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DOPO LA DELUSIONE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

27
APR
2017

Era il giorno del nostro anniversario e il tempo era orribile. Per tutto il giorno non aveva smesso di piovere. Una pioggia gelida e insistente che aveva allagato le strade. Così, per andare all’appuntamento con Andrea avevo chiamato un taxi. Avevamo litigato. Ancora una volta, litigato.
Stavamo assieme da due anni ma negli ultimi tempi le cose erano cambiate. Si litigava spesso. Andrea era diventato superficiale.Sempre nervoso, sfuggente e se gli chiedevo il motivo, non rispondeva o addossava la colpa a me o al suo lavoro.
Anche questa volta, dopo il litigio, ero stata io a fare il primo passo, a cercarlo. Lo avevo chiamato, avevamo parlato, gli avevo ricordato la data del nostro anniversario e gli avevo chiesto di non tenermi il broncio e di non far passare quella giornata senza vederci.
Da prima tergiversò, disse che era impegnato con il suo lavoro, che aveva una serie di appuntamenti con dei clienti.Andrea lavorava come collaboratore scientifico e a volte, era vero, veniva trattenuto da contrattempi, da impegni dell’ultimo minuto. Lui ci teneva molto al suo lavoro, voleva fare carriera, dimostrare quanto valesse, così, dopo averlo pregato sino allo sfinimento, sono riuscita a strappargli la promessa che ci saremmo visti in serata, verso le otto, direttamente davanti a un ristorante del centro.
Prima di chiudere la telefonata mi disse che lui era occupatissimo e perciò mi dovevo interessare io per prenotare un tavolo. Era venerdì, ed era meglio non correre rischi.
Ero sulle spine, non lo vedevo da tre giorni ed ero in ansia, ma anche contenta per l’appuntamento che mi aveva dato. Avremmo parlato, avremmo chiarito e così avremmo potuto festeggiare serenamente il nostro secondo anno di fidanzamento.
In serata faceva freddo e continuava a piovere. Ero intirizzita e allora, pagato il taxi, decisi di entrare da sola nel ristorante e attendere Andrea all’interno. Quando entrai, il locale era già affollato di gente e i camerieri, tutti in camicia bianca e papillon rosso al collo, stavano girando tra i tavoli. Mi venne incontro un cameriere elegante, in giacca e cravatta, e pensai che dovesse essere il direttore di sala. Mi salutò, mi aiutò a togliermi il mio cappotto e poi mi condusse alnostro tavolo.Ne fui contenta, per il piacevole tepore che emanavano le fiamme del caminetto.
Il cameriere si chiamava Alessandro ed era un bel ragazzo con un sorriso dolce, aperto e mi mise subito a mio agio. Gli spiegai che aspettavo il mio ragazzo, che avevamo appuntamento all’ingresso ma che ero entrata da sola perché continuava a piovere e faceva freddo. Lui annuì elasciò sul tavolo i menu e la bottiglia dell’acqua. Mi diede qualche consiglio, ma io gli dissi che preferivo aspettare prima di ordinare. Allora sorrise, mi fece una specie d’inchino e si allontanò.
Mentre sorseggiavo un po’ d’acqua, mi guardai attorno. Tante coppiette stavano già cenando e chiacchierando amabilmente. Come avremmo fatto noi tra breve, Andrea ed io, pensai. Presto lui sarebbe entrato, magari con un fascio di rose rosse in mano, si sarebbe seduto di fronte a me, avremmo ordinato una bottiglia di buon vino e avemmo iniziato a parlare di noi, del nostro futuro.
Ultimamente le cose non erano andate troppo bene, bisticci tra innamorati, piccole ripicche ma senza conseguenze, ed ero sicura che parlandone, tutto si sarebbe chiarito, risolto.
Andrea aveva già compiuto trentacinque anni e aveva un lavoro stabile, io ne avevo quasi trenta e lavoravo anch’io. Mi sembrava il momento giusto per compiere il grande passo e pensare di crearci una famiglia, e quella sera glielo volevo dire. Mi domandai cosa ne avrebbe pensato lui. Magari si sarebbe messo in ginocchio, e davanti a tutti mi avrebbe chiesto ufficialmente di sposarlo.Certo, un gesto così romantico avrebbe reso la serata perfetta.
