Siamo in molti a volere che questa campagna elettorale finisca al più presto: le mie piante innanzi tutto, giacché per rilassarmi la sera do acqua alle piante del giardino, e maggiore è stato il carico della giornata e più innaffio: dopo l’iniziale exploit di fiori inizio a vedere qualche segno di sofferenza se non proprio di annegamento. Anche le ragazze che si occupano del mio maquillage prima di andare in onda non vedono l’ora che finisca la campagna elettorale: loro, piccine, fanno il possibile, ma hai voglia a truccare, l’unico modo per non far trapelare stress e stanchezza sarebbe quello di presentarmi davanti alle telecamere con un cappuccio nero in testa, magari girata di spalle – tanto una donna può dare le spalle senza tema di risultare maleducata. Ma sopra ogni cosa, se non arriva il fine settimana cruciale, non riuscirò mai a finire i libri che giacciono (quasi) dimenticati. L’oggetto di studio del momento è il periodo di Enrico VIII, nell’Inghilterra della prima metà del XVI secolo: tempi cupi, freddi, umidi e pieni di sporcizia, fuori, dentro e addosso. Causa elezioni, sono rimasta ferma al capitolo della peste che esplose ai primi di giugno del ’33. Non era come quella manzoniana, non prevedeva bubboni nella sintomatologia, ma aveva una caratteristica che la rendeva temutissima: era fulminante. Neanche il tempo di raccogliere le proprie cose e scappare dai focolai infettivi che in un paio d’ore il malcapitato era bello che stecchito. E i medici, almeno quelli che accettavano di visitare gli infetti, non potevano fare molto: si limitavano a fare salassi, a impacchettare il malato nelle coperte per favorire la sudorazione, cospargendolo al più di miscugli di erbe e di Dio sa cos’altro. In tutto questo scenario, l’ambiente non doveva risultare particolarmente salubre e profumato, visto che si moriva per strada e là si rimaneva. In soldoni, se non si arriva al 6 e 7 maggio, non riuscirò mai a finire il capitolo della peste: avendo lo stesso bioritmo di una gallina, la sera, più di due paginette non riesco proprio a leggere. Prima di addormentarmi però (e non so se questo la gallina lo faccia, sicuramente a modo suo sì) rifletto e arrivo a qualche conclusione. Viviamo una condizione di benessere elevatissimo, anche solo rispetto a cinquanta, sessant’anni fa. Vivere risulta, non per tutti certo, ma per la stragrande maggioranza di chi sta leggendo, un’avventura decisamente più lunga e confortevole. Poter fare un bagno caldo quando vogliamo o accendere le luci di sera e i termosifoni d’inverno sono cose per noi scontate sì, ma di conquista relativamente recente, che ha migliorato di molto la nostra quotidianità. Purtroppo ancora ci si ammala, si soffre, anche se i medici per fortuna ne sanno molto di più rispetto ai cerusici dei tempi di Enrico VIII. Eppure quello che non posso tollerare è che, nonostante ci siano figure professionali ottime, la sanità rimane molto lontana dall’essere accessibile a tutti. Districarsi nella burocrazia, nei corridoi delle strutture ospedaliere, negli uffici per prenotare una visita risulta impossibile per chi è impedito dalle sue stesse condizioni e per chi non possiede i mezzi cognitivi o le conoscenze giuste: non si tratta di essere laureati o no, anche solo un’imbranata come me non riuscirebbe a trovare nemmeno la strada del reparto. Insomma, se uno si ammala ha la speranza di guarire, ma se uno è ammalato e pure solo, be’, allora è proprio dura. Ecco perché, e qui torniamo alla campagna elettorale, chi lavora nelle strutture sanitarie a vario titolo, anche il più modesto, diventa un buon ricettacolo di voti: un malato, che certo già di suo è giustamente sconfortato, abbattuto e spaventato, vede come un salvatore già chi gli indica il corridoio giusto, figuriamoci chi lo inserisce in pole position nelle liste d’attesa per le visite specialistiche. Va bene, e per coloro che non sono amici di nessuno? Non è un problema che si risolverà a stretto giro, probabilmente tra cinquecento anni qualcun altro, magari dopo aver parlato di fiori, di make up e di galline, scriverà di quanto fossero difficili le condizioni di vita nel XXI secolo.