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L´OSTERIA DI ZIA ALMA

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

27
NOV
2015
Zia Alma non è la zia di nessuno, è solo il posto dove ci riunivamo da ragazzi prima di decidere dove andare. Era un’osteria sulla vecchia strada piena di curve che portava in città. Poi costruirono viadotti e tutto il traffico venne deviato e da quel momento dall’osteria di Zia Alma non passò più nessuno
 
 
< Ci vediamo tutti da zia Alma. >
Era la frase che usavamo, quando eravamo ragazzi o poco più, per indicare il posto di ritrovo serale o festivo. Si arrivava con le moto e si aspettavano gli altri. Eravamo sei sette amici, tutti imbevuti di idee rivoluzionarie e pronti a cambiare il mondo, con pochi spiccioli in tasca e la moto di papà. Poche parole per decidere dove andare e via all’avventura. 
Una volta, un sabato di non so quale anno, decidemmo di andare in un paese vicino. Qualcuno aveva assicurato che c’era una festa, una sagra dove si mangiava e beveva a sbafo.
Arrivammo e il paese era sprofondato nel mortorio più assoluto e nell’unico bar aperto c’era solo un anziano che fumava un grosso sigaro. Quando gli chiedemmo della sagra, prima alzò il bicchiere a mo’ di brindisi e poi ci disse che eravamo arrivati tardi perché la festa del si era tenuta tre settimane addietro. 
Dopo un coro di scemo, scemo, rivolto all’autore della trovata, decidemmo di tornare in città e mentre stavo facendo sgassare la mia Aermacchi 250, Tiziano si avvicinò con la sua lambretta e guardandomi attraverso i suoi occhiali, spessi come il fondo di una bottiglia, cominciò lo sfottò.
< Tutta salita. Bella bravura arrivare per primo, con un motore come il tuo. Vediamo in discesa cosa sai fare. Se perdi paghi da bere a tutti da zia Alma. Ci stai? >
Io ci cascai e così non pagai da bere a nessuno. La macchina che riuscii a scansare per miracolo, andando però a finire a volo d’angelo nei filari di un vigneto sottostante la curva, mi caricò e portò all’ospedale. Per non lasciarmi superare dalla lambretta non rallentai e così la curva la presi troppo larga e quando vidi la macchina che mi stava venendo incontro, non trovai altra soluzione che gettarmi nel vigneto: “ Contusione multipla alla spalla sinistra; quattro punti di sutura sulla fronte, escoriazioni su tutto il corpo.“ Questo il referto del medico. Fuori dal pronto soccorso mi stavano aspettando gli amici e come mi videro si misero a ridere. Ero diventato marrone per la pomata di ittiolo che mi avevano spalmato sulle ferite e perché ero tutto bendato come una mummia. Tiziano, forse sentendosi in parte responsabile dell’accaduto mi venne incontro e mi prese sotto braccio e giunti sul piazzale mi disse: < Sali e tieniti forte. > < E la mia moto dov’è? > Chiesi guardandomi intorno. < L’abbiamo lasciata dove sei finito tu. Nel vigneto. > Mi rispose mettendo in moto. Arrivato a casa chiamai mia madre: < Mamma dove sei? >  < Ma dove sei stato. Ero preoccupata. > Le sentii dire mentre si stava alzando. Ma vedendomi in quello stato si mise una mano sulle labbra e scivolò lungo la parete del corridoio e svenne. < Ma cosa ti è successo. Cosa hai combinato? > Chiese, con un filo di voce e bianca come un cencio, quando rinvenne. < Niente mamma, sono caduto con la moto ma non mi sono fatto niente. > Le risposi. < Sono sicura che non mi lascerai invecchiare se continui a farmi prendere certi spaventi. >