Abbassai lo sguardo sulla tovaglia rossa e notai che in un piattino c’erano dei piccoli cioccolatini a forma di cuore. Ne presi qualcuno e li infilai nella borsetta, in ricordo di quella serata. Poi cominciai a scorrere la lista delle pietanze e dei vini, ma dopo un po’ incominciai a sentirmi a disagio a stare lì da sola. Controllai l’orologio. Andrea era in ritardo, ma cercai di non preoccuparmi. Il suo lavoro spesso lo tratteneva in ufficio, alcune volte anche sino a tardi. Di solito, quando succedeva un contrattempo mi chiamava, mi spiegava il motivo, ma quella era una serata speciale e, ne ero certa, sarebbe venuto.Il cameriere elegante intanto tornò da me.
«Posso portarle qualcosa? Magari qualche stuzzichino».Chiese, con il sorriso sulle labbra.
«No grazie, aspetto il mio ragazzo». Risposi, forzandomi di ignorare l’orologio ma consapevole che ormai si stava facendo tardi.Mentre il mio disagio continuava a crescere, mi sembrò che Alessandro volesse dirmi qualcosa, invece annuì e si allontanò.
Mi distrassi guardandolo muoversi fra i tavoli, mentre prendeva le ordinazioni e servivaai tavoli, ma era impacciato, sembrava poco pratico. Quando mi passò davanti, ordinai il vino e poi mi decisi a chiamare Andrea. Era in ritardo di un’ora ormai e non aveva nemmeno chiamato. Mi rispose la segreteria telefonica. “Certo”, pensai, “se è impegnato con il suo lavoro, non vorrà essere disturbato”.
Spostai lo sguardo verso le finestre battute dalla pioggia e mi chiesi con chi potesse stipulare un contratto di vendita alle nove di un venerdì sera. Poi il pensiero che gli fosse successo qualcosa si fece pressante. Un brivido di paura mi salì lungo la spina dorsale e quando Alessandro tornò con il vino, sussultai dallo spavento.
«Tutto bene, signorina?»Chiese timidamente e quasi preoccupatoper avermi spaventato.
«Sì, grazie. Ero sovrappensiero, mi scusi».
«Le posso portare qualcosa? Per rendere meno noiosa l’attesa?» Chiese.
Sorrisi, ma rifiutai e lo assicurai che il mio ragazzo sarebbe arrivato di lì a momenti. Lui annuì, tornò a sorridermi e si allontanò.
Appena si fu allontanato, fui assalita da pensieri angoscianti. Andrea si era forse dimenticato del nostro appuntamento, del nostro anniversario? O peggio, ci aveva ripensato e non sarebbe venuto? Doveva essere accaduto qualcosa, perché anche se fosse stato impegnato in ufficio, avrebbe potuto sospendere un minuto per chiamarmi, per avvisarmi.
Ero al mio secondo bicchiere di vino quando il panico cominciò ad attanagliarmi la mente. Controllai il cellulare: niente messaggi, niente chiamate perse. Allungai lo sguardo oltre l’ingresso, continuava a piovere e pregai che nongli fosse successo niente di grave, e mi consolai pensando che era sempre stato Andrea ad avere dei contrattempi dell’ultimo minuto, come ad esempio il giorno di Natale, quando doveva venire a pranzo da noi e non venne.
Alessandro si avvicinò con il cestino del pane. Probabilmente immaginava che avevo bisogno di mettere qualcosa nello stomaco,dopo il vino.Lo ringraziai senza avere il coraggio di guardarlo in faccia. Mi sentivo umiliata, offesa, per essere stata lasciata da sola la sera del nostro anniversario, ed ero divisa tra la paura che gli fosse accaduto qualcosa di grave e il sospetto che la sua assenza fosse intenzionale.
«Posso portarle qualcos’altro?» Mi chiese ancora il cameriere.
Scossi la testa e dalla borsaestrassi il borsellino. Volevo pagare il vino e andarmene da lì. Avrei preso un taxi, avrei raggiunto Andrea e avrei chiesto cosa gli fosse successo.
