L’imprenditore marittimo Rinaldo Melucci è il nuovo sindaco di Taranto. Il PD, già azionista di maggioranza della giunta Stefàno, viene riconfermato come partito capofila alla guida della città mentre la campagna elettorale testé svolta verrà ricordata per due elementi caratterizzanti: il non voto e il cinismo nella formazione degli apparentamenti.
Da dove partire per una corretta analisi politica del voto amministrativo del 26 giugno a Taranto? Certamente sono molteplici i fattori da considerare: quale è stato il punto di forza e cosa ha funzionato in un candidato piuttosto che nell’altro? Quale dato ha avvantaggiato l’uno e non l’altro? Quale strategia di comunicazione ha prevalso sull’altra? E quali progetti politici, o meri apparentamenti, sono risultati essere vincenti anziché altri?
Probabilmente, volendo fare un po’ di autocritica per conto d’altri, se un candidato parte con un vantaggio di sei punti percentuali al primo turno sull’altro e poi perde in seconda battuta non v’è dubbio che qualche meccanismo dev’essere saltato. Se la candidata Baldassari ha commesso alcuni errori di comunicazione volendo rifuggire da ogni etichettatura e connotazione politica per rifugiarsi nella demagogia del civismo proprio in un momento in cui la rinascita centrodestra stava cominciando la sua ribalta mediatica, se la stessa si è sottratta dai temi e da alcuni dibattiti mediatici lasciando campo libero all’avversario, se l’astensionismo di solito penalizza l’elettore moderato un po’ “pigro”, non è detto che quel meccanismo saltato sia dovuto non anche a cause di forza maggiore. Per cui è più doveroso rimandare talune riflessioni nelle più opportune sedi di partito.
Se Melucci l’ha spuntata sulla rivale, sebbene con una vittoria di misura e con numeri pressoché esigui (per dirla in termini percentuali con il 50,91% contro il 49,01), ce l’ha fatta solo per una mera equazione matematica: Bitetti più Sebastio più Stefàno uguale Melucci. Apparentamenti taciti o “alla luce del sole” permettendo. Tuttavia, anche in questo caso lasciamo ogni altra riflessione a statistici e scienziati della politica di turno. Resta il fatto che con tali numeri, comunque, il centrodestra tarantino non ha perso. Semplicemente non ha vinto. E ha combattuto con onore contro un carrozzone in cui c’era tutto e il contrario di tutto.
Fa paura però, più del populismo e del voto di protesta, cui è la sua più naturale prosecuzione, la assai forte diserzione dei cittadini tarantini dal voto. Occorre precisare, al proposito, che col termine “elettorato” s’intende tutto l’intero numero di cittadini maggiorenni aventi diritto al voto, entro cui vanno distinguendosi votanti e non votanti. Ebbene, in questo secondo turno, alle ore 23 in punto solo il 32,88% degli aventi diritto al voto ha deciso di esercitarlo ed esprimere la sua preferenza per uno dei due contendenti. Un dato sconfortante sotto il profilo dell’educazione civica, che non nasconde però alcune attenuanti.
Se “il partito del mare” ha preso il sopravvento, con buona probabilità, è anche perché (vuoi l’afosa giornata di sole battente!) le due opzioni in scheda non hanno fatto breccia nei cuori degli ambientalisti più militanti, grillini e verdi in primis, tanto da essere attratti più da un tuffo spensierato nelle acque del litorale salentino. Ma c’è di più. Nella percentuale dell’astensionismo va anche ricompreso, però, il partito del “cemenefuttame” ossia il partito dei distratti, dei disaffezionati, dei delusi e dei pessimisti che delegano agli altri le scelte del proprio futuro “tanto non cambierà mai niente”. E in questi termini anche il non voto è da considerarsi già una scelta politica.
Insomma. A elezioni ultimate la politica non è più un’opinione ma una scienza empirica. E la matematica parla chiaro. È certo che il popolo è sovrano e la sua volontà va rispettata anche se non la si condivide, e se il popolo dopo dieci anni ha riconfermato il centrosinistra al potere vuol dire che ha ritenuto Taranto una città ben amministrata e quindi l’uscente giunta Stefàno una brillante amministrazione, degna e capace di proseguire nel suo progetto politico riformatore.
Un fatto opinabile, ovviamente. Ma con una vittoria di Pirro, a Melucci spetterà aprire una fase nuova, di “pacificazione della città”, e dimostrare che il suo non sarà un governo “collaborazionista” di Roma o di Bari ma di autodeterminazione del popolo. E se poi vorrà durare qualche mese un po’ più in là, ove necessario, è scontato dire che dovrà rispettare le promesse fatte in campagna elettorale agli alleati dell’ultimo minuto e mostrare i muscoli a chi - dopo averne dette di cotte e di crude - nel suo nome si è frettolosamente ravveduto ed è rimasto folgorato come Saulo sulla via di Damasco. Come i vari Bitetti, Sebastio e i delfini di Stefàno. Ivi incluso, nel segreto dell’urna, Giancarlo Cito.