Diverso fu l’approccio con mio padre, quando rientrò. < E la moto? > Fu la sola domanda che mi rivolse quando mi vide. Mia madre, ancora scossa, intervenne piccata per chiedergli a cosa mai stesse pensando, ma lui le rispose che io ero li e mi vedeva, ma la moto no e voleva sapere deve l’avessi lasciata. Il mattino successivo andammo a prenderla sotto il vigneto e in ospedale ci tornai due giorni dopo con mia madre, perché quel giorno mio padre non volle accompagnarmi: < Per evitare che ti spezzi anche l’altro braccio. > 
Erano passati non so quanti anni da quell’episodio ed ero tornato nella mia città per seguire un convegno sulla cardiologia applicata. Avevo letto su una delle tante email che arrivano in clinica, l’invito per la partecipazione al convegno e così il mercoledì pomeriggio partii. Avevo prenotato in un albergo del centro e mentre stavo uscendo per fare due passi, sentii dei ragazzi che salutandosi dicevano:  < Allora d’accordo. Ci vediamo più tardi da zia Alma. > Poi si divisero e uno venne verso di me. < Scusami. Posso farti una domanda? > Gli chiesi. Lui si fermo e squadrandomi da capo a piedi e rispose: < Che c’è? > < Sono di qui, ma manco da anni e ho sentito che vi siete dati appuntamento da Zia Alma. Ma è sempre la stessa osteria che dico io? Quella sulla vecchia strada per il lago e prima del vecchio mulino? > Lui fece un passo indietro, come a chiedersi cosa diavolo gli stessi domandando e poi rispose di si. Ma era troppo giovane per poter collegare quella vecchia osteria che intendevo io con la nuova trattoria che diceva lui. Ma intanto avevo scoperto che la vecchia Zia Alma era ancora li, con le sue betulle che d’estate facevano ombra a chi voleva stare all’aperto. Il mattino dopo, durante le pause del convegno, avvicinai una collega del posto e, anche se molto giovane, le chiesi se conoscesse un’osteria denominata Zia Alma. Lei sembrò fare mente locale e poi rispose che forse si trattare di una trattoria fuori mano, in aperta campagna, vicina ad un vecchio mulino. < Sì, è quella. > Le risposi. < Perché questa domanda? > Aggiunse lei. Le spiegai che da giovane frequentavo quel posto con gli amici e aggiunsi che ero stupito nel sentire dei ragazzi che si erano dati appuntamento con la stessa frase che usavamo noi, venti anni addietro. Restammo a parlare ancora della zia Alma, che lei non sapeva nemmeno chi fosse, anche se, precisò, qualche volta in quel locale ci era andata con gli amici. < Ti andrebbe questa sera di venirci con me, per indicarmi la strada? > Le chiesi. Consapevole della gaffe che avevo fatto, visto che poco prima le avevo detto che da Zia Alma mi incontravo con gli amici. < Cos’è un modo trasversale per invitarmi e poi provarci? Presentiamoci almeno. > Aggiunse allungandomi la mano: < Mi chiamo Cecilia Bell’Anno. Piacere. > < E io Gabriele Belloni. Piacere. > E poi aggiunsi che per l’invito a cena forse aveva ragione, avevo corso troppo, ma che mi avrebbe fatto piacere andarci con lei, perché volevo rivedere quel luogo, ma da solo sarebbe stata una tristezza.