Alessandro mi fece un altro dei suoi teneri sorrisi e mi disse di lasciar stare. Lo ringraziai e mi alzai. Se non fossi andata via subito, non sarei più riuscita a trattenere le lacrime e il mio imbarazzo sarebbe stato completo.
«Forse non è la persona giusta per te, se si è dimenticato di venire». Mi disse Alessandro, dandomi del tu.Scossi la testa, incapace di rispondergli ementre mi stavo alzando,vidi la porta d’ingresso aprirsi e Andrea entrare. Fui investita da un’ondata di sollievo, mentre lui si stava avvicinando al tavolo.
«Stai bene?» Gli chiesi, notando il suo viso serio e teso.
«Sì, sto bene, Miriam. Sediamoci». Mi rispose in modo freddo e pensieroso.
Un cameriere si era avvicinato per prendere le ordinazioni, ma lui fece cenno di no, di lasciare stare.
Quello doveva essere un segnale d’allarme per me. Non aveva intenzione di fermarsi?
«Miriam». Incominciò, prendendo il mio bicchiere e bevendo un sorso di vino.
«Dobbiamo parlare».
E in quel momento fui assolutamente certa che quella sera non ci sarebbe stata nessuna rappacificazione.Sollevò la testa, si mosse nervosamente sulla sedia, mi rivolse un mezzo sorriso, ma i suoi occhi erano seri, cupi e cominciò a balbettare…
«È solo che… È solo che ho bisogno di riflettere, di tempo. Ho provato, ma avresti dovuto capirlo anche da teche il nostro è un rapporto che non funziona. Tra noi non potrà mai esserci un futuro. Cerca di capirlo, siamo troppo diversi».
«Andrea, perché?» Mormorai, mentre le prime lacrime cominciavano a inondarmi gli occhi. Lui sollevò le spalle, riprese il mio bicchiere e lo svuotò.
Andrea non era mai piaciuto molto alla mia famiglia. Mia madre diceva che non le riusciva a vederlo tutta la vita al mio fianco, e mia sorella Barbara sosteneva che era un farfallone, uno pieno di sé. Io lo difendevo, rispondevo che non lo conoscevano abbastanza, ma in quel momento pensai che forse avevano ragione loro.
Comparve Alessandro. Le sue labbra erano contratte in una linea sottile, mentre chiedeva ad Andrea se voleva ordinare. Andrea scosse la testa e lo sguardo di Alessandro scivolò su di me, ma tutto quello che riuscii a fare iofu di abbassare la testa.
Andrea si versò dell’altro vino e stava per portarselo alla bocca quando qualcuno lo chiamò. Sull’uscio c’era il suo migliore amico che gli faceva dei cenni e gli chiedeva per quanto tempo ce ne avesse ancora. In quel momento mi fu tutto chiaro. Mi girai verso Andrea e gli versai il contenuto del bicchiere sul viso.
«Come hai potuto. Come hai potuto trattarmi così. Sei venuto quiper dedicarmi un attimo del tuo prezioso tempo?» Gli gridai, poi presi la mia borsa e uscii. Correndo, lacrime e umiliazione si mischiarono alle gocce di pioggia che mi percuotevano il viso.
Adesso pioveva intensamente e mentre rabbrividivo per il freddo, mi ricordai che avevo lasciato il cappotto sullaspalliera della sedia. Ma non potevo tornare la dentro, tutto il mio coraggio e la rabbia erano svaniti, ora ero solo predadi una profonda desolazione.
Stavo avanzando lungo il marciapiede, ingoiando lacrime e asciugandomi il viso con le maniche della maglia, quando mi sentii chiamare. Ma io accelerai il passo, mi misi a correre. Non volevo tornare lì dentro. Troppe persone avevano assistito alla mia umiliazione.
«Fermati, ti prego!» La voce adesso era più vicina. Mi voltai e riconobbi Alessandro, il cameriere elegante del ristorante. Un attimo dopo misi un piede in fallo e scivolai in una pozzanghera. Sentii una calza che si strappava e un forte dolore alle ginocchia. Non riuscivo ad alzarmi. Mi coprii il volto con le mani e pensai di voler morire.
«Ti sei fatta male?» Chiese Alessandro, cercando di farmi alzare.
