano ricche o povere. Che vivano in una grande città, in campagna o inun villaggio sperduto di altri continenti. Ed è un sentimento granitico,che non verrà mai meno. Perché è quell’amore incondizionato e indissolubileche ogni madre riversa sui propri figli, da quando essi nasconoe per tutta la vita.
 


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