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Simona Vinci/ La mia solitudine cercata

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

6
FEB
2015
Leggere e scrivere: null’altro è così importante per l’autrice del discusso “Dei bambini non si sa niente”, opera che infrange il tabù della sessualità dei più piccoli. E anche ora che è madre rivendica la scrittura come unica cosa che davvero le appartiene 
 
La scrittura è vita, diceva François Truffaut, scrivere significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, prolungando i giochi dell'infanzia. La scrittura non è mai  ostacolo, ma  ponte privilegiato tra la nostra interiorità e quella degli altri. Si configura come una preziosa arma in grado di veicolare concetti profondi e forti con la leggerezza di un gioco, è bisogno costante e quotidiano di fare i conti con la parte buia che dimora in ognuno di noi, è antidoto contro i propri demoni interiori che spiattellati su un foglio vengono disarmati. La scrittura è la vita e sceglierla significa accettare ufficialmente e scientemente pro e contro del mestiere di scrivere. Simona Vinci, secondo il mio parere, veste perfettamente questi panni, la sua è una scrittura  fortemente cruda-intimista-filosofica-ombelicale. Simona irrompe sulla scena letteraria italiana nel 1997, con il discusso Dei bambini non si sa niente, vincitore del Premio Elsa Morante opera prima. Da allora, il percorso letterario di  Simona Vinci è stato tutto in ascesa.
 
 
Riprendendo un pensiero di Marguerite Duras: “Scrivere era l’unica cosa che popolava la mia vita e che la incantava. L’ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonato. Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque”. Come e quando è nata in  lei  l’esigenza di affidare alla scrittura il  suo sentire più profondo?
«Ho cominciato a scrivere da bambina, verso i sette, otto anni. Essendo la lettura la scoperta più affascinante e incredibile che mi fosse capitata fino a quel momento, credo mi sia venuto naturale immaginare di poter attraversare la pagina scritta e andare a mettermi di là, nella posizione rovesciata dove credevo vivessero  i  misteriosi e senza volto che però avevano voci e la capacità di raccontare storie. Non ho mai voluto davvero altro, nella vita, che leggere e scrivere». 
 
Quale dovrebbe essere il compito della scrittura oggi? Per lei è una sorta di veicolo per liberarsi e per liberare esorcizzando  paure e fantasmi interiori  attraverso il racconto?
«Non credo che l’arte abbia alcun compito specifico. Non mi interessa la letteratura che si definisce (o peggio auto-definisce) d’impegno (civile, politica, educativa) perché queste cose, l’arte le fa senza il bisogno di volerle farle. L’arte è un’espressione dell’umano, è un modo di riflettere sul mondo, sul tempo, sul senso (o non-senso) del nostro esserci e passare sulla Terra, è esercizio di respirazione linguistica. Circolazione di idee tra sé e sé, tra sé e altro da sé.  Credo che ogni artista abbia una speciale membrana che vive in un costante processo osmotico tra l’interno e l’esterno, si scrive di sé parlando d’altri, si scrive d’altri scrivendo di sé». 
 
Secondo Francis Bacon: "La lettura rende un uomo completo, la conversazione lo rende agile di spirito e la scrittura lo rende esatto". Leggere costituisce uno spazio di libertà mentale e di costruzione del pensiero, moltiplica le vite e le esperienze del possibile. Cosa rappresenta per lei  la lettura?
«Tutto. Non saprei vivere senza leggere e anzi spesso ho sognato e sogno di poter vivere non facendo assolutamente nient’altro che leggere. Mi rendo conto che la mia è una dipendenza incentivata e acuita dal fatto che amo molto la solitudine». 
 
"Dei bambini non si sa niente" segna il suo esordio letterario. Un  romanzo che apre spunti di riflessione, uno schiaffo inflitto alla nostra claudicante moralità e  che rivela una sessualità cruda, propria del mondo dei più piccoli. Secondo lei il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza è un tabù per molti genitori e  questo impedisce di fornire  gli strumenti adeguati per diventare adulti?
«Volevo raccontare la storia di un gruppo di bambini e ragazzini preadolescenti, volevo raccontare quel luogo segreto dell’infanzia dove ci sono i sogni e gli incubi, e costruire un mondo in cui gli adulti non potessero entrare. Anche se poi, come avviene nel romanzo, il mondo adulto riesce sempre a trovare il modo di entrare. Volevo anche evitare del tutto la funzione moralizzatrice di genitori e maestri. I bambini del romanzo scappano a giocare in quel capannone perché lì sono – o forse credono - di essere, liberi. Liberi dallo sguardo degli adulti, di tutti gli adulti. Uno sguardo che anche quando è amorevole, spesso è soffocante ed essendo spesso incapace di guidare in modo creativo l’immaginazione infantile, la spegne o peggio ancora, la rovina». 
 
Nei suoi libri l'infanzia ha un ruolo importante, per lei non è solo  il  periodo dell’innocenza ma anche  il tempo delle ingiustizie subite,  delle ambiguità perché i piccoli non hanno una personalità strutturata che permetta loro di difendersi da un mondo adultocentrico. Da cosa ha origine tale interesse?
«Non saprei rispondere a questa domanda, è così e basta. L’infanzia per me è la stagione più interessante e creativa della vita umana. Il resto è noia e asservimento. In realtà, mi pare che in ciò che ho scritto e scrivo, il fatto che l’infanzia sia il tempo della scoperta della crudeltà non significa che non sia al tempo stesso l’età dell’innocenza: se non lo fosse, non ci sarebbe turbamento nello scoprire “ingiustizie, cattiverie e ambiguità”». 
Nel coro diffuso sulla retorica della maternità, Simone De Beauvoir, già nel 1980 cominciò a demitizzare la maternità e soprattutto l’innato istinto materno  sostenendo che  non si nasce madre ma si diventa attraverso un lungo percorso interiore fatto di inadeguatezze, sentimenti contrastanti, periodi di difficoltà… per questo non  si deve sopravvalutare la maternità, essere  madre non è  un’attitudine innata anzi si impara ad allevare un figlio, a conoscerlo e ad amarlo. Secondo lei è così?
«Assolutamente sì. Poi io non posso negare, non vivendola, la condizione idilliaca di chi ha sempre desiderato la maternità e la vive come il senso e il fulcro della propria esistenza, però per me non è stato e non è così. Per 39 anni mi sono considerata una donna che non voleva e non avrebbe avuto figli. Poi il figlio è arrivato, sono contenta che la sua persona esista nel mondo, ma lui non è me, la mia scrittura sì. Un bambino, specie fino ai tre anni ha bisogno di accudimento, costanza, attenzione e di una quantità di cure – pratiche, psicologiche, emotive – infinite. Toglie spazio e aria a tutto il resto e questo è spesso frustrante. Credo che una donna non dovrebbe aver paura di passare per una cattiva madre se ammette lo sfinimento, e chiede un po’ di aiuto. Non credo affatto a quelle frasi tipo: “solo una mamma lo sa, solo una mamma può...”… Può anche un padre, possono un nonno o una nonna. Può chiunque abbia tempo, pazienza e amore». 
 


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