«Vattene». Gli dissi, per tutta risposta e senza guardarlo. Lui non si scompose e mi aiutò ad alzarmi e mi mise sulle spalle il mio cappotto.
«Ora togliamoci di qui. Ripariamoci da questa pioggia».
Io mi divincolai, stavo per dirgli qualcosa, ma lui non mi lasciò parlare. Mi prese sotto braccio e mi portò in un bar lì vicino.
«Non farmi entrare così. Sono impresentabile. E poi devi pensare al tuo lavoro. Che diranno al ristorante della tua assenza.
«Non preoccuparti. Vieni con me». Ero troppo stravolta, intirizzita e sfinita, per discutere e lo seguii. Entrammo nel bar e una donna uscì da dietro il bancone e ci venne incontro.
«È tutta bagnata. È scivolata ed è caduta in una pozzanghera. Deve cambiarsi o si prenderà un malanno». Sentii dire da Alessandro a questa signora. Non ebbi tempo di replicare, perché subito la donna mi prese per mano e mi accompagnò al piano superiore e mi fece entrare in un piccolo appartamento. Accese le luci e mi portò inuna stanza da letto. Aprì dei cassetti, soppesò tra le mani degli indumenti e poi me li passò.
«Sono di mia figlia e sono un po’ grandi per te ma possono andare bene, date le circostanze». Mi disse, mentre mi stavo asciugando i capelli.
«Ma Alessandro lavora anche qui?» Chiesi stupita alla signora, quando tornammo nel bare lo vidi dietro il bancone che serviva dei clienti.
«Lo ha fatto quando era più piccolo. Ora è impegnato con il suo lavoro».
Io annuii pensando al ristorante, ma la signora proseguì:
«Con un suo collega, ha avviato uno studio tecnico. È ingegnere».
«Alessandro? Io credevo che fosse un cameriere del ristorante qui vicino. Stasera era lì».
«Il ristorante è nostro, come questo bar, e lo gestisce l’altro mio figlio, ma quando c’è bisogno di una mano, specialmente nei fine settimana, Alessandro non si tira mai indietro».
Alessandro mi piaceva sempre di più. Quando mi avvicinai, lui sorrise e uscì dal bancone.
«Sei bellissima, anche con i vestiti di mia sorella» Mi disse sorridendo e porgendomi una rosa rossa che aveva sfilato da un vasetto. Io la presi e una lacrima mi scivolò lungo la guancia. Ma questa volta era una lacrima di commozione, non di vergogna o di umiliazione. La sua dolcezza si stava rivelando un balsamo benefico. Alessandro mi prese per mano e mi invitò a sedere.
«Visto che hai saltato la cena, mi sono permesso di far portare qualcosa da mangiare dal ristorante. Non era il caso che tornassimo lì dentro».
«Spero che tu non ti sia fattoun’idea sbagliata di me. Di solito non vado in giro a rovesciare bicchieri di vino in faccia alle persone». Gli dissi, cercando di sorridere.
Mi prese le mani tra le sue e si protese verso di me.
«Cerca di dimenticare quello che è successo. Quello non ti ama. Non pensarci più».
Mangiammo con calma e intanto Alessandro chiedeva di me, del mio lavoro, della mia famiglia. Mi raccontò della sua vita e del suo lavoro, delle sue amicizie. Alla fine della cena la madre si avvicinò con due cioccolate calde e si sedette con noi, scambiò qualche parola e poi lo pregò di accompagnarmi a casa.
«Guida con prudenza, sta ancora piovendo». Gli disse, prima di abbassare le saracinesche.
Restammo soli e continuammo a parlare ancora per molto. Quando finalmente lasciammo il locale, la pioggia era cessata, il cielo era stellato e Alessandro mi accompagnò a casa con la sua macchina.
«Grazie di tutto. I vestiti di tua sorella cercherò di riportarli a tua madre il prima possibile, e scusami per tutto il trambusto che ti ho creato». Gli dissi, mentre stavamo fermi davanti al mio portone.
«E di che? Io ho passato una delle più belle serate della mia vita». Rispose.
Poi mi guardòintensamente, cercò le mie labbra, io chiusi gli occhi e ci baciammo.
 



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