Finita la prima giornata di convegno Cecilia mi dette appuntamento per le venti davanti alla stazione degli autobus. Come un ragazzino alle prime armi, una volta tornato in albergo mi ficcai sotto la doccia, provvidi ad una nuova rasatura e a consumare mezzo flacone di lavanda. Mi rammaricai per non essermi portato uno dei miei abiti migliori e allora indossai la solita camicia azzurra a righe, l’abito grigio e poi uscii. Poco dopo le venti la vidi arrivare e le andai incontro. Era elegantissima, tanto che le chiesi se avesse deciso di farmi sfigurare. < Ma no, Che dici? E’ un semplice abitino, serio e castigato. > Percorsa la strada nuova e svoltato a sinistra, dopo pochi minuti arrivammo alla trattoria che trovai sempre la stessa, ma ora l’insegna luminosa non indicava più Da Zia Alma, ma “Al Galletto Ruspante.”  Il luogo era molto cambiato da come lo ricordavo io, e anche l’interno non permetteva nessun accostamento con le vecchie pareti, ora tutte piene di quadri e foto, mentre all’epoca erano ricoperte, come il soffitto, solo di fuliggine. Poi arrivarono i figli e i nipoti e loro smisero di ascoltare il rumore delle auto che passavano lontane senza fermarsi e decisero di diversificare l’attività e di tentare, offrendo a prezzi stracciati la cerimonie nuziali e il successivo primo battesimo, tutto incluso. Da allora la vecchia osteria cambiò nome e divenne all’occorrenza ristorante, trattoria e pizzeria e la gente tornò ad affollare il locale.
La serata era calma e con Cecilia parlammo del nostro lavoro e delle sue aspettative. Si era laureata da poco e stava facendo tirocinio nell’ospedale della città e stava per specializzarsi in cardiologia, per questo seguiva tutti i convegni medici sull’argomento. Finito il convegno ci salutammo e tornai a Roma.  Con Cecilia ci sentivamo di notte, quando eravamo di turno, lei in ospedale ed io in clinica. Non esistevano ancora i telefonini e allora prendemmo l’abitudine di scambiarci il calendario delle nostre turnazioni e così quando la notte eravamo di servizio passavamo ore al telefono. Ci sentivamo due tre volte al mese e sempre di notte. La sentivo come una cara amica e non volevo lasciare correre oltre la fantasia. Lei abitava e lavorava a Verona e io a Roma, ma era bello sentirsi, parlare di tante cose, anche intime, ma mai con secondi fini. Tornato dalle ferie estive mi venne in mente che con Cecilia non mi sentivo da molto e allora una notte provai a comporre il numero dell’ospedale e quando mi passarono il suo reparto mi rispose un uomo, il quale mi disse che la dottoressa Bell’Anno non era di turno e che l’avrei trovata il pomeriggio seguente. Quando richiamai rispose proprio lei, ma aveva una voce strana, stanca e mi disse che stava facendo degli accertamenti per dei malesseri, dei giramenti di testa, ma nulla di preoccupante e che mi avrebbe fatto sapere. La telefonata fu breve, ma l’imputai all’ora e agli impegni di lavoro. Mi richiamò una settimana dopo per dirmi che si doveva assentare e che pertanto in ospedale non l’avrei trovata. O meglio, in ospedale ci sarebbe stata ma da ricoverata. Le analisi che aveva fatto erano risultate alterate e le avevano consigliato di ricoverarsi per fare tutti gli accertamenti necessari. Io la rincuorai, ma la sua voce e il suo umore non erano più come prima, ma ancora non ci detti peso a quello che mi aveva riferito. Era così giovane e poi capitava e capita ancora che rifacendo gli esami tutto venga azzerato e si possa tirare un sospiro di sollievo.
