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Perchè il lavoro rende schiavi | "Cronache di un connesso viaggiatore" di Salvatore Lucignano

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

26
MAR
2019

La frase “il lavoro rende liberi” è impressa in modo tragico nella mente di chi ha visto filmati d’epoca dei campi di concentramento nazisti. Oggi pare sia cambiato davvero poco, perché la mitologia del lavoro continua a promettere libertà e benessere, mentre milioni di persone sono impiegate, sfruttate, costrette, seppure in un’armatura perfettamente legale. La legge della domanda e dell’offerta si applica anche agli umani e non desta alcuno scandalo. I tentativi di un’avanguardia abbastanza isolata e minoritaria, tesi a proporre un diverso modo di intendere i rapporti tra ricchezza e impegno, rimangono frustrati dalla bulimia della globalizzazione. Se non ce la fai puoi sempre emigrare, o trovarti un posticino in cui andare a morire, lontano dai fasti e dalla corsa di chi continua a sprizzare energia ed ottimismo da tutte le rendite.

L’andare altrove però è ormai un mito sgonfiato. Sempre più si può dire che tutto il mondo è paese, ovvero che i meccanismi dell’annichilimento della persona, immolata sull’altare della sua funzionalità, riescono a diventare pervasivi e totalizzanti. Non conta quanto sei valido, ma quanto sei utile. Se sei utile sopravvivi, diversamente soccombi. In questo scenario le nuove forme di schiavitù di nutrono della complessità artificiale che descrive i rapporti tra sfruttati e sfruttatori. Le sovrastrutture necessarie a indorare le pillole diventano sempre più subdole e subliminali. La catena esiste, ed è sempre più stringente, ma viene chiamata con altro nome. Qualcuno lo disse, tanto tempo fa. Pareva morto, ma è ben vivo e lotta insieme a noi.   



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