Passò più di un mese senza che ci sentissimo e allora un giorno chiamai l’ospedale e così venni a sapere che era ancora ricoverata e che le cose non si stavano mettendo per niente bene e c’erano state delle complicazioni e il suo cuore ne aveva risentito. Chiusa la telefonata pensai di farle una sorpresa e di andarla a trovare. Sei ore di macchina e l’indomani, prima di pranzo, sarei stato da lei. Quando arrivai chiesi in quale reparto fosse ricoverata la dottoressa Cecilia Bell’Anno. < In terapia intensiva dottore. > Mi disse la capo sala del suo reparto. Scesi le scale annichilito e poi cercai di parlare con un medico curante e quando lo trovai, scuotendo la testa, mi disse che le speranze erano appese a un filo. Gli chiesi se potevo vederla e lui, allungandomi un camice che stava appeso all’attaccapanni, mi fece cenno di seguirlo. Entrammo in una stanzetta isolata con un solo letto circondato da monitor e apparecchiature lampeggianti. Cecilia, supina e immobile, era collegata alle apparecchiature con pinzette e ventose e aveva una flebo che le stava iniettando il siero. Il collega mi strinse un braccio e mi fece cenno con l’altra mano che si stava allontanando. Io gli risposi con un altro cenno e poi restai immobile a guardare Cecilia. Era dimagrita, scavata, ma sempre bella. Dopo un tempo che non saprei quantificare aprì gli occhi e mi sorrise, come se sapesse che ero li da sempre. Mi avvicinai e stringendole la mano mi chinai per darle un bacio sulla fronte. < Grazie per essere venuto Gabriele. Non sto bene. > Io le strinsi più forte la mano cercando di non far trasparire il mio stato d’animo. Rimanemmo così per qualche minuto e poi lei mosse le labbra. Ma non riuscendo a farsi sentire mi fece cenno di accostarmi a lei: < Gabriele: mi farebbe piacere tornare da Zia Alma. Mi prometti che ci andremo assieme? > < Ma certo Cecilia. Appena ti rimetti vedrai che ci andiamo da Zia Alma. > Le risposi, cercando di nascondere il viso tra i suoi capelli lunghi e sparsi sul cuscino. < Non mi prendere in giro Gabriele. Lo sappiamo tutti e due come uscirò di qui. Ma ti chiedo, quando succederà, di andare in quella trattoria e di sederti a quel tavolo, ricordi? Quello d’angolo vicino alla finestra e poi devi fare apparecchiare per due, per me e per te. Io ci sarò, anche se non mi vedrai, ma ti assicuro che ci sarò. Voglio portare con me questo ricordo Gabriele. Me lo prometti? > Il giorno dopo, verso mezzogiorno uscii dall’ospedale. A Cecilia avevano staccato i contatti perché non servivano più e allora volli mantenere la promessa. Arrivai verso nel locale che c’era poca gente e il tavolo d’angolo era libero e allora mi andai a sedere proprio li, come aveva chiesto Cecilia. < Cosa le portiamo signore? > Mi chiese una donnona che probabilmente era l’attuale padrona. < Per il momento per favore apparecchi per due. Aspetto… Aspetto una persona. > Le risposi, guardandomi intorno smarrito. < Intanto le porto il pane e da bere. Cosa preferisce: rosso o bianco? > Cercai di ricordare cosa bevemmo quella sera e poi dissi: rosso. Con la tristezza che mi stava attanagliando attesi il nulla. Poi mi alzai e con una scusa chiesi il conto. Il donnone dette un’occhiata al tavolo e poi disse di lasciare stare. Uscito mi avviai verso il vecchio mulino. La ruota era sempre li e stava girando, spinta da un rivolo d’acqua che cadeva dall’alto e pensai che anche lei girava e aspettava solo il nulla. Quando tornai indietro le quattro betulle che da sempre erano li davanti al locale, erano quasi del tutto spoglie, con le foglie ingiallite e il vento che le faceva volare via. Mi chinai e ne raccolsi due e le misi nel portafoglio. Mi venne spontaneo, forse per ricordo, forse per nulla.
< Nonno, guarda cosa ho trovato in questo libro. > Disse mia nipote Fulvia. E mi fece vedere che tra le pagine dei promessi sposi c’erano due foglie sminuzzate e secche, più un foglietto ingiallito e ormai illeggibile. Erano le foglie di betulla che avevo raccolto tanti e tanti anni prima, fuori dal locale di Zia Alma, quando ero ancora un giovane medico e scapolo, e poi, una volta giunto a casa, le avevo infilate in quel libro assieme al foglietto e li sono rimaste per trent’anni. E anche se il foglietto risultava ormai illeggibile, sapevo cosa ci fosse scritto: un nome, un luogo e una data, ormai lontane.
 


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